(Redazione) - Speciale "Mediterraneo" - "Mediterraneo solo nostrum?" Intervista a Pietro Bartolo di Ester Guglielmino
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| Foto di Sara Groblechner su Unsplash |
“È gelida l’acqua. Mi entra nelle ossa. Non riesco a liberare la stazza dall’acqua. Salto da un punto all’altro ma ogni tentativo è vano. Uso tutta la mia forza e la mia agilità ma la lancia resta piena. E cado.
All’improvviso. Senza nemmeno rendermene conto. Ho paura. È notte fonda e fa freddo. L’incoscienza dei miei sedici anni mi ha portato a non calcolare il rischio. Non potevo e non dovevo cadere in mare. Mi sembra di morire.
Nella barca grande dormono e chi sta al timone sembra non essersi nemmeno accorto che sulla lancia attaccata dietro non c’è più nessuno. Ho paura. Siamo a quaranta miglia da Lampedusa e, se non riesco a farmi sentire subito, mi lasceranno qui e sarà la fine. Si renderanno conto di avermi perso solo arrivati in porto. Non voglio morire così. Non a sedici anni. Sono terrorizzato.
Il panico sta per impadronirsi di me e comincio a urlare con quanto fiato ho in gola, cercando di rimanere a galla e di non farmi trascinare giù da questo mare che ci consente di sopravvivere ma che può anche decidere di abbandonarci per sempre, di diventare un mostro crudele che non ha alcuna pietà. «Patri» urlo con l’angoscia che mi cresce dentro. «Patri» urlo ancora. Lui è al timone e non mi sente. La fine si avvicina, penso, ma continuo a urlare. Poi qualcosa accade. Lui si volta e si accorge di me, delle mie braccia alzate, della mia voce rotta dal pianto, e torna indietro a prendermi.
Urla ai marinai di svegliarsi. A bordo del Kennedy cresce l’agitazione. Il mare è mosso e non è facile tirarmi su, ma alla fine ci riescono. Sono salvo. Ho freddo, sto male, inizio a vomitare acqua salata. Piango come un bambino disperato. Mio padre mi stringe forte, mi riscalda come può. Torniamo a casa con la barca vuota per una battuta di pesca andata male ma con una vita salvata. La mia.”
Da
Lacrime di sale,
Pietro Bartolo e Lidia Tilotta, Mondadori 2016
Comincia
così Lacrime
di sale,
il primo libro di Pietro Bartolo scritto in collaborazione con Lidia
Tilotta ed edito da Mondadori nel 2016. Comincia
con la voce di un ragazzino lampedusano in preda al panico, perché è
notte, perché è caduto in acqua e perché - ora - sta per annegare.
Poi il miracolo accade: il padre lo sente, lo trae in salvo e, per la
seconda volta, gli fa dono della vita. Oggi quel ragazzino è uno
stimato medico, ormai in pensione, che al “mare
nostrum”
e alla professione ha legato a doppio nodo la sua vita, rispondendo
quasi a una misteriosa predestinazione. Quel ragazzino, infatti, per
oltre trent’anni - a Lampedusa - è stato medico di frontiera: come
responsabile del poliambulatorio ha accolto, visitato e salvato
migliaia di vite che, come lui, hanno conosciuto del Mediterraneo il
volto più cupo; come testimone ha raccolto e divulgato le storie di
uomini, donne, bambini che su quei fondali hanno lasciato madri,
padri, figli, fratelli, speranze di sogni vagamente occidentali; come
primo avamposto dei soccorritori ha eseguito il numero più alto al
mondo di autopsie, toccando con mano un fenomeno epocale che troppo
spesso è stato liquidato - dalla fredda distanza di comode poltrone
- con poche sprezzanti parole; come europarlamentare si è
concretamente adoperato per dare delle risposte a tutto questo
dolore.
