(Redazione) - Specchi e Labirinti - 16 - Il numero oscuro (un racconto di Paola Deplano)

A cura di Paola Deplano
Uno scherzo, il giorno del tuo compleanno. Soffocandoti dalle risate, organizzasti il tuo funerale. A ciascuno assegnasti un compito. A Gennaro, il giornalista, l’articolo di commemorazione; a Chiara, la musicista, la messa da requiem; a Simona, la poetessa, una poesia da declamare in un grande parco pieno di gente colorata; a Giulio, l’architetto, la bara fuori dall’ordinario – «Rosso lacca, mi raccomando!» puntualizzasti – e lui ridendo, preso dal gioco, disse subito di sì.
Gli altri non ricordo, ma era una tavolata piena di gente, tutti i tuoi amici, e a ciascuno dicesti cosa fare, da qui a cent’anni, naturalmente. Aspettai invano il mio turno, ero lontanissimo da te, anch’io a capotavola, ma dall’altra parte. Non ci fu nessun incarico, per me. Cioè, arrivò la torta e ti distrasse. C'ero rimasto male, ma non dissi niente.
La terrazza sul mare risuonò a lungo, quella sera, delle nostre risate. Ero geloso di Gennaro, che si era trionfalmente seduto alla tua destra e non faceva che riempirti il bicchiere di vino e tu che urlavi basta, basta, con le mani sopra il calice, ma non serviva a niente perché lui ti bagnava le mani ma il bicchiere riusciva a riempirtelo lo stesso. Tu lo guardavi negli occhi e non riuscivi a dirgli no. Nella nostra comitiva Gennaro era sbucato di recente, col suo lieve accento partenopeo, le sue due lauree, la sua esperienza da giornalista inviato in zone di guerra. Con me non c’era proprio paragone.
La mia impresa più eclatante era stata il blocco di un cantiere abusivo. Durante le mie ferie un povero diavolo aveva preso un pollaio e aveva tentato di farci un gommista. Il vicino di casa aveva denunciato tutto nero su bianco a quel cretino di Russo e non avevo neanche potuto risolvere con le buone, al mio ritorno. E Russo che insisteva: «Marescià, non potevo fare altrimenti. Quello aveva denunciato e io dovevo raccogliere la denuncia. Lo sapete pure voi che esiste il reato di omessa denuncia, marescià.»
Dopo cena, scendemmo in spiaggia e tu ti togliesti le scarpe e scendesti la scalinata con eleganza, le scarpe in mano, i piedi bianchi e stupendi con le unghie laccate di rosso. Gennaro lo cantò, ma giuro che lo avevo pensato anch’io: «Andava a piedi nudi per la strada…» Giulio ti indicò le unghie dei piedi e domandò: «Chiedo scusa, professoressa, la tonalità di rosso della bara dev’essere questa?» Risero tutti. Tutti tranne me, perché questo scherzo di cattivo gusto stava cominciando a non piacermi più.
Dopo gli schiamazzi sulla spiaggia, andammo in discoteca fino alle tre di notte. Fui io, che non avevo bevuto, preciso e previdente come sempre, che mi offrii di accompagnarti a casa. Nel salutarmi ti avvicinasti e il cuore – il mio, naturalmente – si fermò. Il tuo bacetto fraterno aleggiò nell’aria, a circa tre centimetri di distanza da quella guancia che mi ero rasato con cura solo per piacerti, ottenendo come unico risultato questo saluto da bimbi dell’asilo. La tua voce fuori dalla macchina, già di spalle nel vialetto di casa: «Buonanotte, grazie di tutto, tesoro.» Tesoro.
Era luglio, ma passai una giornata intera a non aprire i finestrini e a non accendere l’aria condizionata, pur di tenere in macchina il tuo profumo, poi non so quanto tempo a ripetermi tesoro, tesoro, tesoroQuesto, prima di Fabio.
Quando ce lo presentasti, mi sentii morire. Aveva gli occhi trasparenti, di ghiaccio. Il giorno dopo, nello studio di Giulio che lavorava al computer senza darmi troppo spago, mi ricordo che glielo dissi di corsa, quasi vergognandomi: «Quell’uomo non mi piace.» Con gli occhi fissi al computer, Giulio ribatté: «Non metterti a fare il carabiniere, adesso.» Non mi credeva. Lo ripetei, sperando potesse capire: «Non mi piace, ti dico.» La voce mi tremava un po’. Finalmente Giulio si girò a guardarmi, comprensivo, con un sorrisetto a metà tra il malizioso e il divertito: «Non è che sei geloso, per caso?» Preso in contropiede, borbottai qualcosa d’incomprensibile e lui tornò a girarsi verso il computer: «Quello che non capisco è perché non glielo hai mai detto. Ce ne siamo accorti tutti, sai. Forse persino lei se n’è accorta.» Sentii il rossore avvamparmi le guance: «Ti sbagli. Lei per me è un’amica e basta. È solo che lui non mi piace, ecco tutto.» Giulio si girò di nuovo, con il volto serio, stavolta, servendomi su un piatto d’argento la sua verità – e forse anche la mia: «Compà, metti il nome giusto alla cartella di questo file. Non è amicizia, è amore. Metti il nome giusto, senti a me. Sennò sono cazzi. Poi fai come ti pare. Sei maggiorenne e vaccinato, io non ne voglio sapere niente.»
