(Redazione) - Muto canto - 10 - Ilio, Itaca e le ataviche origini della parola

 
A cura di Anna Rita Merico

Muto Canto 10: in cui si dice di Ilio e di Itaca, di ataviche origini della parola, di furti perpetrati e di ombre tessute al telaio.
(di Anna Rita Merico)

Trovarne l’inizio non fu semplice. Andò per incanti,
soffi, malie, pause serene e intenti. Narrò di
luogo in cui si mesceva impasto di maschile
e di femminile, otri gonfi, melasse, principi e
indistinzioni, offerte e mescite.

E Penelope ancora non sa di Odisseo ad Itaca. Incontra il mendìco, già riconosciuto da Euriclea, nel precedente Canto. S’appressa il tempo de l’ultima notte concessa dal Fato ai Proci. Ogni respiro diviene doppio. Ogni passo è sospeso. Ogni pietra del Palazzo diviene muta spettatrice. I movimenti sanno di lama ardente. Atena scatena una folle risata che avvolge le involute dei Proci ignari e Teoclimeno prende a cantare per gl’Infelici colti da sciagura che ancora non vedono. Non vedono, ancora, architravi sporchi di sangue, né corpi squarciati.
Nel dentro della notte Penelope termina parola con Odisseo.

<Cos’accoccoli in grembo?>
<Notte> rispose bella e pregna di pensiero
<Notte, suono tellurico, fondo di Lutto>

Odisseo s’allontana nel vestibolo e prepara per sé un giaciglio di pelli e velli. L’anziana Eurinome lo copre protettiva e s’allontana silenziosa dall’insonnia dell’Eroe. Odisseo è completamente impigliato nel pensiero della vendetta e nel muto della parola.
Penelope, nelle sue stanze, consuma occhi in pianto sino a che giunge Atena a spargere sonno sulle sue palpebre. Tutto è nel morbido tessuto dell’ispida attesa.

Carol Rama, Bricolage, 1967

Ad Odisseo disteso scorrono innanzi agli occhi di fuoco le gambe amanti e ridenti delle ancelle che, dalle loro stanze, raggiungono i Pretendenti. Odisseo mastica silenzio di parola, ancora.
Penelope alza sguardo ad Artemide nell’impasto di lacrime e invocazione desiderante.
Il silenzio imbozzola ognuno. Nel silenzio il pianto di Penelope ascoltato da Odisseo. Ciò richiama alla mente, nel farsi dell’Opera, la comparsa di Teti in risposta al pianto di Achille o gli scarni gesti di Andromaca che sussulta al pianto di Ecuba ai bastioni.

So del luogo in cui il pensiero alberga
sfilacciandosi muto
tra la forza dei marosi
di due labbra serrate

All’alba Odisseo si desta. Odisseo si sposta dal vestibolo al cortile. Invoca uomini e dei varcando le soglie. Il Palazzo si ridesta. Giunge Eumeo e Melanzio e Filezio portano maiali, capre ed una mucca per il banchetto.
La tensione nella Reggia sta per giungere al proprio acme.
Penelope in una notte aveva dipanato e tessuto il proprio essere due: distruttrice e tessitrice di inganni, passiva e impilatrice di strategie.
Al culmine dell’azione la parola diviene quasi assente.

Piegare l’aria
farne arco
e tendere la parola
Chi parla è fenditura d’aria e telo bianco. Telo lasciato nelle stanze, oltre e fuori la sua terminata funzione. Interessante leggere, all’interno dell’Iliade e dell’Odissea, il ritmo poetico attraverso cui la parola veste e sveste simbolico. La parola è contornata da visioni sensoriali, annullamenti nel sonno, si preannuncia attraverso apparizioni, si dilegua nelle morti, lascia spazi vuoti, poche volte è strale, sempre avvolge l’evoluzione del narrato, inseguendolo e sfilandolo da rocchetto di pensiero. E’ assenza di parola il sudario bianco di Laerte, riflette l’assenza di spazio esterno per Penelope, il suo essere decentrata dagli eventi, è la filatura dell’attesa in cui Ella tesse il muto canto del ritorno e l’odio per la condizione in cui è tenuta da fato e condizione. Il sudario è specchio opaco verso cui giunge il nulla dell’attesa. Il Sudario per Laerte è ombra per Penelope.

Carol Rama Dorina, 1940

La parola appare e scompare al ritmo del respiro degli eventi all’interno del corpo della scrittura.