EG: Ecco, quel ragazzino era Lei, dottor Bartolo. E nella mente del suo
lettore si crea subito un parallelo tra la sua esperienza di naufrago
e l’esperienza dei tanti che, in quello stesso mare, sono stati sul
punto di morire. Quanto è stata importante questa sua esperienza di
vita per immergersi nei panni dell’altro, per capire cosa si prova
a stare dall’altra parte, per infonderle il senso di responsabilità
insito nel farsi “padre” di un salvataggio? Ovvero, in termini
più spiccatamente letterari, quanto narrare sé stessi può servire
per riuscire a narrare le storie degli altri?
PB: Le
rispondo con franchezza. Sicuramente sì, è stata un’esperienza
importante ma non avrebbe cambiato di molto il mio modo di agire. Io
sono un medico, ho promesso osservanza al Giuramento di Ippocrate, a
cui sono obbligato eticamente e moralmente; ma, ancora prima, sono un
uomo e credo nella giustizia sociale, per questo ritengo di non aver
mai compiuto degli atti di eroismo, perché una società che crede
questo è una società malata. Io ho fatto quello che andava fatto,
ho assolto al mio dovere di medico e di uomo. Sul piano letterario,
le posso dire che scrivere si è fin da subito configurato come
un’esigenza e un’urgenza. Prima di decidermi a farlo veramente,
avrò iniziato almeno cento volte, sull’autombulanza, durante i
turni di notte… ma mi frenava sempre una sorta di pudore per quelle
storie che mi erano state affidate. Storie che trasudavano del dolore
di chi le aveva vissute. Mi sembrava di fare loro un torto, di
rendere pubblica la loro intima essenza. Allora, alla fine, ho deciso
di entrare anche nella mia intimità, di mettere in gioco anche la
mia storia privata. Mi sembrava giusto che narratore e protagonisti
delle storie narrate fossimo su di uno stesso piano. L’obiettivo
era, ed è stato sempre, quello di dare voce alla verità, di
superare quel senso di solitudine che per tanti anni mi ha
attanagliato. Perché, prima di incontrare il supporto dell’arte e
della letteratura, la mia voce è stata passata sotto silenzio,
gridavo ciò che vedevo ma nessuno mi prestava veramente ascolto.
Devo molto al cinema e alla scrittura, mi hanno liberato dalla
necessità di appoggiarmi alla voce altrui, mi hanno permesso di
parlare con la mia voce.
EG: Dottor Bartolo, Lei proviene da una famiglia di pescatori e, pur
avendo scelto nella sua vita una professione diversa, si è ritrovato
anche da medico a fare i conti col mare in cui è cresciuto. Cosa ha
rappresentato nella sua vita il mare Mediterraneo, in positivo e in
negativo? Ossia come la sua isolanità ha condizionato il suo modo di
pensare e di agire nel mondo?
PB: Il
mare per la mia famiglia era tutto, ricordo ancora la felicità che
provavamo quando mio padre tornava da una buona pesca. Ma, anche
dopo, il mare o meglio l’etica che il mare ti insegna mi ha
guidato. Una delle domande che più spesso mi rivolgono è come mai i
lampedusani non protestano, non si ribellano, non chiudono le porte a
chi viene dal mare. La risposta è molto semplice: perché sono un
popolo di mare, perché agiscono secondo la legge del mare ossia
quella di salvare, di accogliere, di ospitare. Durante la mia
carriera ho accolto almeno trecentocinquantamila persone; i
lampedusani ne hanno accolti più di me e continuano a farlo,
nonostante – spesso – nessuno li aiuti. Perché non avremmo
dovuto farlo, perché non dovremmo continuare a farlo? Perché
all’Africa manca qualcosa? No, l’Africa è una terra ricca,
ricchissima, non manca di nulla. Noi l’abbiamo usata come un
ipermercato, da svuotare. Nel mio secondo libro Le
stelle di Lampedusa racconto
una storia emblematica in tal senso. Anila è arrivata qui in Italia
quando aveva otto anni, era già allora una bambina bellissima. Ora
che ne ha diciotto di anni è diventata una modella. Non mancava di
alcuna dote o talento, eppure ha tentato il suicidio ben cinque
volte. La sua storia, la storia che racconto nel mio libro, è la
storia di un riscatto. Si è ripresa quello che la natura le aveva
dato e che l’opportunismo degli uomini le aveva tolto. Sarebbe
bello se ciò avvenisse per l’Africa intera. Nella realtà è molto
più difficile ma, attraverso la scrittura, la sua storia è
diventata metafora, simbolo, speranza.