Non ti ho mai parlato, amore mio. Ora mi pento. All’inferno ci scendi piano e non te ne accorgi.
Lui disse che non era opportuno parlare al telefono con gli amici maschi e uscire con loro. Lui disse che le tue amiche erano tutte troie ed era meglio non frequentarle. Lui disse che ti conveniva lasciare il tuo lavoro da professoressa precaria per dedicarti solo alla casa. Lui disse che scrivere racconti era una stupidaggine e avresti fatto meglio a pulire il bagno. Lui disse che dovevate trasferirvi in campagna perché a lui piaceva di più della città. Lui disse che tanto non lavoravi e quindi la macchina non ti serviva. Lui disse che tua sorella e i tuoi genitori erano degli stronzi che si stavano impicciando troppo. Lui disse che il bambino che aspettavi era meglio non tenerlo. Lui disse.
Intanto la mia vita andava avanti, bene o male.
Il 20 aprile mi operarono d’urgenza per l’appendicite. Dalla caserma passai quasi direttamente in sala operatoria. Venisti a trovarmi due giorni dopo. Fu buffo, perché vedendoti arrivare mi toccai il viso, vergognandomi della barba non rasata. Ma i problemi erano altri. Le labbra serrate, le gambe strette, ti sedesti rigida sulla sedia accanto al mio letto. Gli occhiali scuri, enormi, nascondevano mezzo viso. Mormorasti appena, quasi senza fiato: «Come stai?» Mi sporsi dal letto: «E tu come stai?» Avevo tanta voglia di abbracciarti, così misi la mia mano sulle tue, che tenevi strette in grembo. Trasalisti, come se ti avesse preso il fuoco, e ti allontanasti con tutta la sedia, in modo che io non potessi toccarti più. Ero avvilito: «Scusami.» Rispondesti a scatti, come un robot: «No, scusa tu.» Cercai di essere il più dolce possibile: «Scusa di che? Non hai fatto nulla di male.» Riprendesti a guardarti le mani, di nuovo disperatamente intrecciate in grembo. Dicesti: «Scusa, è colpa mia di tutto quanto.» C’era un mondo, in quelle parole, e noi lo sapevamo.
Rabbrividii. Pallida e magra, occhiali scuri e capelli sporchi, quei capelli a cui un tempo tenevi così tanto, ricci e rossi, non ci voleva molto a capire che eri nel numero oscuro. Un ricordo lontano, la voce piatta del docente di criminologia: «Per numero oscuro s’intende il numero di reati commessi ma mai denunciati dalle vittime, spesso per paura. Nel caso delle violenze domestiche, si stima che il rapporto tra le denunce e i reati sia di uno a dieci.»
Mi tremava la voce, ma lo dissi: «Tu non sei felice. Lui ti picchia, vero?» Continuavi a tenere il viso basso, senza dire niente, e continuavi a guardarti le mani. «Dimmelo, ti picchia?» Eri troppo zitta. «Togliti gli occhiali, ti prego.» Silenzio. «Ti prego.» Silenzio. «Non devi avere paura. Non devi neanche uscire da qui. Chiamiamo i poliziotti di servizio all’ospedale e lo denunciamo. Ci sono io con te. Lo denunciamo e poi è tutto finito. È tutto finito, te lo giuro.» Silenzio. «Hai la legge dalla tua parte. Hai la tua famiglia. Hai i tuoi amici.» Silenzio. Poi, non so con quale coraggio, la parte più difficile: «Hai…me…se vuoi…»
Sei scappata, la sedia è caduta, con un tonfo assurdo. Abbiamo fatto tutto quello che volevi, al tuo funerale, amore mio.
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Questo mio racconto è stato letto e interpretato dall’attore Alberto Principe il 25 novembre 2014 nella Sala Consiliare del Comune di Crotone nel corso dell’iniziativa “Quello che le donne dicono”, indetta dall’Assessorato alle Pari Opportunità nella Giornata mondiale contro la violenza di genere.

(Paola Deplano)
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