Le mucose palpitano
solcate da crateri d’invasi d’energia
l’ascolto è un’apertura nelle viscere del senso

E’ assenza di parola (nei fatti) in Cassandra che si disfa dinanzi alla visione del destino. Cassandra si disfa in parola inutile perché, la Sua, è parola inscritta nel corpo dello spreco. Andromaca prima (da Ettore) e Penelope dopo (da Telemaco), vengono mandate nelle loro stanze a presiedere all’arte della tessitura, viene ribadita la loro impotenza a decidere, per sé, di voler vedere. Il loro vedere era stato inscritto ad un altro vedere, quello della tessitura che trama e ordisce il simbolico. Entrambe sono in una parola altra, sono nella parola che dice presente di ruolo e di ordine antico: ordine di perdita di sacralità femminile. Nel loro ritirarsi, dunque, recalcitrano perdita di regalità e sottomissione di volontà. Inviate nelle loro stanze alla tessitura perché la morte è “cosa” di uomini, a loro la parola muta del pianto, esperienza che narra disfacimento di corpi.

Rosso di lente stille
il tempo della parola

Nell’Iliade le donne sono lontane dal vaticinio e sono dinamicamente vicine al furto maschile, radicato nelle loro fibre e mai nominato: furto dell’atavica e femminile sacralità. La sacralità è stata estirpata dalle loro vene. La sacralità, funzione gemella del “mettere al mondo”, del trasmettere la vita, del procreare nel culto del Mistero. Nell’Iliade, Cassandra, con uno sputo lanciatole nel cavo della bocca da Apollo rifiutato, perde l’ancestrale della parola: il potere veggente e divinatorio della stessa. L’Ordine del potere maschile, nell’Iliade, è anticamera del Logos parola-ragione.

Carol Rama, Opera utilizzata per copertina del Catalogo
Carol Rama, Self Portrait, Castello Legnano 15 novembre 2008-1febbraio 2009,
a cura di Flavio Arensi, Allemandi ed.

Alle donne il canto del lutto, della morte, del dolore, della perdita, della colpa. Nel femminile è riposta tutta la parte espunta da un maschile eroico, un maschile intento alla elaborazione della dimensione valoriale attraverso la conquista-affermazione di sé. La radice spirituale è stata espunta dal femminile e, questa parte (il femminile) viene riposta nel ventre dell’esperienza ripetitiva, dagli scarni gesti, dell’immanenza. La parola femminile si mostra ricca di echi e assonanze, richiama, allude e prelude a gesti solo se e solo se appartenente a semidivine fattezze, come nel caso di Teti. Nell’Iliade la parola si mostra all’interno del passaggio già avvenuto dal femminile al maschile. Dal femminile al maschile, ed è un maschile che occultata origine e matrice di quella sacralità da cui la parola è atavicamente intrisa.

Il caldo gorgoglio di un pastoso latte
mi unisce al battito dell’essenza
mi separa dal nulla del buio

L’antica sacerdotale sapienza della parola femminile s’incunea, per l’ultima volta, nella predizione di Patroclo, corpo incistato tra il maschile ed il femminile. A Lui il compito di traghettare la parola veggente ed iscriverla nell’orizzonte della vendetta in genealogia di gesti maschili. Sarà Patroclo, in punto di morte, avvenuta per mano di Ettore, a soffiare ad Ettore stesso la preveggenza della parola che annuncia la fine del Principe Iliota per mano di Achille. Seguendo l’andirivieni ritmico della parola nell’Iliade, folgora lo scorgere della messa in scena della parola maschile intorno alla morte: ad essa viene demandata interpretazione di segni e previsioni. A Merope, a Euridamante, a Eleno il compito.

Carol Rama La macelleria, 1980

Nel maschile la parola riscatta la morte, nel femminile la parola è soffocata da poche lallazioni e reclusa nel recinto dell’interminabile, monocorde, irreparabile dolore.
Il back-stage temporale ed epifanico dell’orizzonte della parola-ordine-logos prevede l’espunzione dell’ombra, della parte oscura, del disfacimento, del frammento. Tutti elementi eliminati e cuciti nelle pieghe del femminile. Sono pieghe di cui disfarsi prima di giungere alla solarità del logos che non contempla presenza di parti oscure. Modellare parola e intramare ontologia dell’essere sono gesti assolutamente limitrofi. Ontologia è parola frutto di elaborazione e produzione simbolica, è parola staccatasi dal portato esperienziale pronta per divenire tratto indicante l’assoluto per eccellenza: il logos ordinatore, il logos generante parola. E’ necessario scindere l’esperienza dall’idea di perfezione. La parola mostra ruolo e funzione del proprio essere all’interno di un epocale passaggio.

