Le lettere “rezdore” - A braccia scoperte


Ne hai fatto una questione d'orgoglio, e loro t'hanno punito. 
Che la scrittura è altro, anzi, è l'Altro che avanza.
E, se avanza, tu devi retrocedere, renderti invisibile. 
Le lettere sono donne altezzose e regali. Esigono spazi e tempi immensi.
E non c'è spazio nell'eterno urlare “io, io, io”. 
Il tempo si contrae, sino a diventare punto, dietro a quel dittongo ingombrante.
Ritirati; ora. Non è tardi.
Faranno il broncio. Si faranno desiderare. 
Tu desiderale dal ritiro, dalla grotta silenziosa.
Là, dove riposano ricordi color turchese, desiderale senza chiamarle. 
Ogni regina ha bisogno del suo seguito. E torneranno.
Lascia solo loro l'illusione che sia un ritorno spontaneo.

Anche l'acqua del fiume, stolta, crede di essere libera quando si riversa nel mare. 
E ignora la funzione degli argini, l'ineluttabile tragitto che le sue anse (le sue ansie) le impongono.
Si dice libera quell'acqua per incapacità di vedere, di accettare di aver perso la sua vis inundationis, in favore di un argine dittatore.

Le lettere regine sanno che le hai amate, anche in quell'urlo.
E si prenderanno cura di te; poi. Solo allora.
Quando allo “io, io io”, saprai sostituire il mantra dei loro nomi.
Oh, so bene che quell'urlo nasce da una tua antica debolezza.
Sei talmente privo di fiducia nei tuoi mezzi che pensi di poter solo urlare, per non soccombere.
E temi che dal ritiro non si possa percepire la tua vibrazione nel mondo.
Come se (sciocco che sei) un nome non pronunciato perdesse ogni potenza.
Come se (stupido essere che sei) il nome più antico non fosse quello che non si può pronunciare.

Ma ricorda.
Giocavi a cucù con parole e volti di donna, già allora.
Incapace di svanire ti rendevi sottile, per tornare.
E lei coglieva in te il grasso di pollo; sotto pelle.
Rendeva brodo pregiato il tuo futile tentativo da gallina, di non aver nome.
Era tua madre e tu ora scrivi.
E, certo, lo devi alla tua tenacia, ma, ripeto, ricorda.
Fu solo di quella mente sottile sorridere al poeta dietro al pollo;
e ad ammiccare, dietro ai coccodè tuoi (sguaiati e inesperti), al sottile gioco dell'evanescenza.

Tu allora sparivi dal testo per mancare. Sparivi per essere cercato.
Sparivi con il broncio, la piva (il pallone è mio e me lo porto via).
Lei, chissà perché, rideva e aspettava il tuo ritorno nel foglio, figliol prodigo (no, non prodigio).
Era tua madre.
Ora ti si chiede una diversa evanescenza. Ti si chiede di far spazio.
E i dittonghi che hanno sin ora governato il tuo scrivere (e il tuo sparire) devono essere lasciati a terra. Finalmente.
La terra è la vera dimora dei tuoi “io, io, io”. Là, e solo là, possono germogliare.
Ti hanno detto scribacchino, poi scribano, poi scrittore; dietro a quei dittonghi.
Lusinghe, trappole per allodole. Anzi trappole di allodole per altre allodole.
Che nessuno scrive niente. È la scrittura che ci scrive.
È la scrittura il nostro argine e il foglio il mare in cui ci riversiamo, stolti, pensando di essere liberi.
Scrivere non è mai scelta, è atto di costrizione. Sempre.
Smettere di scrivere, questo sì, è atto libero. Da non declamare, né notificare al mondo.
È ora che tu non sia più detto. Che il tuo nome divenga inpronunciato.
Che si incarni nelle lingue antiche che hanno visto la sua nascita.

Allora, e solo allora, torneranno; le lettere.
Già me le vedo. Con il loro nasino all'insù. Sdegnose.
“Guarda che casino ci ha lasciato questo”, diranno.
“Tocca sempre a noi mettere tutto in ordine”, aggiungeranno.
Alcune poi le vedrai arrabbiate urlare “Giuro che è l'ultima volta che do un mano a questo cialtrone. Io sono stata a servizio dei poeti veri, degli scrittori autentici. Dei veri signori che mai mi hanno mancato di rispetto. Ma chi me lo fa fare di perdere tempo dietro a 'sto ciolpacco, salterino giullare dei lemmi?”.
Tu lasciale borbottare. Non è forse da borbottii di ore che nasce il miglior ragù?
Taci e aspetta. Una volta che avranno rassettato il greto del tuo fiume, tolto rami e tronchi marci e pietre ingombranti, profumato i prati sopra gli argini con odori di mughetto e iris selvatici, una volta che avranno perlustrato ogni ansa per verificare che sia il luccio il suo sovrano ( e non il siluro che tutto divora ), allora le sentirai dire sottovoce, quasi vergognandosi. “Dai, diamogli un'altra possibilità. Ma che sia l'ultima. Certo non sarà mai Proust e nemmeno Celati, ma vaca boia (sono emiliane le lettere, che credevi?), ci ha sempre provato.”.
Allora sentirai uno strizzo all'occhio destro. Un'impellenza, un'urgenza di scrivere.

E non ti venga in mente allora di chiamarla “la TUA scrittura”.
Le lettere rezdore hanno lo scappellotto facile e lo smataflone è sempre dietro l'angolo, come quando pucciavi di nascosto fette di pane nel pentolone ragù che borbottava con cadenze modenesi, e sentivi un calore improvviso sul coppino e scappavi via ridendo e dolorante, che il ragù era buono anche tre ore prima che fosse pronto.





stampa la pagina

Commenti

Posta un commento