Su "Elegia Ambrosiana" (Collettivo K - Divergenze ed.) - recensione di Sergio Daniele Donati

Quella che state per leggere non è una recensione, né un commento a un testo che mi ha lasciato sbalordito; nel silenzio. Anzi, del testo parlerò davvero poco.
Ciò che sto per scrivere è un tentativo di sintonizzazione, come facevo da adolescente con le vecchia radio internazionale che avevo ricevuto in dono da papà, girando il manopolone finché non riuscivo a beccare qualche strana stazione di Zagabria o Kiev.
Leggo sul testo di Elegia Ambrosiana (Divergenze ed) del Collettivo K che “i membri di tale collettivo, gruppo di street poetry dal 1981, affidano i loro lavori a gessetto a selciati, mura e marciapiedi, perché non lascino segni sulle superfici. […] Tutti i componenti del collettivo sono stati e voglio restare anonimi, in linea coi loro componimenti […] Nella silloge del primo collettivo di street poetry d'Italia, i versi miti e infuocati comparsi a Milano e dedicati alla città proprio come un canto, un'elegia ambrosiana […]”.
Poesia collettiva?
Già sento il canto delle mie radici farsi largo da chissà quali meandri e viscere.
Perché ogni scrittura è un fenomeno collettivo, sempre.
Ogni scrittura è corale, sempre.
Ogni scrittura è prima, durante e dopo chi la scrive, sempre.
Non c'è ebreo che non sappia quanto il collettivo abiti i nostri nomi e quanto la scrittura non sia mai un fenomeno che possiamo dire nostro.
Ci attraversa, si arricchisce del nostro humus e va lontano; sempre.
“Scrivere è donare minerali e sostanze preziose a un fiume che ci attraversa e va lontano da noi, fuori da noi”.
Me lo diceva un vecchio, tanto tempo fa.
Scriveva poesie orribili, improponibili ma, se osservavi il suo lavoro posturale prima di scrivere la prima lettera - l'occhio che si restringeva come a mettersi all'ascolto di un coro silenzioso, il suo gesto di annuire come a dire: “ok ho capito il messaggio”-, quello era poesia.
E somigliava tanto al mio gesto adolescente, col manopolone e la radio. Un tentativo di mettersi all'ascolto dell'incomprensibile (non ho mai studiato le lingue slave io).
Sono cose che ci insegnano da piccoli, con cui ci formiamo.
Nessuna voce è solitaria, nessun timbro vale la pena che esista se non si intona al coro delle voci altrui.
Un messaggio antico e rivoluzionario, che contrasta la tendenza alla costante ripetizione del solo proprio nome, come se fosse un unicum a sé stante.
E ogni voce è un unicum, proprio e solo in quanto unico è il modo con cui si “sintonizza” col coro.
Poesia anonima?
No, quella del Collettivo K non è poesia anonima. È poesia del Collettivo (l'unico vero autore).
Anonimo resta il singolo autore non il Collettivo che infatti ha un suo nome in una lettera che, sarà forse deformazione letteraria mia, non può non ricordarmi un certo praghese dalle orecchie bizzarre.
E anche questo fa molto vibrare delle antenne che con gli anni ho affinato.

Nei testi più letti della letteratura sacra ebraica il nome dell'autore non compare mai.
E questo sia che si creda all'origine divina ad esempio del Pentateuco (il nome di D-o non si pronuncia), sia se si dà spazio alle letture critiche del testo stesso dove emerge chiaro che non fu un unico autore a scriverlo.
Lo stesso vale per i Salmi (una vera summa poetica): ne chiamiamo l'autore il Salmista ma in realtà è evidente che fu opera collettiva e dalla stesura plurisecolare e che, ab origine, è rimasto anonimo il nome dei suoi compilatori.
Ci avete mai pensato?
Di quei testi conosciamo le migliaia di nomi di coloro che, per millenni, si sono succeduti alla loro interpretazione. Ma non conosciamo il nome dell'autore (o degli autori).
C'è un messaggio profondo dietro a questo auto-zittimento dell'autore, dietro la sua opera.
Per certi testi il nome dell'autore avrebbe lo stesso effetto della diga per il fiume.
Nella silloge del Collettivo K c'è un compimento brevissimo dal titolo Gelosia, che in nota viene definito come aforisma.
Il testo recita:
Non farò mio
quel sogno impossibile.
Quando l'ho letto una piccola risposta, una sorta di dialogo poetico, mi è sorto spontanea.
Ho preso la mia stilografica e ho scritto

Non farò mio
quel sogno impossibile.
Ma è proprio un sogno
a renderti possibile.

È un peccato che non possa rendermi anonimo anch'io, ma vorrei comunque lasciarlo come unico mio commento ai testi della silloge
Per il resto, davvero, leggete l'Elegia Ambrosiana.
Per i milanesi sarà fonte di commozione vera; e per gli altri, davvero non credo si possa trovare modo migliore di penetrare la sobria bellezza della città che da sempre considero la mia vera e unica amante.


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