I sogni di Mordechai (cap. 1-13)

Foto di Sergio Daniele Donati

01 Incipit 

Mordechai uscì dalla sinagoga con un malessere di fondo.
Parashà e Haftarot questa volta non erano riuscite a sollevarlo da terra.
E quel grido, quello strazio, era come un tocco di campane d'inquisizione nelle sue orecchie
Camminava, col cuore in affanno, e a nulla valevano le parole che il Rebbe gli aveva rivolto all'uscita.

"Le cose tornano, Mordechai. Magari trasformate, ma tornano. Sempre".
L'aveva guardato a lungo, senza parlare.
Poi era andato via.

Come può tornare ciò che mai è arrivato? E che cosa poteva mai capire un uomo di novant'anni degli affanni di un giovane. 
Mise le mani in tasca e ci trovò il solito sassolino.
Lo strinse, come sempre, e si sedette sul marciapiede.

La gente passava indifferente, le ore passavano indifferenti, i ricordi passavano... differenti.
Si tingevano di colori diafani, tonalità mai viste, di spiegazioni mai pensate.
Mordechai chiuse gli occhi.
I suoni del villaggio sembravano lontani, sempre più lontani. 
E le vide tornare, almeno loro.
Allegre compagne, gioiose, casinare compagne di una vita: lettere antiche, rimbambite e ilari.
Gli ponevano domande strane.

"Dimmi il tuo nome", chiese la Kof
"Lascialo stare", intervenne la Lamed, "dagli il tempo di apprendere".
Una Iod piccolissima, calda come lava, si posò sulla sua guancia sinistra e, danzando, gli asciugò le lacrime.
Intanto la Bet, con voce suadente gli ripeteva
"Torna da te, torna a casa, torna in te".

Di lontano due lettere guardavano la scena.
La Aleph, austera e muta, in cielo, piegò la sua stanghetta destra a indicargli un cammino.
Mordechai piangeva e la Iod aveva un gran da fare. 
Saltellava da un punto all'altro del viso per asciugare ogni lacrima. 
La lasciava uscire dagli occhi e la evaporava, trasformandola in una nuvoletta azzurra. 

La Nun Sofit si sdraiò accanto a lui in silenzio, così, solo per fargli sentire la sua presenza.
Het e Dalet e Zain, folli come sempre, danzavano in cerchio. 

Mordechai in mezzo piangeva e rideva, rideva e piangeva.

"Basta", disse con voce baritonale la Tzade.
Tutte le altre lettere, eccetto la Alef, interruppero i loro giochi.
Quando Tzade parla non c'è chi non ascolti.

"Mordechai, ascolta", disse, "è ora che tu apra gli occhi".
Poi poggiò uno dei suoi rami alti sulla sua fronte.
Mordechai si sentì inondare da un flusso antico, fatto di gioie e dolori. 
Het e Yod si abbracciarono emozionate.
Mordechai aprii gli occhi.

Dall'altro lato della strada sedeva il Rebbe.
Il suo volto era rigato di lacrime, come quello di Mordechai.
Si scambiarono un lungo sguardo. 
Poi si alzarono e ciascuno prese la sua strada.

02 A casa

Mordechai arrivò a casa molte ore dopo. Se la mente è confusa il corpo deve sostenerla.

Aveva camminato nel quartiere a lungo, senza meta. Aveva incrociato sguardi empatici, di comprensione, mani sulle spalle lasciate intuire, nell'etere. E poi sguardi di seduzione. 

Non c'era donna che non trovasse Mordechai attraente. 

Da Norah, la figlia del rigattiere, quella dagli occhi color smeraldo, a Zilia, la seducente proprietaria di mezza età della panetteria, tutte lasciavano intendere a Mordechai i poter magici delle sue dita. Sarebbe bastato un suo schiocco per farle cedere.
Mordechai era un magnifico giovane uomo. Capelli castani, sguardo lontano, meditativo, occhi color del cielo. Un perfetto ariano. Di razza ebraica.

E poi lui era Mordechai, il navigatore dell'onirico, e conosceva una parola sola, un vincolo solo, un legame unico, ora spezzato.
Aprì la porta di casa e si fermò sulla soglia.
Libri ovunque. Appilati in ogni stanza. A migliaia. 

E in mezzo ai libri foglietti. Appunti presi nelle sue notti insonni, quando, prima dello strazio, si soffermava per ore a osservare lo spazio vuoto tra due lettere. 

In silenzio. Immobile. Osservava e poi, come preso da un raptus, cominciava a scrivere, migliaia di parole su quel vuoto, centinaia di commenti sul valore infinito di uno spazio bianco. Infinitesimale.

Nell'altra stanza di notte, mentre libri, e parole e lettere danzavano nella sua mente sentiva il respiro di Rivka. Il basso continuo delle sue intuizioni. E si fermava a guardarne il volto e la baciava, inconsapevole (forse). 

"Tu sei la Iod della mia esistenza Rivka, non lo dimenticare", le sussurrava. 

E , se un sorriso increspava le labbra di Rivka, Mordechai era certo che il messaggio era giunto. Altrimenti, ne era sicuro, sarebbe arrivato per altre vie.
Mordechai e Rivka erano uniti, sposati, legati dal filo di lino dei sogni. Da sempre. 

Una stanza azzurra solo per loro dove far riposare le loro fatiche e guardarsi in silenzio e prendersi per mano e sognare per loro il mondo che stentava ad arrivare.

Rivka non commentava i Testi. Scriveva poesie. E davanti ai suoi versi il Salmista si copriva pudico il volto e Moshè Rabenu taceva e Miriam danzava e cantava e suonava i suoi flauti.
I versi di Rivka avevano un incedere regale e smuovevano le più antiche montagne.
Rivka li raccoglieva nei suoi taccuini, tutti uguali, color indaco.
“Io sono l'indaco della tua vita, Mordi,” ripeteva sempre. E Mordechai provava un brivido profondo. Ogni volta.
Mordechai si sedette al tavolo di lavoro. Raccolse l'invito di una bottiglia di vodka aperta e se ne versò un bicchiere, forse troppo abbondante. Poi un altro.
“addio libri”, diceva. “addio lettere e foglietti”, ripeteva mentre, bicchiere dopo bicchiere, la sua voce si faceva più spezzata.
“Tenete voi, dentro di voi, con voi, l'indaco di Rivka.”, io devo andare.
“io non sono che lo spazio vuoto tra due delle vostre lettere, lasciatemi andare, vi prego”
Annah, la gatta tigrata, si avvicinò a Mordechai.
Timida, trovata denutrita per strada pochi giorni prima, per la prima volta balzò sulle gambe di Mordechai e gli leccò a lungo le mani tremanti

03 Il sogno di Rivka

La vodka, si sa, è una guida diafana. Ti porta lontano, molto lontano, ma sempre troppo vicino al tuo stomaco. 
E se il cuore batte già irregolare, secondo aritmie caucasiche, la vodka, crea nuvole nella tua mente, e ti chiude gli occhi e tu ci entri come un principe sporco di fango nel regno del sogno. 
Mordechai chiuse gli occhi e la scena che gli si presentò davanti fu di terrificante bellezza. 
In alto, in un cielo plumbeo, la Tzade, immobile, lanciava fiamme di fuoco. 
Mordechai ne provava paura e le sue gambe tremavano. 
Istintivamente nel sogno strinse il suo sassolino in mano e fece il primo passo. 
Un albero sul fondo sembrava attenderlo. 
Era lì, ne era certo, che doveva andare. E sentiva di lontano una musica famigliare: Sherazade di Rimsky-Korsakov. 
Il violino lo chiamava da dietro l'albero e aveva la voce di Rivka. 
Ad ogni passo la nebbia color indaco che circondava il panorama diventava più densa e i contorni dell'albero si facevano meno nitidi.
La Tzade in cielo fiammeggiava. "Fermati", sembrava urlare, "Ti è interdetto".
Ma Mordechai con occhi di sogno, avanzava, e avanzava, e avanzava. Lentamente. 
Il sassolino ormai diventato incandescente nella mano.
Le fiamme della Tzade divennero prima blu e poi color argento. 
E lanciavano raggi che colpivano la pelle di Mordechai. le gambe, il viso, le braccia.
Mordechai alzò lo sguardo verso la Tzade e urlò: “lo sai che nemmeno tu puoi fermarmi, ustionami l'intero corpo ma io avanzerò fino all'ultimo respiro”.
La voce di violino di Rivka chiamava e chiamava, Mordechai piangeva lacrime, color indaco.
La Tzade emetteva suoni potenti, rulli di tamburo, squilli di ottoni, battiti di timpani.
L'albero era ormai vicino, a portata di mano, Mordechai tese il braccio.

