Lettere a una persona speciale - 61 - Marzo 2024 - "Nebbie"

 


Forse in questo carteggio folle qualche scoria, qualche residuo di un mio pensiero radioattivo resiste. 
O forse ancora scriverti per liberarmi dal costante desiderio di evanescenza non è stata una buona idea. 
So che, fuori dalle porte della città che mi ospita, in inverno dimorano ancora le nebbie che Milano ha espulso ormai da tempo e che avevano una funzione per me vitale. 
Il Bardo ci dice fatti della sostanza dei sogni, ma anche il sogno è costituito da nebbie e il nostro - il mio -  vagare per quelle lande è in fondo un atto di resa ad un linguaggio che non si può conoscere, o decifrare, mai del tutto. 
Tu ascolti, mi leggi, e so di quel tuo vizio di sussurrare ogni scrittura sottovoce, quasi a cercare nel suono delle parola una poesia che sia prima e al di là di ogni significato.
Fa tenerezza quel tuo gesto bambino e antico che odora di ripetizione mantrica, di formule arcane. 

Ma non farne uso per queste mie lettere, se posso suggerirtelo. 
La nebbia non va ripetuta al mondo, se non vuoi che si incolli alla sua pelle. E il mondo di tutto ha bisogno meno che delle mie parole come tatuaggi sporchi e indelebili. 
Sono troppo fragili e incerte per lasciare un segno di crescita o, al contrario, troppo vissute per poter uscire dall'orrida scatola del mio ego. 
Queste mie lettere andrebbero lette come si osserva il paesaggio da un treno in movimento, senza provare a fermarne le immagini...nemmeno nelle memoria. 
Le mie sono parole oblique: non le vedi rotolare senza meta anche tu sul piano scosceso dell'incomunicabilità?
Le mie parole sono gesti goffi, sempre più ritratti e infantili. 
Sono, dicevo, scorie di voci lontane e antiche e superbe. 
Se solo ne riuscissi a trascrivere il racconto su carta davvero, se potessi, anche per un solo istante, rimanere fedele al loro timbro, avrei dato un senso al mio stesso esistere.
Ma nel mio palato quelle voci, che percepisco pure all'orecchio, si incagliano e subiscono senza tregua la simbolica artrosi delle mie mani. 
Restano come scorie tra le dita; scorie di voci dorate a cui non riesco a ridare forma completa, nemmeno per te. 
A volte ne piango, sai, perché il contatto costante con la propria inadeguatezza fa male. 
A volte sorrido, perché so che sai e comprendi e di questo uomo, che tieni lontano e vicino allo stesso tempo, conosci ogni inciampo e storta e frattura. 

E se il mio sorriso non è più bambino che vuoi che sia, petalo?
Non fu sorriso bambino nemmeno allora, lo sai, quando ebbi la teorica occasione di vivere un'infanzia e e se sorridevo al mondo era per ripetere in modo compulsivo ed ebete lo stesso "che vuoi che sia?" al muro azzurro della stanza immaginaria.
Mi ha salvato allora la scrittura e un che vuoi che sia che fu benda vitale per degli occhi che avevano troppo visto.

Tuo
Fedro
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