L'avvocato pensa



Messa  in si minore J.S. Bach BWV 232



"Avvocato è con noi, è pronto?", mi chiede il giudice. 
Alzo lo sguardo da gufo che prepara la mia discesa in udienza, la maschera che spesso indosso per nascondere l'evanescenza dei miei volti e dei miei pensieri di fronte ai destini di giovani vite. 
"Sì certo, dottoressa, quando vuole...". 
"Avrà avuto poco tempo per leggere la relazione dei servizi, avvocato. È stata depositata in ritardo solo l'altro ieri. Ha bisogno di qualche minuto per rileggerla?" 
"No, grazie dottoressa. Mi è tutto chiaro, possiamo anche cominciare l'udienza". 

Il mio sguardo non è più da gufo ora, ma da falco; ho puntato la preda e mi è chiaro che non mi può sfuggire. 
Maschera anche questa, pesante maschera; e una leggera sensazione di onnipotenza che mi prende le rarissime volte in cui percepisco la certezza della mia vittoria. 
"Bene, allora cominciamo". 

Il resto è come volteggiare sicuro su cieli per nulla minacciosi, puntare la preda, calarsi in picchiata, lo sguardo sempre più feroce, e bloccarla a terra con artigli potenti. Un colpo di becco secco e deciso al punto debole. 
Vittoria e assoluzione piena per la giovane imputata. 

Mi alzo, saluto la ragazza che manco mi ringrazia, e esco dall'aula. 
Mi accendo una sigaretta. 
Milano è bella; sembra un donna ben truccata e sensuale al primo appuntamento con un avvocato di mezzo secolo dallo sguardo ancora troppo penetrante. 
È difficile togliersi la maschera, troppo difficile farlo immediatamente. 

C'è un dato violento della mia professione, freddo e violento. Un'idea inesorabile delle proprie capacità e applicazione e studio che a volte si tramuta in mancato ascolto di ciò che ci circonda. 
Si punta l'obiettivo con la potenza concentrata del laser, certi del proprio effetto deflagrante. 
E non ci giro intorno; non lo si fa solo per il cliente. 
Lo si fa anche per confermare a se stessi la propria capacità di combattimento a mente fredda, la propria di tecnica di difesa. 

Certo, il fine è liberare una giovane esistenza da artigli ben peggiori di quelli che noi possiamo mostrare in udienza; emancipare l'imputato da un'idea di giustizia che non tiene in conto l'essere umano, dall'immaturità di vita di Pubblici Ministeri, troppo giovani per conoscere lo strazio di giovani vite abbandonate a se stesse. 
Ma tutto questo non basta per spiegare quella maschera. 
C'è un dato dell'amore che porto per il mio lavoro legato all'idea di mostrare freddamente muscoli giuridici troppo ben allenati per non deflagrare in montanti e diretti, fatti di eccezioni, obiezioni, silenzi e maschere, maschere su maschere. 

Per questo il silenzio dopo certe udienze diventa vitale. 
Bisogna ritornare in sé. Bisogna ritornare a essere se stessi, tornare al mondo rassicurante delle parole, dei libri, allo sguardo benedetto di un figlio, che ancora non capisce la santità, e il peso, della difesa di chi si sa aver commesso il fatto. 
E ha ragione. C'è un'idea di giustizia retta, senza compromessi, adolescente e sacra che mal si concilia con l'idea di democrazia del processo. 
È bene, è della sua età, che si ponga quella questione quando mi vede la mattina presto preparare nella borsa, assieme ai fascicoli, le mie maschere. 
Ne percepisce il taglio, la lama e mi pone la giusta questione. “Come fai?”. 

A tredici anni si è maestri del mondo. A tredici anni si è capaci di demolire ogni falsa ricostruzione di un sé fragile e prezioso, ogni rassicurante e limitata spiegazione del mondo altrui, con una semplice domanda. 
“Lo faccio per garantire l'equità del processo, Gabriel. È il mio ruolo nel mondo. Quello che ho eletto per me”. 
Certo, ma lui il peso delle mie maschere lo conosce meglio di come conosce i suoi giochi alla playstation. 
E tace capendo dal mio sguardo il rispetto che do alla sua domanda, che è prima, e molto di più di ogni mio goffo tentativo di spiegazione. 

Allora cammino lento verso lo studio. 
E la musica del Kyrie della messa in Si minore di Bach si fa strada in me. Quel coro a cui viene concessa la prima nota, prima dell'entrata dell'orchestra, quasi a risvegliarmi i sensi, mi stordisce. Piccola fuga, certo, ma dalle mie maschere che lente cominciano a dissolversi. 
E la seduzione di una Milano, troppo bella per non essere notata, comincia a farsi strada. 

“Post coitum omne animal triste, sive gallus...” (dopo il rapporto sessuale ogni animale, a parte il gallo, è triste...), dice Galeno. 
E io non sono stato gallo, ma falco. E non do la sveglia al mattino a contadini dormienti perché arino i campi. Io volteggio, plano, poi calo in picchiata, forte del peso della mia maschera, e piombo dall'alto con artigli potenti e con becco feroce colpisco. 

Perché il processo abbia ancora un senso, di queste vesti devo accogliere le stoffe; nere, come la mia toga. 
Certo non sempre. A volte un processo è un duello fine ed educato, con piccole stoccate di fioretto e protezioni per ogni parte. Giochi sottili in cui l'ironia, l'erudizione e le citazioni extragiuridiche possono avere uno spazio. 
In quei casi lo sguardo non è da falco e non c'è alcun coito cui far seguire la propria tristezza. E non è musica di Bach che ti accompagna quando l'udienza finisce. 

Cammino e il volto di mio figlio si mescola con l'entrata dei tenori nel Kyrie. La stessa potenza, forse un po' trattenuta, dolce. Un volo planato sul mare, da gabbiano al tramonto, mentre un'orizzonte etico, ancora troppo giovane per spezzarsi sotto maschere di cera, si tinge di rosso. 

Vola Gabriel; ritarda più che puoi maschere inutili sul tuo volto di sogno. 
E atterra dolce su spiagge dorate, senza artigli, né becco, né preda. 
Vola e continua il tuo canto fatto di domande che dissolvono i costrutti evanescenti della vita di un uomo. Tuo padre. 
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