"No, non ora”, disse la voce di violino indaco dietro il tronco. “non sono ancora pronta”.
“Non ho molto da vivere ancora, Rivka, lo sai”, gridò in uno strazio Mordechai.
“Dimmi perché. Perché in questo modo?”
Rivka taceva ma l'albero trasudava resine color indaco e qualche Iod si manifestava tra le foglie.
Mordechai sentì il cuore cedere. Uno strappo pari a quello tra le acque superiori e quelle inferiori, nella grande creazione, nel suo corpo.
Lo trovò per terra privo di sensi il suo amico Nathan.
Annah miagolava forte accovacciata sul suo petto.

04 Nathan il silenzioso 

Nathan si avvicinò, il volto inespressivo. Posò una mano sulla fronte di Mordechai e, dopo aver allontanato con gentilezza Annah, mise l'altra sul suo ventre. Respirava ancora. Era nel sogno, col sassolino incandescente nel palmo della mano.
Nathan corrugò la fronte.
Non c'era mai il Rebbe quando si aveva bisogno di lui. Aumentò la pressione al ventre e sentì qualcosa di duro, come un sasso, muoversi lentamente.

La nebbia indaco si era diradata. L'albero non c'era più e taceva ormai la voce di violino di Rivka. Nathan premeva e Mordechai, nell'altro mondo, provava un immenso dolore al petto. 
Cercava di urlare ma le parole gli si bloccavano in gola. 
Era solo. Persino la Tzade e le Iod erano sparite. 
Era solo nel nulla. In un nulla senza suono. 
Chiamava a sostegno le lettere ma nessuna rispondeva, nemmeno di lontano. 
E cominciò a pregare, come mai aveva fatto. 
Supplicava dal Creatore una spiegazione e le sue preci erano strazi nel firmamento. 

Perché Rivka, perché l'indaco della mia vita? Perché proprio lei?
Nessuna risposta. Nemmeno nel silenzio.

Nathan, suo vecchio amico, non perdeva un respiro e sudava dalla fronte come una fonte d'inverno. 
I palmi delle sue mani ricevevano le suppliche di Mordechai come fossero battiti di un tam-tam tribale. E cominciò a ripetere: lo bashamaim, lo bashamaim, lo bashamaim.

"Non è nel cielo" la risposta. La Torah e la vita sono dati all'uomo, ed è onere dell'uomo interpretarle. L'autore si separa dalla sua opera, sempre. Inutile chiedere a lui una spiegazione.

"Lo bashamaim, amico mio", diceva piano Nathan piangendo. 
"Non è il cielo l'interprete, sei tu".
Mordechai vide in cielo una luce, lontana. Si avvicinava lenta. Una luce rosso terra. 
Si avvicinava sempre di più. Cominciava a percepirne i contorni.
Era una Lamed. Si avvicinava con un suono di cembali antichi.

Nello sfondo Mordechai sentiva la voce del suo amico ripetere senza sosta: lo bashamaim.
"È ora che tu apprenda, figlio mio", gli disse la Lamed posandosi decisa al centro della sua fronte.

Mordechai urlò e lo spettacolo che gli si presentò davanti, terrificante e magnifico, fu accompagnato ancora una volta dalla voce di un amico che ripeteva ancora e ancora lo bashamaim e da un miagolio famigliare. 
Annah aveva i suoi cieli e li stava inviando in ausilio di Mordechai, bloccato nel sogno.

05 Il Rebbe e un bambino

Il Rebbe spalancò la porta sudato e trafelato. 
Vide il corpo di Mordechai esanime a terra e il viso di Nathan segnato dagli sforzi di un intera notte. I loro sguardi compassionevoli e straziati si incrociarono.
“Siamo già a questo punto?”, chiese il Rebbe. Nathan non rispose ma il suo “lo bashamaim” gli si strozzò in gola in un singulto.
“Annah ha mangiato?”, chiese il Rebbe. Gli occhi di Nathan diedero fulmini e saette.
“Nathan, Annah ha un ruolo e deve essere in piena forma, è lei che riporterà Mordechai a noi”.
Prese degli avanzi di pollo e dell'acqua e li diede ad Annah.
“Per salvare un'anima non si deve dannarne un'altra, Nathan, mai, nemmeno se l'anima da salvare è la propria”.
“Lo bashamaim è stata un'ottima scelta, Nathan. 
Gli ha permesso di non varcare il muro dell'oscurità. Se non l'avessi recitata tutta la notte lo avremmo perso. Ma ora dobbiamo usare qualcosa di più potente. Di molto più potente.”
Il Rebbe tirò fuori dalla tasca un'antica pergamena. Portava scritto :

 וְהָאָ֗רֶץ הָיְתָ֥ה תֹ֙הוּ֙ וָבֹ֔הוּ וְחֹ֖שֶׁךְ עַל־פְּנֵ֣י תְה֑וֹם וְר֣וּחַ אֱלֹהִ֔ים מְרַחֶ֖פֶת עַל־פְּנֵ֥י הַמָּֽיִם
(E la terra era deserto e solitudine, e l'oscurità era sui volti dell’abisso; ed il vento di Dio planava sui volti delle acque).

Mise la pergamena sulla fronte del corpo inanimato di Mordechai e comincio a salmodiare lento:
חזור, נשמת מרדכי מתחום החלום 
(Torna, Anima di Mordechai dal regno del sogno)

Senza smettere di ripetere quel verso guardò attento Nathan. 
Piangeva lacrime calde. Il suo amico era perso. Il suo amico non tornava. 
E le sue parole, non erano riuscite a riportarlo a lui.

“Nathan, calmati”, disse il Rebbe, “la situazione è grave ma noi abbiamo tremila anni di storia da usare per questa emergenza. Non tutto è perduto. Mordechai sta facendo un viaggio periglioso da solo. Ma se perdiamo noi la speranza del suo ritorno, allora, sì, che sarà veramente perduto”.

Annah, finito di mangiare si era accoccolata al fianco del corpo di Mordechai miagolando.
“Brava Annah” disse il Rebbe, stai facendo la tua parte nella tua lingua, e credimi, non esiste solo una lingua sacra. Esiste la lingua delle lingue. Quella delle intenzioni. Miagola più forte che puoi. Fatti sentire nel regno del sogno e riportalo a noi.”

