Ricorda (sempre Oblivion)

 


scrittura esile/scrittura esule

Ricorda, o almeno lascia che io ricordi.

C'è stato un tempo in cui i nostri sguardi si incrociavano; e poi fuggivano ritrosi a terra.
Ed era la medesima terra ad accogliere le nostre timidezze. 

Una terra fertile, allora.
Là, a terra, ci scambiavamo un canto e le mani non osavano ancora sfiorarsi.

Erano i tempi di noi bambini e timidi (elettivi dicevi), di un noi ancora bambino e timido, ma eravamo ancora aperti a tutte le parole da venire.

Ed erano parole che, forse, non abbiamo mai detto, ma per certo entrambi abbiamo immaginato, milioni di volte.

Gli occhi chiusi, lo sai, abbiamo pensato miliardi di volte quelle parole compiere voli sulle nostre pelli
e tramutare il nostro epitelio in tessitura d'amore.
Che al potere della parola, lo sai bene, abbiamo sempre creduto entrambi, con tutte le nostre fibre.
Ed è inutile fingere tra noi; ci crediamo ancora.

Ricorda, o almeno lasciami ricordare, la dolcezza del primo bacio, la timidezza della tua voce, poi, e la mia finta sicumera.

Io gioco a fare il samurai ormai da troppo tempo, ma so bene che la fodera della mia spada è bucata e la lama sbrecciata.
Lo sapevi anche tu e sorridevi piano. 
E io sorridevo al tuo sorriso, io che amavo forte il nutrimento d'amore della tua ironia.

Già. Erano i tempi in cui accoglievamo con tenerezza i nostri limiti così piccini e ne facevamo progetto di crescita.  Assieme. Forse.

O sì, potrei dire ora che non ho compreso nulla. 
Né di me, né di te, né del mondo; allora.
 
Ma se lasci che ricordi (e forse per questo ti è così difficile farlo) quegli istanti in cui tutto poteva ancora essere, che non dimentichi la purezza di ciò che sorge, che resti nella mia mente il nostro sguardo perso su un orizzonte comune, anche se istantaneo e pieno di paure, se lasci, dicevo, al ricordo l'onere di svolgere il suo compito antico, allora nulla ( ma davvero nulla ), si spiegherà come è stato spiegato sin ora.

Io ora ricordo (e vorrei che lo facessi anche tu) ciò che era prima di ogni prima, e così facendo ricordo (e vorrei lo facessi pure tu) come avrebbe potuto essere poi.

Per questo perdono ciò che è stato e ricucio piano una tela strappata.
D'altronde è scritto, gli ebrei sono buoni sarti e hanno una lettera (la Vav) che poi è un ago che tende un filo d'oro tra passato presente e futuro.

La fodera della mia spada è rotta, non così l'astuccio delle mie penne che mi dicono che ciò che poteva essere, per la mia mente è stato e ancora è.

Sono penne, le mie, che vogliono essere impugnate un'ultima volta per scrivere una parola sacra.

Non è solo questione di accenti, né di prestidigitazione della parola da enigmista di basso rango.
Ogni perdono, lo sai, contempla una perdita e ogni perdita porta al perdono, se si ha la pazienza di impugnare ago e filo.

Questo volevo dirti, solo questo.

Ricorda o, almeno, lascia che io ricordi e che pronunci sottovoce un nome ancora una volta dal mio luogo celato.

E siano aghi e fili le mie, le tue, le nostre parole; anche se inascoltate.




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Commenti

  1. Stupendo. Questo testo, che sa di commiato, che si pone come conclusivo, m'incanta

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  2. https://youtu.be/n0JWw6KbKJg

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