(Redazione) - a proposito di "Ex Madre" (Arcipelago Itaca, 2022) di Francesca Del Moro - una "non nota" in forma di racconto di Sergio Daniele Donati

 

Mi siedo al solito bar e ordino il solito caffè. Luglio a Milano significa ricordo e nostalgia e rivedersi piccoli, madidi di sudore dopo una partita a calcio nei parchetti, dove l'afa non dà tregua e le madri si preoccupano che il loro bimbo non prenda un malanno.
Ecco, mi cullo in quel ricordo e poi la sento, la fitta amica al cuore che da un anno so - finalmente - cosa significhi: "attento Sergio stai ignorando qualcosa, stai evitando qualcosa che ha bisogno di esser visto, con urgenza". 
E allora - ho imparato a farlo - chiudo gli occhi e sento la sua vocina che mi parla da tre mesi e che da tre mesi mi impedisce di trovar parola su quelle parole.
Eppure devo; ché quel libro è un dono, un dono che mi fa piangere da tre mesi, e fa che io ancora non ne sia riuscito a parlare.
Allora finisco il caffè e prendo penna e taccuino: che nota di lettura sia.

Ma no; altra fitta al cuore. 
Non può essere una nota come le altre questa perché quella scrittura lì non parla di una assenza lontana e algida, come ne parlano molti poeti per darsi un tono d'antan.
No quella scrittura lì, di Francesca Del Moro, parla della perdita, dell'archetipo della perdita: di un figlio che non c'è più.
E io non riesco a vestire di fronte a quelle parole la toga mal stirata di chi assume il ruolo del critico, non ci riesco. 
Io da tre mesi piango assieme alla poeta lacrime mascherate da lemmi e poi ci torno e poi ne piango ancora.

La parola è perdita, amica mia: sì, ma ci sono perdite che non hanno parola, che lasciano afoni e increduli. Eppure è quando riusciamo a dire di quel vuoto che ci corrode che la parola diviene lenimento.
Un lenimento sacro che non copre né risolve il nostro abisso ma lo rende dicibile, trasmissibile agli altri, nella consapevolezza del limite. 
E tu, Francesca del Moro, sai trasformare lo strazio in sobrietà, l'indicibile in tenuta. 
Il tuo è un dire "tanto lo dico lo stesso e descrivo un perimetro, come dei fuochi di confine, attorno a quel dolore. Che mi cauterizzi almeno in parte e mi permetta di arrivare al prossimo respiro". 
Allora quel tuo dire e quel tuo tacere divengono universali o, quantomeno, mi fanno immaginare di indossare il velo sacro, quel Talled che ho visto indossare a chi ricordava nomi...sei milioni di nomi. 
Ho tenuto per tre mesi le tue parole sull'impossibile da dire, come tengo da cinquantasette anni le mie balbuzie sullo sfacelo della mia gente. 
E so che nulla ricuce, ma nel mio tentativo ogni tanto di dar luce a quelle voci inespresse mi rendo figlio di un monito: io non dimentico
E non lo fai tu, perché non possiamo farlo.

E sei finita col rendere sacro, sì davvero sacro, quel vuoto centrale e a indicare a noi che siamo piccoli la via della tenuta. 
E sono finito col leggerti con lacrime che sembravano schegge negli occhi, sapendo che il giorno dopo sarei tornato a leggere versando a terra aghi di lemmi, concimi di umanità. 
Perché se c'è una cosa che Ex madre rappresenta per me è l'umanità della parola: la tensione alla comprensione, che ogni lemma porta con sé.

Volevi forse che parlassi dei tuoi ossimori, della tenuta metrica dei tuoi versi, della bellezza delle tue allitterazioni e mi scuso se non riesco a farlo.
Non riesco perché in Ex madre c'è un urlo che non cessa di risuonare nei miei timpani ed è un urlo destrutturato che le tue parole mettono in ordine sulla carta. 

E mi copro il volto col mantello rituale, e ti penso, e piango sì, ma in quel pianto ci sono anche lacrime di rispetto per il balzo etico che hai compiuto, per la tua capacità di unire la parola all'impossibile, al non accettabile, di creare ponti su acque talmente burrascose che non si riesce a immaginare come non si possa rimanerne sommersi.
Ma tu, sì tu, le attraversi, e ci dai la mano e ci conduci, su questo instabile ponte tibetano, dall'altra parte. 

Quindi lacrime sì, ma anche di riconoscenza e di riconoscimento, le mie.

Sulle tue taccio, come si tace quando non si riesce a proferir parola sulla vastità devastante di certi accadimenti.

Il caffè -  quel che ne resta - ormai è freddo, e io sono stanco di dirmi ciò che non sono. 
E forse mai, prima d'ora, ho scritto, parlando di una silloge, quanto piccolo io sia di fronte alla parola.
Finalmente e grazie alla tua parola ho potuto dirlo.

E anche di questo ti ringrazio, e ti ringrazierò in eterno.

Sergio Daniele Donati
 (solo un uomo)


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