Poi riprese salmodiare la sua formula. 
La respirazione di Mordechai sembrava ora più profonda e regolare.
Si trovava ancora sdraiato con la Lamed, ora incandescente in mezzo alla fronte.
Gli ripeteva dei nomi. Sei milioni di nomi, ad uno ad uno. E lui li ripeteva a sua volta.
“Sono nomi che saliranno nel fumo”, Mordechai, ricordali, perché ci sarai solo tu e pochi altri a ricordarli.
Mordechai piangeva e ripeteva. La Lamed continuava incessante a dire i nomi, uno dopo l'altro.
“Raffaele Di Castro di Roma, Raphael Yositz di Lotz, Raffi Benatov di Odessa, Uriel Bataniel di Praga”.
Mordechai ripeteva i nomi e ne vedeva i volti. Disperati. Sembravano urlare piano: “ricordami, ricordami”. 
E lui tendeva loro la mano lentamente, cercando un contatto fisico con loro.
Ma erano fumo e non poteva toccarli. 
E poi c'erano i volti dei bambini e ogni volta il cuore di Mordechai si strappava per nominarli.
Sentiva latrati di cani e gente cattiva parlare una lingua dura, e ripeteva i nomi. 
Sentiva odore di fumo e rumori di treni, e ripeteva i nomi. 
Sentiva grida e ordini in una lingua estranea e vedeva prigionieri divisi in due file e ripeteva i nomi di ciascuno.

“Impara”, diceva la Lamed “e ricorda. Questo tra poco sarà e e tu li salverai tutti, ricordandone il nome".

Il cielo era color indaco e non accennava cambiare, nonostante fosse quasi notte. 

La luna era meravigliosa e cantava un'antica filastrocca, di quelle che le Yiddish Mame cantano ai figli agitati per farli addormentare. 
E Mordechai ripeteva i nomi; ripeteva i nomi e memorizzava i volti. Volti di uomini–fumo. Volti di fratelli e sorelle, di bimbi e anziani. Sentiva la parola MERAHEFET (planava) aleggiare sopra di lui e un vento potente e amico gli permetteva di continuare.

Oskar Donati di Modena, Marco Limentani di Roma, Yuri Babzal di Varsavia, Adma Lorenthal di Odessa, Anna Goldstaub di Minsk, Piero Donati di Milano, Esaù Levi di Parma...
Ripeteva i nomi e i loro volti si fissavano nella sua fronte. Uno ad uno. E chiedeva “perchè, perché?”. 

La domanda che aveva rivolto a Rivka la poneva ora ad ognuno di quei nomi. E nessuno rispondeva.
Solo uno un bambino, Gabriel, si fermò più a lungo davanti a lui.
Teneva un sassolino marrone in mano.
“Vedi, me lo ha regalato il nonno. Dov'è ora il nonno?”
Mordechai non seppe cosa rispondere. Era nel fumo assieme agli altri. Sarebbe finito nel fumo.
Mordechai fece un gesto della mano, come a volerlo carezzare.
“Tu sarai il futuro Gabriel. Non perdere mai il tuo sassolino”.

Gabriel sorrise e, mentre se ne andava via, si girò.
“Presto ritroverai Rivka, Mordechai. Questo mi hanno detto di dirti. Ma non prima che tu ripeta tutti i nomi. Tutti, e ne memorizzi i volti.”
“L'amore tuo e di Rivka è scritto nel cielo ma deve passare dal lago della sofferenza. Di sei milioni di uomini-fumo. Vi abbraccerete ancora e avrete dei figli, perché le nostre voci in cielo vi sostengono e ti faranno scrivere ciò che a pochi è dato scrivere e faranno cantare a Rivka musiche celestiali mai udite da orecchio umano. È il tempo Nathan, che tuo cuore si apra al ritorno dell'amore. Ora”.

Gli lanciò il sassolino. 
“Non è mio, né tuo. È il sassolino della trasmissione. Io ora ti ho dato un messaggio. Tra tanti anni dovrai dire lo stesso ai figli tuoi e di Rivka. Ora ti sembra persa. Ma l'amore ha vie arcane e forse cambierà nome prima di prenderti la mano. Ma io sono certo che ne riconoscerai i calli e il calore. Apri il cuore a ciò che sta per arrivare e memorizza nomi e volti. Niente altro ti è chiesto. Dietro ad un futuro buio, color fuliggine e cenere, splende la stella che cerchi. Si manifesterà quando sarà il momento. Ma tu apri il cuore e la mente e le orecchie, perché la stella ha già cominciato a cantare la sua litania”.

Si girò e, senza voltarsi, se ne andò nel fumo.

06 Annah e il demone

"Non sta funzionando, non sta funzionando", urlò di colpo il Rebbe. "qualcosa sta bloccando il processo".
Nathan con gli occhi rossi e lo sguardo spento lo guardava.
"Cosa mai potrebbe essere?", chiese.
"Solo Mordechai potrebbe dircelo, e noi non siamo nel suo sogno".
Poi si interruppe bruscamente.
"Noi no, ma Annah può far qualcosa".
Guardò con intensità la gatta che capì subito cose le veniva chiesto.
Appoggiò il suo occhio verde a quello azzurro di Mordechai e smise di miagolare. In casa si percepiva un silenzio profondo, di quelli che anticipano gravi momenti. Un silenzio di attesa. Occhio su occhio: Annah e Mordechai.
La Lamed sulla fronte di quest'ultimo fumava e l'uomo vestito di nero davanti a Mordechai lo guardava con aria sarcastica.
"Vuoi contarli tutti, ebreo?". " "A cosa ti serve? Non ne resterà uno solo. Nemmeno tu e la tua Rivka resterete".
Mordechai con il cuore che batteva all'impazzata continuava a guardare i volti e a ripeterne i nomi.
Yossi Benatof di Praga, Rachel Zivka di Sofia, Alberto Levi di Torino, Avram Lowhenthal di Berlino.
L'uomo vestito di nero ridacchiava.
"Come mai non è ancora venuta Rivka? Sarà mica già nel fumo e tu non potrai ricordarla".
Estrasse la sua pistola e la puntò alla tempia di Mordechai. "la vuoi raggiungere?"
La Lamed si staccò dalla fronte e si posò sull'occhio destro di Mordechai che si aprì sempre di più in modo innaturale.
Fu un attimo. La belva saltò fuori dall'occhio di Mordechai e graffiò e morse alla giugulare l'uomo vestito di nero, che cadde a terra; morto.
Poi Annah si sedette davanti a Mordechai miagolando.
Mordechai smise ripetere i nomi, il ciclo si era concluso.
Il cielo era ancora color indaco e riusciva a intravvedere lontano un albero di cedro. Sentiva cantare una voce celestiale. Di donna. Si fermò a ascoltarla con le guance rigate di lacrime.
"Tutti quei nomi, tutti quei volti", ripeteva piano, " e poi questo canto". Si rivolse a Annah. "Dove ci troviamo? "
La risposta venne dal cielo. Il firmamento di lettere che lo ricopriva, come se fossero stelle, in una notte estiva. Tutte in movimento attorno al centro; la chioma dell'albero. Danzavano al ritmo del canto celestiale. Ruotavano, pulsavano, vibravano. L'antica parola si formava attorno a quell'albero. La parola che sorregge le sorti del mondo, che, instancabile, anche dopo sei milioni di nomi e volti, risorge.
“Aspetta Mordechai”, disse la Lamed, “Non è ancora il momento dell'incontro. Ti devi purificare”.
Mordechai abbassò lo sguardo. “Non sarò mai più puro, non ho salvato quei volti”.
“Hai continuato a nominarli con una pistola puntata alla tempia”, disse Annah in lingua felina.
“Hai compreso che la memoria di quei volti e di quei nomi è ciò che regge la parola che si sta formando sopra l'albero. Non c'è purezza senza scelta Mordechai, mai. E tu hai scelto. Ti è stato donato un sassolino, è ora che tu ne faccia uso, prima dell'incontro ”