EG: Lei
ha conosciuto storie terribili, come quella di Anila appunto,
affidatele dalla narrazione diretta dei suoi interlocutori. Storie di
cui è diventato non solo testimone ma anche narratore di secondo
grado, attraverso i suoi libri. A suo parere, qual è oggi il valore
intrinseco che la parola rischia di smarrire e che, invece, non
dovrebbe smarrire? Con quali parole bisogna affrontare la narrazione
di una realtà complessa e stratificata come la nostra e Lei come si
è orientato nelle sue scelte?
PB: Oggi la tendenza costante è ripetere in maniera ossessiva delle
parole fortemente negative. Ma le parole, quando si ripetono di
continuo, diventano narrazione presunta della realtà, diventano
verità. Ad esempio, nei riguardi dei migranti è stato usato (da un
ministro peraltro!) il termine “sostituzione etnica”, ma l’uso
di questo termine non fa i conti con la storia. Il Mediterraneo è
stato luogo di incontro e di commistione tra popoli di etnie diverse:
greci, fenici, arabi, romani e tanti altri. È stato proprio questo
incontro a far sì che noi potessimo fregiarci dell’espressione
“culla della civiltà”, se il mare
nostrum
è diventato culla della civiltà lo dobbiamo a questi rimescolamenti
continui che ci hanno arricchito, hanno reso la cultura di questo
mare composita e stratificata. Anche in seno al Parlamento Europeo
tante volte mi sono sentito solo, profondamente solo. L’Europa si
fonda su un’idea di base, sancita dal Patto di Ventotene, che è il
rispetto dello stato di diritto, ma questo dovrebbe voler dire
coerenza, dovrebbe voler dire non avallare regimi dittatoriali,
dovrebbe voler dire non tollerare derive estremiste. Ma ciò non
avviene. Quindi, per rispondere alla sua domanda, chi usa certe
parole o lo fa per ignoranza o lo fa per mistificare la verità.
Allora io, in qualsiasi discorso o racconto pubblico, mi pongo come
unico obiettivo una comunicazione vera, onesta. Tante volte mi è
capitato che, dopo un incontro, qualcuno mi si sia avvicinato e mi
abbia detto di aver modificato le sue idee. Ecco, questo deve fare la
parola, deve fornire gli strumenti necessari perché ciascuno si
possa fare un’idea propria delle cose. Perciò, se pure dovessi
riuscire a ottenere questo risultato con una sola persona, mi sentirò
pienamente soddisfatto del mio operato.
EG: È
assai probabile che Lei sia venuto a conoscenza della triste storia
di Tesfalidet Tesfom, un giovane eritreo sbarcato nel porto di
Pozzallo il 12 marzo 2018 e deceduto il giorno dopo per una grave
forma di tubercolosi che gli aveva già perforato un polmone. Nei
lager libici, da cui scappava, gli avevano dato il nome di Segen, un
nome di donna che vuol dire “col
collo lungo come uno struzzo o un cammello”,
infatti era diventato quasi uno scheletro, di appena trenta chili.
Dopo la morte, nel portafogli di Tesfalidet hanno ritrovato un
foglio, perfettamente ripiegato e in bella calligrafia, che riportava
due sue poesie in tigrino: Non
ti allarmare fratello mio e
Tempo
sei maestro,
oggi accreditate dalla Treccani e antologizzate in testi scolastici.