Si
lavò
le budella
alla
ricerca
dei
propri
occhi

Cosa c’è nella nebbia dei reiterati sonni profusi da Atena in Odisseo? La momentanea regressione alla parola dell’ordine materno ormai inscritto nel disordine del caos, del buio, della mancanza? Come nell’occhio di un ciclone il centro del turbine è immobilità assoluta, così i transiti di parola sono accuditi dalla sospensione che avvolge e contiene la possibilità del deragliamento tragico. Anche il mutismo o l’ammutolimento assurgono, in tal modo, a funzione.
Alle donne iliote l’intero peso dell’irreparabile lutto, ad Achille (continuamente sostenuto da Teti) il focus del dolore acheo sempre volto ad un’uscita, ad un’intima riparazione. Elena viene inscritta nel corpo della colpa. A Lei, Odisseo pone una mano sulle labbra per farla tacere mentre Lo riconosce nella Reggia di Priamo. La colpa sarà l’altro elemento espunto dalla solarità del logos. La mano posata repentinamente sulla bocca di Elena, è genesi di parola ordinata che regge il segreto in funzione di uno spostamento che non è nella direzione della verità ma nella direzione di una ragione superiore a cui sacrificare il proprio vedere.
La gestazione lunga della parola, quella gestazione che precede la generazione da logos portatore di ordine implica una riscrittura del desiderio ed è questa gestazione a passare da peplo a peplo tessuto da donne. Tesse Andromaca, tesse Penelope ma tesse, anche, Laodice e Afrodite si trasforma in anziana filatrice per indurre l’azione di Elena.
Molto lontana dall’ombra del silenzio della parola è la Regina di Scheria, Arete. Sarà lei a dipanare il bandolo della ricerca di Odisseo che giungerà alle lacrime e, con la sua parola, guiderà l’intera azione nella Reggia e l’approdo finale di Odisseo ad Itaca.

Arete non tesse. Arete è.

Sulle tele s’avvicendano le narrazioni delle gesta eroiche o di gesta miticamente fondanti. Il Sudario è l’unica tela bianca e sottostà a filatura e sfilatura, sta ad ordine del tempo dell’inganno e della strategia verso cui l’azione si muove, è bianco d’assenza di parola. E’ dentro di strategia visionaria non nominabile.

Immersa
emersa
archetipo movimento
morte mai finita
radice di mille
bocca eterea

Colpisce del femminile iliotico la mancanza di elaborazione immaginativa, una delle sostanze centrali dell’essere in parola e del forgiare auroralità di parola. Sognano, invece, Nausicaa e, in più occasioni, Penelope: la qualità del Loro sogno è legata alla sfera del desiderio femminile ed è qualità tutta torta sulla e alla vicinanza ad Odisseo, all’amore per l’altro non per sé. In Nausicaa è Atena a guidare azione in funzione del movimento evolutivo della storia, in Penelope il sogno compare più volte e nutre attesa, visione ristretta di esiti sempre legati al Ritorno. Dimensione in cui lascia percolare la propria stanchezza, la propria stanca disillusione sino a giungere alla nominazione di cosa siano le porte d’origine del sogno stesso. Ormai la parola si è introversa e ha vissuto la propria separazione da quella parte di sé che diverrà logos.

dove
il sogno trasmigra
donando pensiero
materia, ago, filo
per imbastirsi in nuove trame di vento

Nell’opera omerica si delinea un importante sismografo su cosa siano le forze telluriche sottese alla parola. Nell’involucropelle apparentemente leggero della parola si muove e si smuove tutto il costrutto legato alla genesi relazionale dello stare al mondo, tutta l’elaborazione delle visioni del mondo, tutte le tensioni che attraversano l’epoca di riferimento. C’è parola su una tavoletta sumerica che conta numero prezioso di pecore scambiate, c’è parola nell’eremitismo ascetico, c’è parola in un dripping, in una parola c’è ordine e logos e infrazione della norma, nulla di più articolato, vivo, denso, eretico della parola. La parola rifugge ogni possibile fissità. Neanche in merito alla propria origine è possibile pensarla dato o evento o fissità. La parola è origine che continuamente si origina all’interno di una matrice che è la poesia: sguardo generativo sul reale e mai interrotta messa al mondo del mondo fino a che, umanità sarà.

C’è un’etica dell’estetica
nella vena viva del bello1
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NOTA

1 Tutti i testi in corsivo sono editi in pubblicazioni dell’Autrice di Muto Canto 10
Le immagini presenti nel testo sono Opere dell’artista Carol Rama (Torino 1918-2015)
fonte: da rete, siti Flash Art-Artribune-Baltic Plus



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