Foto di Sergio Daniele Donati

07 Purificazione e Rivka

Che cos'è puro? Ciò che non ha mai conosciuto il fango o ciò che ha saputo ritrovare il cammino della luce tra radici, terriccio, e bave di lombrichi? E il nostro battere incessante la mazza sul tamburo dei nostri errori, sempre gli stessi, non è forse un segno della più antica fragilità umana?
Noi non crediamo che la via del ritorno sia possibile. Non ci crediamo e continuiamo, imperterriti a riprodurre le stesse dinamiche di morte.
Finché non incontriamo un maestro, il Maestro, ci è impossibile riconoscere quanto ripetitivi siano gli schemi che modellano le nostre azioni.
“Io voglio tornare a me”, ripeteva tra sé e sé, Mordechai, “voglio ritrovare lo sguardo perso dietro ai palloncini in cielo, voglio scorticarmi le ginocchia giocando a ossicini o a biglie per strada, e prendere la mano di Rivka , così piccola e dolce, e carezzarla guardando i suoi occhi di luna”.
Ma poi abbassava lo sguardo e la memoria tornava a quei volti, a quei nomi, a Gabriel, che cercava il nonno, perso nel fumo.
“ Che diritto ho io di pensare all'amore? Come posso essere degno di Rivka se non ho fatto nulla per salvare anche solo una di quelle anime?”
Nell'altro mondo Nathan e il Rebbe stavano immobili. Un vento caldo, improvviso, aveva invaso la piccola stanzetta. Foglietti e libri si agitavano sotto le raffiche di vento e Nathan e il Rebbe stavano immobili. Cercavano altro. Cercavano la parola che, unica, avrebbe potuto riportare a loro Mordechai.
Mordechai, dal canto suo camminava verso l'albero. Annah, al suo fianco aveva smesso di miagolare. Tenevano entrambi gli occhi chiusi. Per non vedere. Mucchi di occhiali e scarpe e libri e pigiami a strisce, grigi. Questi sono gli occhiali di Oskar Mendel, il pianista di Cracovia, li riconosco, pensava Mordechai. E queste sono le scarpe di Miriam Noemi Lowen di Genova. Tre anni e mezzo.
“ e come potrò mai tornare in me dopo questo?”, pensava Mordechai, “ e come potrò avere la stessa luce quando guarderò Rivka”. E mentre pensava si carezzava il braccio dove da poco era apparso un numero tatuato.
Non aveva più nemmeno la forza di piangere. Era desolazione, su desolazione, grigio su grigio, e domande, domande senza sosta e senza risposta.
Arrivati a pochi metri dall'albero, il cielo prese una tonalità d'indaco diversa. Sembrava pulsare. Ogni foglia dell'albero, sei milioni di foglie, sei milioni di figli, portava inciso un nome e se Mordechai le sfiorava sentiva una voce sussurrare: Ricordami, ti prego, ricordami.
Sopra all'albero tutte le lettere dell'alfabeto ebraico, come un firmamento danzavano lente e pulsavano al ritmo dei passi di Mordechai. Non c'erano canti, né suoni, solo silenzio e indaco e lettere e foglie con nomi parlanti, supplicanti, docilmente legati alla speranza di essere ricordati....da un uomo solo.
E poi Mordechai la sentì, la voce fatata, la voce di luna, la voce dei suoi sogni. E la vide, seduta su una pietra poco lontana, girata di schiena. Piccola. Capelli neri. Gli sembrava di vederne gli occhi neri leggermente tirati, la bocca calda e sensuale, la schiena muscolosa di chi è abituata a nuotare ore e ore nel mare, anche dell'amore. E le mani, grandi e lunghe, dita che sembravano linee tese verso l'universo. La mani che lo avevano carezzato mentre dormiva dopo le fatiche del lavoro e quelle dolci come il miele dell'amore. Le mani che lo avevano reguardito, quando la sua parola volava tropo alta per essere compresa, le mani che gli avevano detto “no, non esisti solo tu e il tuo amore. Esiste il mondo e il suo amore”.
Rivka cantava piano e Mordechai non aveva il coraggio di avvicinarsi.
Si girò verso l'albero. Tutte le foglie si misero a tremare. Come in un concerto di uomini e donne e bambini di fumo. Ma non ricevano “ricordami”, dicevano “lech lechà”, vai verso di te verso il tuo destino. Poi una voce prese il centro della scena. Gabriel.
Il suo suono cristallino, di ragazzo scantonato commosse Mordechai fino alle lacrime.
“Hai visto Mordi, ho ritrovato il nonno, grazie a te. È qui nella foglia accanto alla mia e sono felice. Ma ora è il tuo momento. Tu ci hai salvato, ricordandoci. Nel sogno. Vai a prendere ciò che ti appartiene e ricordati del sassolino”.
“Ma io non sono più puro Gabi. E forse mai lo sono stato. Ho sbagliato mille e mille volte, creando i presupposti del dolore. E poi non so che dire a chi forse non mi riconoscerà. Io non sono più lo stesso”.
“Perché?”, rispose Gabriel, “ Rivka pensi che sia la stessa? E noi siamo gli stessi? Siamo divenuti foglie su un albero ed è grazie a te se non siamo solo fumo. Rivka non ti riconoscerà, è vero. Ma sentirà ciò che senti tu adesso. Che è scritto nel cielo indaco che vibra di lettere antiche il vostro incontro. Fai che non sia stato inutile. Chiedile perdono e dalle il sassolino. E che sia ciò che da secoli si sa che sarebbe stato”.
Mordechai si mise le mani sul volto. E pianse. Si ricordò di un bimbo che scriveva poesie, e le faceva vedere a papà e lui gli diceva: “i grandi poeti sono altro, lascia stare”. E si ricordò della rabbia che provava, perché lui lo sapeva di non essere un grande , aveva sei anni, ma voleva solo scrivere parole d'amore per suo padre. E si ricordò della tenacia con cui continuò a scrivere e scrivere, di notte, a quindici, a venti, a quaranta e cinquant'anni. E si coprì il volto e piano le sue parole uscirono da una bocca che tremava: “Ti perdono papà, tu ti sei salvato dall'albero per miracolo, e hai chiuso il cuore a un figlio che voleva solo darti una carezza”.
“Ora io scrivo ancora e non sono ancora un grande poeta, ma quando scrivo una parte di me canta...anche per te, anche per il tuo passo da profugo. Che sia benedetto il tuo passo da profugo”.
Poi cammino lento verso Rivka, che si era girata, e lo guardava.
I loro sguardi, l'uno nell'altro, erano galassie a spirale. I loro corpi pini marittimi, e cedri e melograni.
Le lacrime che rigavano le loro guance, miele, e il tremore delle loro mani l'attimo prima di un gesto definitivo.
Mordechai prese le mani di Rivka con delicatezza nelle sue. Odoravano di sandalo.
Prese il sassolino e gliene fece dono. Poi, mano nella mano, si girarono a guardare il cielo indaco,
Annah si sedette in mezzo a loro
Nell'altro mondo il Rebbe e Nathan si abbracciarono.
Mordechai e Rivka erano salvi, il popolo era salvo.
E una nuvola indaco colorava il cielo al tramonto