Due
poesie che sono baluardo estremo di resistenza dell’animo umano
dinnanzi al dolore, all’ingiustizia, alla sopraffazione o, peggio,
all’indifferenza. Tesfalidet è morto all’ospedale maggiore di
Modica, la mia città, ed è stato sepolto assieme ai tanti altri
migranti che ne hanno condiviso - e che continuano a condividerne -
la sorte. Eppure c’è qualcosa di diverso, di terribile e sublime
assieme nella sua storia: la fede incrollabile nella poesia e nella
forza rigenerante della parola. Ecco, vorrei chiederle un commento su
questa vicenda, purtroppo tanto simile a quelle che Lei ha raccolto
durante la sua vita e riportato nei suoi libri. E soprattutto vorrei
chiederle: davvero la parola può riscattare l’orrore, il male,
l’indifferenza o rischia essa stessa di diventare oggetto di facili
strumentalizzazioni?
PB: Le
racconto una storia. L’ultimo sbarco che ho seguito, prima di
diventare europarlamentare, risale al 2019. Si trattava di un barcone
su cui erano arrivate cinquanta donne, peraltro tutte molto belle.
Dopo i controlli medici di rito, mentre stavano tornando in direzione
dei soccorritori che le avrebbero accompagnate, vidi una di loro
staccarsi dal gruppo e andare in direzione opposta, senza alcun
preavviso. In un primo momento pensai avesse necessità di andare in
bagno e non mi preoccupai, ma poi all’improvviso la vidi
accasciarsi in ginocchio e scoppiare in un pianto disperato. Allora,
allarmato, le andai incontro, le chiesi cosa avesse, cosa fosse
successo. Ancora in lacrime cominciò a raccontarmi la sua storia:
era fuggita dalla Nigeria; per riuscire a passare il deserto era
stata più volte venduta e comprata, era stata trattata come una
merce, era stata stuprata; arrivata in Libia, senza alcun motivo, era
stata messa in prigione (le prigioni gestite da quell’Almasri che
abbiamo rimpatriato come un signore!) e lì era stata picchiata,
affamata, abusata tante volte davanti agli altri prigionieri; eppure
- mi disse - in tutte quelle occasioni non aveva più provato niente:
era come se quel corpo non le appartenesse più, come se non
corrispondesse più alla sua vera identità. E ora, mentre quello
stesso corpo aveva raggiunto la meta tanto agognata, lei pensava solo
ai suoi tre bambini rimasti dalla parte opposta di quel mare. Lei
capisce? Il corpo e l’io, spaccati, scissi, resi estranei l’uno
con l’altro. Molto spesso, quando i migranti scoprono di essere
sbarcati in Italia e di essere ancora lontanissimi dalle mete europee
che vorrebbero raggiungere, occorre ricorrere al TSO (ndr.
trattamento sanitario obbligatorio) per calmarli. Ma non mi è mai
successo di assistere a un TSO usato verso una donna, perché le
donne sono molto più forti degli uomini, sono incredibilmente più
coraggiose e resilienti. Quindi che questo ragazzo avesse avuto in
sorte un soprannome femminile, forse ci fa capire quanta forza
avesse. Tuttavia, questo ci dimostra anche quanto il concetto di
“deterrenza” messo in campo dall’Europa sia un concetto vuoto.
Quale elemento di deterrenza potrebbe essere più atroce di tutto
questo? Io ho letto le poesie di Segen e ho pianto, perché in quelle
poesie non c’è odio contro nessuno, c’è invece un potente
richiamo verso il senso profondo dell’umano. Oggi non possiamo più
gridare “restiamo umani”, forse dobbiamo gridare “restiamo
uomini”. Ecco, la parola può essere nobile, ma può pure essere
pietra. Tenerne conto è fondamentale quando si fa informazione.
Tanti - giornalisti, politici, predicatori - si limitano a ripetere
parole vuote, che non hanno riscontro nella realtà, ma altrettanti
spendono la loro vita per dare voce alla verità. Allo stesso modo
Segen ha perso la sua vita, ma almeno è riuscito a dare voce al suo
monito rivolto a tutta l’umanità.
EG: Dal
2019 al 2024 Lei è stato impegnato come europarlamentare e ha
ricoperto vari incarichi di prestigio: è stato Vicepresidente
della Commissione
per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del
Parlamento europeo (LIBE);
membro titolare della Commissione per i bilanci (BUDG); ha curato le
relazioni con i paesi del Mashreq (DMAS); è stato membro della
Delegazione per le relazioni con l'Iraq (D-IQ) e della Delegazione
all'Assemblea paritetica ACP-UE (DACP). Secondo Lei, al di là delle
inevitabili differenze sociali, politiche e religiose, esiste una
base culturale comune che lega i popoli gravitanti sul mare
nostrum?
