Stanze del "piccolo male"

Ho smesso d'indicare al mondo
vie da me mai percorse
e mi sono seduto 
su una panchina arresa 
ad ammirare piccioni 
ed esseri umani
becchettare ai miei piedi
briciole e detti di speranza.
La discesa nell'Ade della parola
si fa in silenzio,
il volto coperto d'un vello rosso
e le mani in guaine
di pelli selvatiche 
ad evitare ustioni.
Le cime degli alberi, a volte,
si piegavano a coprire la memoria
e versi di gracchi lontani
risvegliavano lacrime d'argilla
sui miei volti immobili.
Era il momento dell'oblio;
dell'oblò appannato
su un abisso sotterraneo
ove pesci senza vita
producevano scariche elettriche
di conoscenza ancestrale.
Mi teneva la mano mia mamma,
durante quelle mie assenze,
quando infante guardavo il vuoto
incapace di ritorno.
Mi teneva la mano e
- ora lo so - piangeva
mentre mio padre di là
nella stanza dell'angoscia
si dondolava lento
e opponeva il corpo 
al timore della mia
- della nostra - follia.
Nessuno sa - ma io so - 
delle grida di midolli bambini
quando quel velo d'assenza 
calava lento sul mio viso
e le voci di recupero 
si facevano lontane e ovattate.
E so dello strappo 
di quello stesso velo,
di quel respiro a pieni polmoni
- all'ultimo istante - 
mentre riemergevo
da un'apnea prolungata. 
Ero tornato dall'Ade della parola
da solo, la mia mano 
nella ventosa di polpo 
di mia madre e l'orecchio teso
ai piegamenti su sé stesso di mio padre.
Mi dici ora capace d'ascolto,
e ignori i miei soggiorni da bimbo
nei reami dell'assenza
ove mi fu insegnata
una lingua nuova
e a costruire ponti 
tra il mondo del sogno
e quelli ove i miei passi inesperti
sprofondavano nella pece. 

Sì, t'ascolto e mi inchino
e piango ché so tutto di te
e delle solitudini che metti 
nelle pieghe del tuo dire,
delle infanzie che non ricordi
appese a quel tuo respiro asmatico
mentre parli.

T'ascolto e ti sento 
parlare la lingua nuova
e l'antico lemma, 
e, se ti tengo la mano, 
riconoscile, ti prego, 
la saggezza e la lacrima
del polpo.
Testo (inedito 2022) e immagini di
Sergio Daniele Donati ©
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