08 Il Narratore (Raccordo)

Vi ho lasciati mentre guardavate il cielo, Rivka E Mordechai.
E il cielo era color indaco.
E immagino che abbiate avuto le vostre risposte.
Immagino che il silenzio verso cui rivolgevate lo sguardo vi abbia inondato di suoni antichi.
E mi sono ritirato, io, il narratore, perché il vostro tenervi per mano avanti l'immenso era un dono; solo per voi.
Ho camminato all'indietro, per non perdervi di vista, finché non siete diventati due puntini. Lontani.
E poi sì, anche a me, che dovrei mantenere un ruolo neutro nella vostra storia, si sono rigati gli occhi di lacrime.
Perché ho visto nella vostra storia quanta fatica costi ad un uomo mantenere vivo il Sogno.
E di quanti nomi, di quante lettere e parole e formule magiche, di quanti incanti e mani amiche e zampe animali si costituisca un solo secondo dei nostri sogni.
E bisogna farsi piccoli, Rivka, per percepire il respiro di chi si avvicina per salvarci.
Ma tu, che sei molto più saggia di me, questo lo sai bene, molto prima delle mie parole.
E a te Mordechai che posso dire?
Ti ho visto portare a termine un viaggio nella memoria; del futuro di un popolo.
Solo per poter dire infine che non ti sentivi degno della bellezza di un nuovo, antico, incontro.
Tu, che sei stato l'amore per sei milioni di persone, non ti sentivi degno.
Avrei voluto spingerti a correre verso quell'albero.
Avrei voluto dirti che ciò che hai compiuto era un miracolo.
Ma era la tua storia e non la mia.
La mia è fatta di inciampi e balbuzie e parole incagliate tra i denti e non sta a me narrarla.
Mi lascio cullare dal violino di Menuhin nel primo concerto di Bruch.
Vi guardo e vi sorrido.
E lo so.
Un cielo indaco lo si potrebbe guardare in eterno, mano nella mano.
Finalmente paghi e completi, l'uno dell'altra. L'altra dell'uno.
Oppure potrei portarvi, lentamente, fuori da quella visione verso una nuova narrazione.
E non vogliatemene. Sempre la narrazione di un balbuziente sarebbe la mia.
Un balbuziente con la schiena dritta.
Voi avete il dono della bellezza.
E solo una voce, la mia, a volte afona, roca, stonata, per narrarla.
A voi la scelta.
L'indaco per sempre o le balbuzie di uomo che ama e vi ama.
Io aspetto, nel mio ritiro, che siate voi a farmi cenno di volervi spostare da lì.
La mia parola è al vostro servizio, come lo è il mio silenzio.