E oggi si fa davvero abbastanza per tenere in vita e tutelare una
dimensione multiculturale ma unitaria del Mediterraneo?
PB: Vede,
io non sono diventato europarlamentare per smania di potere o di
protagonismo, solo per assolvere a un debito morale verso un bambino
di tre anni. Era il 3 ottobre 2013 quando al largo di Lampedusa sono
morte trecentosessantotto persone, un numero enorme, una vera
ecatombe. Sul molo Favaloro c’era una lunghissima sequenza di
sacchi verdi e neri: è così che arrivano i cadaveri e tu, che sei
il medico, devi aprirli quei sacchi e fare l’ispezione cadaverica.
Una procedura terribile, in cui purtroppo detengo un triste primato e
a cui, mi creda, non ci si abitua mai. Quel tre ottobre, nel primo
sacco che mi ritrovai ad aprire c’era un bambino di appena tre
anni, bellissimo. Aveva dei calzoncini rossi nuovi, qualcuno glieli
aveva comprati per battezzare l’inizio della sua vita futura. Io
quel bambino non sono più riuscito a levarmelo davanti gli occhi. Io
a quel bambino dovevo delle risposte. Per questo sono diventato
europarlamentare, perché sennò cosa potrei raccontare ai miei
nipoti? Come potrei giustificare il fatto di non averci provato? di
essermi girato dall’altra parte? Ma l’Europa è sorda. Troppi
estremismi remano in direzione contraria. Ho ottenuto un appoggio
molto più efficace dal mondo dell’arte, che mi ha aiutato a far sì
che tutto questo non cadesse nel dimenticatoio e che spesso mi ha
fornito la possibilità concreta di venire in aiuto a chi ne aveva
bisogno. È grazie al cinema, ad esempio, se sono riuscito a trovare
la madre di Anila, la bambina protagonista del romanzo Le
stelle di Lampedusa.
Avevo fatto tante telefonate, in Europa, per cercarla. Era un’impresa
enorme, era passato del tempo, entrambe non si riconoscevano più.
Poi un giorno mi hanno contattato, mi avevano visto sul grande
schermo, volevano notizie della bambina ma non si fidavano, ho dovuto
convincerli documentando la mia vera identità. Dopo un po’ mi sono
sentito chiamare. Virginie è un’assistente sociale francese,
fortemente impegnata nel recupero delle donne oggetto di tratta. Ogni
giorno mette a rischio la sua vita, senza nessun tornaconto
personale. Mi ha raccontato che i suoi genitori le avevano parlato di
un film, di me; mi ha chiesto se fossi veramente io quel medico; poi
mi ha detto che conosceva la mamma di Anila, che era lì, accanto a
lei. Un miracolo.
EG: Parliamo
proprio di cinema, dottore. Lei è diventato, all’inizio
inconsapevolmente, il personaggio chiave di un famoso e apprezzato
film di Gianfranco Rosi, Fuocoammare,
che ha vinto l’Orso d’oro di Berlino, nel 2016. Un film che si
ricorda innanzitutto per la potenza delle immagini e dei silenzi, due
caratteristiche queste (le immagini e i silenzi) fondamentali in
poesia. Le chiedo: nello sguardo di Gianfranco Rosi Lei ha ritrovato
più lo sguardo di un narratore o più lo sguardo di un poeta? E in
che cosa differiscono, a suo parere, questi due modi, simili ma anche
diversi, di guardare il mondo?
