Il canto del perdono

 


Inizia nel midollo
una sorta di vibrazione
che riassetta i ricordi
e ricolora una tela abusata
di tinte tenui.
Non è dimenticanza
è il passo sapiente della mano
che articola lenta
falangi e parole 
per un fine solo;
una dichiarazione di resa.
Il vero si manifesta sempre nel corpo
come un canto di merlo al tramonto, 
e tutte le immagini che ti sei creato
per negarne l'esistenza 
svaniscono come nubi al soffio del vento. 
La schiena si raddrizza
e lo sguardo si fa nostalgico
su un orizzonte che si sposta coi pensieri;
è il richiamo del riconoscimento silenzioso
d'un passato che tardava a passare.
Quel nome innominabile
diviene canto per una gola ormai matura
a pronunciarne altri
e nel ventre fecondo di speranza
senti muoversi le primavere
che sinora ti sei negato. 
Poi taci, è arrivato l'istante dell'ascolto
e il corpo
- sede unica di ogni nostro sentire -
ti dice che è ora di pronunciare ancora
quella parola interdetta. 
Inizia sempre nel midollo
come una vibrazione d'archi,
una melodia di cetra;
il canto del perdono. 
E a chi ti trova cambiato
rivolgi uno sguardo antico:
"sono tornato", dici a te stesso,
"a respirare i profumi d'un avvenire fecondo".
Il perdono non ti cambia;
ti riporta a giocare a biglie sulla sabbia
- quelle colle facce dei ciclisti -
e ne tieni una sola nel sacchetto,
la più preziosa,
quella gialla di Gimondi -
Non t'appartiene più.
È di chi non si riavvicinerà mai più
a veder un uomo
tornato bambino.






 

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