09 Itzi

Il suo nome era Itzhak, ma tutti lo chiamano Itzi. 
Mio figlio.
Lo perdevo quando aveva vent'anni. Oggi ne compie ventuno.
Lo perdevo per il suo ardore, o per la mia flemma.
Lo perdevo perché un dio malvagio lo immergeva nella ricerca dell'indicibile.
Un dio crudele che ci stuzzica, solleticando la nostra curiosità verso un mondo per noi inaccessibile.
Itzi era il suo nome. Il mio è ormai inutile pronunciarlo.
Il mio nome si perdeva con Itzi e sono certo che non lo ritroverò.
Itzi era un bambino molto dotato. A soli tre anni conosceva ogni lettera dello Alef-Bet1, a sei leggeva testi che nemmeno i ragazzi che avevano già fatto il Bar Mitzvah2 capivano.
Io e mia moglie ne eravamo molto fieri.
“Hai saputo Leah?”, dicevo, “oggi Itzi commentava a scuola lo Shir ha Shirim3 davanti ai suoi compagni e il maestro Ben Jaakov. Incontravo il maestro sulla strada verso il negozio e mi fermava fremente ed emozionato. Mi riferiva che non aveva mai sentito un commento simile, e men che mai da un ragazzino di dieci anni. Mi diceva che in certi passaggi il commento sembrava raggiungere per poesia e linguaggio le parole dello stesso Shir”.
Leah annuiva, rossa in volto.
“Quel ragazzo andrà lontano, Haim”, rispondeva.
Poi il suo sguardo si fissava su un punto imprecisato del muro bianco di fronte a lei.
“Spero solo che sappia ogni tanto ritornare alla vita normale”, aggiungeva.
“Leah, amata Leah”, dicevo intenerito, “lo sai. I figli devono volare lontano. E più lontano volano più il ricordo del loro nido di partenza è importante per loro. Itzi ti adora sopratutto quando hai, come ora, il naso sporco della farina per le hallot4”.
Lei mi guardava sorridendo. Poi, con finto broncio, diceva: “Sparisci Haim, mi distrai e le hallot verranno come l'ultima volta, che poi tu e Itzi mi avete preso in giro per una settimana”.
Itzi aveva pochi amici. Il suo sguardo era sempre rivolto al testo, anche quando non l'aveva sotto gli occhi.
Tutti lo rispettavano e stimavano ma sentivano come una sorta di timore a avvicinarlo.
Anche i compagni di classe gli si rivolgevano solo per chiedere consiglio sulla corretta interpretazione di qualche difficile passaggio del testo.
Nessun ragazzo lo invitava a pescare al fiume o a giocare a ossicini per strada. Sapevano a priori che avrebbe sorriso e declinato l'invito.
Itzi era devoto solo allo studio. Sempre.
Tutti gli volevano bene. Di lontano.
Solo due ragazzi si trovavano spesso con Itzi.
Mordechai era il suo amico del cuore. Un ragazzo stralunato con lo sguardo sempre nel sogno. Anche lui era un solitario.
Lo incontravo un giorno in sinagoga, immobile e assorto, a osservare una sola lettera (una Bet, ricordo) delle iscrizioni che si trovavano sui muri.
Gli chiedevo cosa stesse vedendo e Mordechai, che aveva la stessa età di Itzi, rispondeva con un sorriso, senza distogliere lo sguardo dalla lettera: “Vedo che il vuoto sostiene ogni parola, che ogni lettera è un segno nel firmamento, che un giorno dovrò fare un viaggio e che non sarà facile il ritorno. Vedo che che Itzi e Rivka saranno con me e che nemmeno per loro il ritorno sarà facile. Poi sento delle voci strane, che non capisco, come delle macchie d'inchiostro nelle lettere. Cercano di dirmi qualcosa ma non capisco. Non capisco”.
Questo diceva un ragazzino di undici anni, con gli occhi di luna, in sinagoga.
Io rimanevo silenzioso perché credevo di saper riconoscere la saggezza anche nei bambini. Sopratutto nei bambini.
Pensavo che Mordechai si riferisse alle asperità della vita, che tutti dobbiamo affrontare.
Se avessi saputo di cosa parlava veramente, avrei preso della vernice nera e avrei coperto io stesso il blu di quelle iscrizioni e lettere.
A un padre non si può chiedere questo, Itzi. Nessuno può chiedere a un padre di sopportare questo.
Rivka era una dolcissima ragazzina. Aveva occhi che quando si fissavano nei tuoi scavavano a fondo fino a trovare i tuoi tesori, scartando il fango.
Scartando il fango.
E poi cantava. Cantava come un angelo e le sue note tingevano il cielo del suo colore preferito: l'indaco.
Rivka portava con sé un taccuino dove scriveva le canzoni che componeva.
Poi le cantava per strada, quando mamma la mandava a fare delle compere.
E, se la capitava di entrare in un negozio cantando, non c'era nessuno che non l'ascoltasse estasiato.
Un giorno l'incontravo per strada carica di borse per la spesa.
“Ce la fai Rivka?”, chiedevo, “ Vuoi che ti aiuti a portarle a casa?”.
“No grazie Haim”, rispondeva, “Bisogna avere dei pesi che ci tengano i piedi per terra. Altrimenti dove finiremo?”
Poi si girava verso di me e mi metteva una mano sulla spalla, guardandomi fisso negli occhi.
“ Haim tu sei il miglior padre che Itzi potesse avere. Nulla di ciò che gli succederà sarà colpa tua o di Leah. Itzi sceglierà il suo destino. Noi possiamo solo sostenerlo. Di lontano”.
Questo mi diceva una ragazzina di undici anni, dolce come il firmamento in una sera d'estate.
Io rimanevo così stordito da quelle parole da non riuscire a risponderle niente.
La vedevo allontanarsi carica delle borse cantando come un angelo.
A tredici anni, quando era il turno di Itzi di passare il Bar Mitzvah, gli regalavo quella maledetta penna.
Era una stilografica di valore con pennino d'argento e iscrizioni d'oro: nera, con una pompetta per ricaricare il serbatoio.
Un tipo di stilografica, pensavo, forse un po' desueto ma di sicuro fascino.
Itzi la prendeva in mano, la soppesava, e mi guardava fisso negli occhi.
"Grazie papà", diceva, "penso che questa penna non mi abbandonerà mai".
Io rimanevo colpito, come sempre, da quelle parole così pregne e sagge sulla bocca di un ragazzino.
Non avrei mai pensato che sarebbe stata quella penna a farmi perdere mio figlio.
Non mi perdonerò mai di avergliela regalata.
Il Bar Mitzvah di Itzi, che evento eccezionale.
La recitazione della porzione di Parashà5 a lui assegnata lasciava tutti sbigottiti.
Non si era mai sentito un silenzio simile in sinagoga.
Le sinagoghe il sabato sono dei porti di mare. C'è sempre, anche durante i momenti liturgici più importanti, un brusio di fondo, ilare.
Le sinagoghe sono sì luogo di studio e preghiera, ma anche di incontro e pacche sulle spalle e un “bla bla bla” continuo che si impara ad amare.
È il rumore di fondo della Vita, dicono alcuni.
A me piace pensare che sia anche questo un modo particolare di pregare e non ci trovo nulla di male.
Ma quando Itzi saliva a Sefer6 e cominciava a salmodiare, il silenzio calava nella sua più terrificante bellezza.
Nessuno osava proferire parola.
Persino Avram, il panettiere che tutti noi amiamo per i suoi tentativi goffi di scrivere poesie e per il suo essere un ciarlone senza sosta, restò ammutolito.
Itzi non usciva dalla tradizione del canto e della recitazione, no.
Rispettava alla perfezione pause, accenti e trilli secondo il canone stabilitosi nei millenni.
E non aveva un benché minimo tentennamento, cosa che da un tredicenne nessuno si aspettava.
Fin qui, però, tutto rientrava nella normalità di una mente eccezionale votata allo studio del testo fin da piccola.
Ciò che rendeva a tutta la congregazione difficile parlare, era che si percepiva che Itzi stava aggiungendo qualcosa, un accento mai sentito, eppure da tutti conosciuto.
Sentivamo tutti che la conoscenza di quell'accento derivava da un livello avanzato e profondo dello studio, impossibile per un ragazzo della sua età.
O forse non era lo studio la fonte di quella sapienza.
Una chiamata, ecco cos'era.
Una chiamata per Itzi da un mondo lontano. Una chiamata per noi all'ascolto.
Cose che zittiscono, ammutoliscono, lasciano immobili, col fiato sospeso, come quando la natura prepara un evento eccezionale.
Itzi stava leggendo la Torah a più a più voci, ognuna congrua con sé stessa e le altre, ognuna tradizionale, eppure ognuna in parte sconosciuta.
Il Rebbe7 era in lacrime. In molti si coprivano il volto con il mantello rituale e io vivevo la strana sensazione di essere il padre umano di un essere angelico.
Dopo qualche decina di minuti dalla fine della recitazione di Itzi, Avram, sempre il primo a parlare, si rivolgeva a me con evidente imbarazzo e la voce rotta dall'emozione.
"Ci hai nascosto un angelo per tredici anni", diceva, " e se fossi stato al tuo posto avrei fatto lo stesso, Haim".
"Veglia su di lui; non lasciare che si perda".
Abbassava lo sguardo e aggiungeva "quanto vorrei che quello scansafatiche di mio figlio Nathan dedicasse anche solo un centesimo dell'energia che Itzi dedica allo studio".
Poi tornava silenzioso.
Al ricevimento dopo la funzione, come al solito, si beveva, si rideva, si ballava.
Solo il Rebbe sembrava assente, lontano nei pensieri.
Guardava Itzi, poi me, poi Leah e poi di nuovo Itzi, e così via, per molte volte.
Rifiutava gentilmente ogni offerta di vino, cosa che offendeva molto mia moglie.
Ci guardava, il Rebbe, uno dopo l'altro.
Uno sguardo misto di tristezza, rispetto e timore.
Verso la metà della serata si alzava e chiedeva l'attenzione di tutti gli invitati.
“Oggi ha passato il suo Bar Mitzvah il nostro caro Itzi”, diceva.
E aggiungeva con la voce rotta dai singulti “Che D.o ti accompagni nel tuo cammino Itzi”.
Poi si sedeva con la faccia tra le mani e nessuno sapeva cosa dirgli, cosa fare per calmare quel sant'uomo.
Itzi si alzava. Si sedeva di fronte a lui e gli recitava un brano del Bamidbar8
Il Rebbe lo guardava con gli occhi arrossati e gli diceva “no Itzi, ti prego, torna. Non ora, non ora”.
Itzi allora prendeva il suo taccuino e la penna che gli avevo regalato.
Scriveva nella sua troppo matura grafia: “Tornerò terminato il mio viaggio. Aspettami Rebbe, io e te dovremo parlare”.
Strappava il foglio e glielo dava. Poi si alzava e intonava per lui una benedizione, la benedizione dei padri verso i figli.
Poi si rivolgeva a tutti gli invitati: “Mordechai, Rivka, Nathan, una gatta di nome Annah e io intraprenderemo un viaggio tra qualche anno. Non disperate quando avverrà. Perché la disperazione non è nelle corde della nostra gente. Torneremo tutti. Torneremo diversi. Ma il popolo sarà salvo se saprà aspettarci e il nostro Rebbe manterrà salda la sua fiducia nel nostro ritorno. Non sarà domani e nemmeno l'anno prossimo, ma prima o poi questo viaggio dovremo iniziarlo. Non ci trattenete, abbiate fiducia nel nostro ritorno, anche nei momenti più bui”.
Poi si rivolgeva ad Avram: “Avram tuo figlio Nathan non è uno scansafatiche.
È la vibrissa del gatto, l'occhio del falco, il silenzioso movimento della testa del gufo sul ramo, l'apparente non far nulla per essere pronti a tutto.
Lui sarà il primo motore del nostro ritorno. Abbi fiducia nella sua indole e non paragonarla a quella di altri.
Non c'è nulla da correggere, davvero, in lui”.
Poi Rivka cantava e tutti piangevano in silenzio. 
A un padre non si può chiedere questo.
Non si può chiedere questo a un padre, Itzi.
Un padre sono mani tremanti e gioiose sulla nuca di un figlio che cresce.
Sono partite a scacchi, in attesa del giorno in cui, finalmente, ti batte.
Sono limonate preparate da mamma d'estate, da bere, tutti e tre davanti a casa, mentre l'ultima ora del sole si attarda.
Sono discussioni su libri e abbracci quando un incubo ti coglie la notte.
Questo è un padre, Itzi.
Un padre non è la speranza di un ritorno. Del figlio.
Non si può chiedere questo a un padre, Itzi. Prima del figlio.