PB: Gianfranco
Rosi è un genio. Quando si è trasferito a Lampedusa con
l’intenzione di girare un film sul dramma degli sbarchi, nessuno di
noi aveva capito niente. Lui girava così, da solo, per l’isola,
con una telecamerina che si portava appresso. Una notte mi ricordo
che ci vollero non so quante autorizzazioni per poterlo fare
assistere a uno sbarco. Lui venne con me, posizionò il suo
treppiedi, la sua telecamera, poi io mi allontanai per seguire le
operazioni di salvataggio. Dopo un po’ di tempo, improvvisamente mi
voltai nella sua direzione e non c’era più, vidi il treppiedi
ancora in posizione ma di lui nemmeno l’ombra. Ero un po’
risentito, pensai “ma guarda tu, dopo tante autorizzazioni dove
sarà andato?”. Il giorno dopo mi disse che non ce l’aveva fatta,
che a restare non era proprio riuscito. È la potenza di questo
sguardo, lo sguardo di chi che non ce la fa a restare fermo lì a
guardare che Rosi è riuscito a trasmettere nel suo film. Tutti, a
Lampedusa, ci aspettavamo - da un momento all’altro - l’arrivo di
una troupe cinematografica, di addetti alle luci, esperti di
microfoni, attori più o meno noti… e invece un giorno mi disse, di
punto in bianco, che stava andando via, che il film era già pronto.
Quando Fuocoammare
fu presentato al Festival di Berlino, io non sapevo nemmeno di essere
stato ripreso. Vedermi sullo schermo fu un’emozione fortissima.
Rosi, che mi aveva voluto con sé seduto lì accanto, mi sorrise e mi
strinse la mano. Quella serata non la dimenticherò mai. Quel grido
che avevo rivolto invano alla politica, alla stampa, all’opinione
pubblica, grazie a lui era arrivato a milioni di persone, con un
impatto fortissimo. È questo il potere infinito dell’arte, in
tutte le sue forme. È questo, credo, il potere di uno sguardo
poetico sul mondo.
EG: Lei
ha pagato a caro prezzo lo stress emotivo e fisico causatole dal suo
lavoro o, forse più corretto dire, dalla sua missione. Ritiene che
la ricchezza umana con cui è venuto a contatto in tutti questi anni
sia riuscita a compensare adeguatamente l’orrore con cui ha dovuto
fare i conti? E scriverne l’ha aiutata in quest’opera di
compensazione?
PB: C’è una bellissima poesia dedicata da Alda Merini a Lampedusa che
io ricordo nel mio ultimo libro. La Merini la scrisse in occasione
dell’inaugurazione della Porta d’Europa, il monumento di Mimmo
Paladino che ricorda tutti i migranti sbarcati (o spesso mai giunti)
nell’isola e che ricorda il cuore grande dei lampedusani. Il tema
centrale della poesia è un’enorme e rassicurante testuggine marina
a cui ci si può sempre aggrappare per essere tirati in salvo. Ecco,
per me la scrittura è stata una rassicurante corazza a cui
aggrapparmi per non cadere nell’orrore, una terapia per dare senso
e voce a quella che io non considero una missione ma semplicemente la
mia vita a servizio di tante altre vite.
EG: Le
mie domande sono finite, sono le quattro di un caldo pomeriggio di
settembre e il sole picchia ancora forte sulle strade. Il dottore
Bartolo si ferma, si stropiccia un po’ gli occhi, mi offre con la
consueta semplicità il suo sorriso amaro, affabile e cortese. Non
fosse per quella commozione sottile che si percepisce in ogni suo
gesto, per quello sguardo che chiama all’appello lo spettro quasi
palpabile di tanti ricordi mai sbiaditi, direi di aver parlato
amabilmente con un conoscente amico. Poi, ripercorro mentalmente le
tappe principali di quest’ora buona di conversazione, compio a
ritroso il viaggio tra le parole che abbiamo tessuto sul
Mediterraneo, sulla sua cultura, su ciò che è rimasto e su quel
tanto ch’è andato irrimediabilmente perso. Le trovo semplici,
asciutte, essenziali, perché le storie buone, in fondo, si
raccontano da sole. Però c’è quel lucore che brilla indomito
negli occhi, in controluce, a ricordarmi quanto l’eccezionale trovi
sempre accoglienza in chi lo vive come un’attitudine normale.

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