10 Il ritorno (Teshuvà) - raccordo

“Ci si allontana con troppa facilità dal senso profondo delle cose”, pensava Rivka.
“E anche il colore più puro è portatore di disgrazia, se ci si attarda troppo a osservarlo”.
Teneva per mano Mordechai. A lui sembrava fosse da un eterno istante.
Il canto di Rivka era terminato.
Si era perso nelle Memorie e nei Nomi che, pure, sostenevano il loro cammino.
Mordechai la guardava, come volesse indovinarne i pensieri. E taceva.
Perché di fronte alla sacra parola (ritorno) si tace.
Il cielo indaco era uniforme, senza nuvole né screziature.
Solo una macchia rossa a forma di Iod sembrava voler trasmettere un senso di urgenza al loro movimento.
“Itzi”, disse Mordechai sottovoce guardando la Iod, “si è perso e ci sta chiamando”.
Rivka si coprì il volto con le mani e i suoi singulti spaccavano pietre e terreno e il cuore di Mordechai.
“Itzi”, urlava, “perchè non hai atteso ad aprire quel portone? Perché hai voluto far tutto da solo?”
“Rivka, non essere sciocca”, disse calmo Mordechai, “sai bene che tutto era già previsto, e che questo viaggio prima o poi avremmo dovuto farlo. Assieme. Itzi, si è perso, perché noi potessimo tornare a salvarlo. Non è più il tempo dell'attesa. Non è mai quello della disperazione”.
Rivka si asciugò le lacrime dal volto. Era bella. E Mordechai ne amava il viso espressivo quanto il canto.
"Riempiti ancora una volta gli occhi del tuo indaco, Rivka e non temere. Ci prepariamo a questo viaggio da tutta la vita, no?”.
Rivka guardò il cielo, poi la Iod, poi il cielo ancora. La sua espressione ora era risoluta, quasi guerriera e distante.
Sentiva pulsare una nuova voce nel suo sterno, come un canto articolato, una nenia di quelle che affascinano e placano ogni paura. Un sostegno. Chissà da dove.
Quel canto non fu cantato, né detto, allora.
Sarebbe servito a Itzi, e ad Itzi soltanto, e Rivka ne era cosciente.
La potenza della dedica è nell'immaginare un dono per una persona, una soltanto.
E cullarlo nella mente finché non viene trasmesso. La potenza della dedica è nell'oblio di sé. Finalmente. Nel farsi piccoli di fronte all'indicibile o, quanto meno, al non ancora dicibile.
La potenza della dedica è prima del gesto. È immaginare il mondo altrui trasformarsi e mutare colore e gioirne prima di pensare di poter partecipare a un così profondo movimento.
La trasformazione non dipende mai soltanto dalle nostre mani.
La trasformazione non può mai prescindere dalle nostre mani.
Un gesto dedicato è sempre un gesto perfetto nei tempi e nelle intenzioni, nelle tensioni e nella delicatezza.
Un gesto dedicato è il vero e unico gesto d'amore.
I primi passi di Rivka e Mordechai sulla via del ritorno furono lenti, quasi impercettibili.
Come quando si cammina sulla neve fresca e non si vuole spezzare il bianco silenzio che ci circonda con la nostra goffa presenza.
Come quando si è capaci di immergersi nel luogo in cui ci si trova e di dimenticarsi per un attimo della corazza di argilla secca che ci portiamo addosso.
I primi passi di Rivka e Mordechai sulla via del ritorno furono un omaggio a chi non torna, eppure sostiene.
Lenti.
Molto più lenti di come li immaginate ora. 

11 Itzi e Haim

Guardavo. Guardavo Itzi. Guardavo la sua mano inesperta e quella penna maledetta.
Gliela avevo regalata io per il suo Ber Mitzvah.
E ricordavo che a sei anni Itzi mi chiedeva cose strane. Mi faceva domande senza senso. Io sorridevo perchè sapevo della mente fervide di mio figlio.
Mio figlio Itzi. Ora perso nell'indicibile.
"Papà", chiedeva, "come si fa a inventare un lingua nuova?"
Io guardavo i suoi capelli e quello sguardo di fuoco in un volto di bambino.
Ne avevo paura, ma era Itzi, mio figlio, ora perso nell'indicibile.
"Conosco bene quel fuoco!", pensavo, "deve imparare a dominarlo o lo divorerà".
Lui ripeteva: "Papà come si fa a inventare una lingua nuova".
Io volevo essere acqua per quel fuoco e rispondevo: “ Nessuna lingua è mai nuova, Itzi. Tutto nasce da qualcosa e va verso lo sconosciuto”.
Itzi capiva, tutto, mi guardava e mi diceva : “dai papà sai cosa voglio dire”.
C'era una resa nei suoi occhi, una resa in mezzo al fuoco. E io pensavo di aver quantomeno abbassato il rischio di incendio e allora, maledetto me, ormai rassicurato gli ponevo la domanda che non avrei mai dovuto porgli.
“Vuoi una lingua che abbia un suono nuovo o che sappia dire cose sin ora indicibili”.
“La seconda papà”, rispondeva, “ cosa me ne faccio di nuovi suoni per dire ilo già detto?”.
Un bimbo di sei anni, Itzi, non può mettere alle corde suo padre così facilmente.
E il padre di quel bimbo, Itzi, ne è fiero ma anche spaventato.
Una mente che vola già adulta mentre il viso non porta nemmeno un pelo è pericolosa, Itzi.
“Dunque vuoi raccontare l'indicibile, figlio mio?”, chiedevo in ansia e intanto pensavo:
“Dio mio si brucerà e poi nulla sarà più lo stesso e il ritorno sarà un'impresa quasi impossibile”.
Il mio sguardo si velava di lacrime.
Figlio mio a sei anni. Figlio mio ora, perduto nell'indicibile.
E dicevo: “ Se non è stato detto sin ora forse è perché così deve essere per sempre. Perché vuoi abbattere tu per primo quel portone sacro”.
La voce mia tremava e dentro di me recitavo “Avinu Malkeinu, Shemà Kolenu”. 9
Tu mi guardavi e con l'espressione di una fiera braccata urlavi: “Papà ti prego aiutami”.
Io abbassavo lo sguardo. Un padre non nega aiuto al figlio nei suoi progetti. Un padre è la spalla destra del figlio e la sua schiena. E cerca sempre di trasformare il fuoco che arde alto nel cuore del figlio in brace eterna.
“ Ti aiuterò Itzi”, dicevo, “ma promettimi che se sarà troppo doloroso, anzi al primo segnale di sofferenza ti ritirerai da questa narrazione. Non può essere un racconto Itzi. L'indicibile è senza tempo, è fuori dal tempo. È un muro alto come una montagna, sacra.
E può essere scalato solo se ci si pone lontano dagli affanni del tempo. È un'impresa per pochi, forse per nessuno.
Non può essere un racconto, figlio mio adorato. Solo la poesia e il canto possono grattare le pareti lisce di quel muro. Solo la poesia e il canto possono descriverne le intuizioni”.
“ So scrivere poesie”, dicevi con fervore.
“ Non si tratta di saperle scrivere”, continuavo,” dove vuoi arrivare tu è il regno degli letti, dei profeti. Ciò che vuoi svelare ti richiede un sacrificio. Solo se rendi la tua stessa vita canto, poesia, puoi avvicinarti all'indicibile. Ma c'è un prezzo, alto, da pagare. Dovrai cavarti un occhio, tagliarti una mano, e, soprattutto, rendere muta la tua lingua, amputandola, per poter sperare di narrare l'inenarrabile. E vagherai per il mondo monco, muto e orbo e, soprattutto, inascoltato. Non si arriva mai all'incontro con l'indicibile integri, figlio mio.”
Figlio mio di sei anni che capivi parole ( le mie) che nemmeno io comprendevo appieno. Figlio mio condannato al fuoco che arde, figlio mio che chiedevi a un padre di essere molto di più di ciò che le sue ossa gli permettessero.
E allora lacrimavo, e parlavo, parlavo, parlavo.
“Ciò che vuoi descrivere tu non lascerà alcun segno nel lettore, gli integri ne rideranno, come si ride delle parole di un pazzo. Lascerà un segno indelebile in te, Itzi; perché dall'indicibile non si torna indietro e resta dentro di te per sempre, invisibile al mondo”.
Il tuo sguardo si faceva cupo. Ne vedevo calare la fiamma, e conoscevo la rabbia che covavi.
Sono tuo padre Itzi, lo ero anche allora. Non potevo non metterti in guardia. Perché quel fuoco lo conoscevo.
E parlavo, parlavo ancora. Del fuoco sacro e del nostro esserne terne guardie, sentinelle. Sempre, senza sosta. Ti parlavo dei regni superiori e quelli inferiori e del taglio sulla linea del cosmo che ogni parola scritta rappresenta.
E posavo la mia fronte sulla tua, Itzi, perché sentissi che tutto parte dal corpo e al corpo ritorna come si torna ad una Bet10 protettrice e benedicente.
E fronte sulla fronte ti sussurravo: “esiste un regno che si chiama ardore il cui portone d'accesso dovrai sfondare con l'ariete elle tue lettere e parole. È il regno del non detto, di ciò che attende Itzi per essere detto. Usa il tuo strumento sacro, la penna, per stupire il mondo e svelargli ciò che si rifiuta di vedere. Ma lascia che ciò che non è pronunciabile resti avvolto dal Silenzio.
Dovrai conoscere l'amore, quel vento che dà figli e permette all'umanità di esistere; dovrai posare il tuo sguardo sui capelli della donna che ami, come feci io con mamma, e cingerle i fianchi e sussurrarle parole nuove che risveglino il suo ventre e la portino nella vostra casa, nei cieli.
Non avvicinarti a verità che, se anche ti fossero rivelate, resterebbero solo per te, intrasmissibili per l'eternità. Sfonda il portone del non detto e cavalca con un giovane purosangue i sentieri del già detto. Che l'originalità non è nello svelare il nuovo, ma nel tingere di tonalità mai viste l'antico. La chiama no trasmissione, tradizione, Figlio mio. Ed è la più sacra della avventure che tu possa vivere.
Inventa lingue con suoni mai uditi ma parla sempre per essere compreso che a nulla serve una verità che non possa essere consegnata nella mano di un figlio”.
Stavamo poi fronte sulla fronte in Silenzio.
Le prime stelle dello Shabbat ci osservavano di lontano. Tutto era Silenzio.
Mi prendevi la mano, io sentivo un singulto in gola.
C'era attesa nell'aria. E la tua dolce voce non pronunciava risposta.

12 Appendice ai sogni di Mordechai

"Avinu Malkeinu Shemà Koleinu...
(Nostro Padre, Nostro Re ascolta la nostra voce)
Avinu Malkeinu Hadesh Aleinu...
(Nostro Padre, Nostro Re rinnovaci)
E quale rinnovazione profonda può esistere se non si è ascoltati?
E a cosa serve ascoltare se non si crede nel "nuovo"?
Questo recitano gli ebrei nello Yom Kippur, uno dei momenti più pregnanti della vita ebraica.
Perché i miei fratelli lo sanno che il nostro cambiamento dipende molto da uno sguardo e un ascolto Altro (e Alto).
Io, che sono un fratello degenere, sento forte il mio aver mancato a questa tensione etica.
Troppo spesso ho ignorato "le voci" (e perché ora si dovrebbe ascoltare la mia?) e troppo spesso ho chiuso lo sguardo al cambiamento altrui (e perché ora dovrei avere il dono del mio mutare e rinnovarmi?).
Questo è il mio grande rimpianto.
Mi dia Lui la forza di rimediare".

Foto di Sergio Daniele Donati

13 Bamidbar (nel deserto) - Invocazione

In viaggio, e i piedi si spostano su sabbie calde, fini
Un'immagine nuova (di sogno) emerge vicino alla sponda del fiume (di parole) che, antico, si nasconde sotto la roccia nera.
Come una Lamed di fuoco, ocra.
Rivka e io (io e Rivka) avanziamo, mano nella mano.
In silenzio; sotto un cielo porpora.
C'è da apprendere dal movimento. Molto da apprendere.
Ci sono porte da chiudere e campi da limitare con recinti di fili di lino.
E accendere fuochi visibili solo a coloro che verranno.
Itzi è in pericolo, anzi nel pericolo. Incosciente.
Insiste la pressione del tempo e l'esortazione di voci nascoste.
Ventidue voci. Nascoste.
Alberga in noi uno spirito nuovo, costretto in un cuore ancora immutato.
Dacci un cuore nuovo che possa contenere le tue parole.
Dacci un cuore nuovo che possa contenere le tue pause e i tuoi silenzi.
Dacci un passo leggero e lieve e mani forti per sostenere speranze di rinascita.
Osserva i nostri sforzi, e ripudia i nostri sfarzi, accogli i nostri ritiri nel deserto della parola; esiliata.
E guidaci nell'Altrove piano.
Camminiamo all'indietro, salutando tutto ciò che abbandoniamo.
Tutto ciò che, cadendo a terra, ci fa leggeri e irrora terre deserte di energie primordiali.
Io e Rivka (Leah e io), uniti e distanti, ti chiamiamo al ricordo delle tue promesse.
Al ricordo del segno da te inciso all'atto della nascita sulle nostre pelli.
I nostri passi - sul cuore della tua terra - siano tamburi di risveglio per una natura che attende il tuo “e sia”, dall'ultimo giorno della creazione.
Dacci l'occhio d'ossidiana, la mano d'ematite, il torace di diaspro.
Affinché Rivka e io (io e Rivka) ci si trovi con lo scudo a sei punte davanti all'Indicibile che acceca Itzi , e gli torce i pensieri in volute di fumi da camini grigi.
Lasciaci arrivare avanti i suoi volti prima che parli e che formuli inaudite parole per un mondo incapace d'ascolto – un mondo chiuso all'affronto, allo scempio e incapace di visione.
Prima che Itzi parli e narri (e dica), permetti che il nostro scudo a sei punte si erga a difesa del suo detto e permetta al mondo – ferito, offeso, vilipeso, umiliato – di ascoltare estatico le profezie di un pazzo.
Camminiamo piano, all'indietro, ma il grido di Itzi si fa sempre più pressante.
Ascolta la nostra voce e soffia sui nostri cuori invocandone la rinascita.

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Note

1 Alfabeto ebraico

2 La maggiorità religiosa per i maschi avviene al compimento dei tredici anni, per le femmine dei dodici

3 Cantico dei cantici

4 Il pane dolce che si prepara per il venerdì sera prima dell'avvento dello Shabbat

5 Pericope. Porzione settimanale di lettura della Torah

6 Si "sale a Sefer (libro)" quando si riceve l'onore di leggere davanti alla congregazione una parte della Parashà. Questo può avvenire per la prima volta quando si passa il Bar Mitzvah ed è un evento molto importante nella formazione di un giovane ebreo.

7 Rabbino a capo della congregazione

8 Il libro della Torah comunemente tradotto con NUMERI

9 Una preghiera ebraica centrale il cui primo verso significa "Padre nostro, nostro re, ascolta la nostra voce". Una preghiera di invocazione e di confessione i cui versi fanno tremare sia chi li recita che chi li ascolta.

10 Le seconda lettera dello Alef-Bet ebraico

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