(Redazione) - Su "La distruzione dell'amore" di Anna Segre - Interno poesia editore, 2022 - con nota di lettura di Sergio Daniele Donati

 

Amore: la parola che più compare  - o di cui più si parla, senza nominarlo - in poesia, da sempre. 
Amore: l'oggetto più scandagliato, esposto e sbilanciato del nostro scrivere, specie poetico. 
Amore: la parola più rimata, a volte banalmente, a volte con estrema originalità nel nostro vocabolario.
Eppure, di fronte alla grande poesia l'amore torna ad essere un oggetto sconosciuto, anzi, per dirla meglio, una materia ancora grezza da raffinare di nuovo, e di nuovo ancora.
Quindi amore, sì, ma da decostruire, da frammentare, da scrostare da intonaci vecchi e stantii, perché possa rivelare la sua pittura originale.
Amore da distruggere, perché la fase construens non può non essere preceduta da una fase destruens. 
E questo, lo pongo come domanda seria a tutti, non è forse lo stimolo che in generale ci dà la sempre la scrittura poetica di fronte al foglio bianco?
Togliere, togliere, togliere eccessi di senso e di significato da ogni dire, perché la parola si riveli per ciò che è: portatrice di suono da un altrove, attraverso di noi, ad un altro altrove. 
Amore e parola sono il binomio che emerge nella silloge di Anna Segre La distruzione dell'amore (Interno Poesia ed., 2022), e non si tratta di una eruzione, ma d'una emersione lenta, con ogni probabilità preceduta da un'ottima analisi di un periscopio poetico e umano gigantesco della poeta e psicanalista Anna Segre. 
Non a caso Parole è la prima composizione della raccolta, nella quale ogni titolo è accompagnato da un riferimento o dalla sua traduzione in lingua ebraica. 
Ne si riporta qui sotto il testo.

Parole
Divrei
דברי

Queste cacche di mosca sul foglio,
queste impronte di uccello sulle righe,
queste briciole disordinate tra i margini
sono parole.
Peggio del silenzio
questa tua memoria di me
che passa per suoni
suggestioni
significati
non miei.
Non hai diritto
di pronunciarmi,
non hai diritto
di scegliere parola
rispetto ad altra,
non hai diritto
di definirmi.
Mi vedo
in questi tuoi ghirigori
senza peso
senza gesto
senza presenza.
Non sei concreta
non esisti
eppure mi tocchi,
mi ferisci.
Ogni tua poesia
è un’offesa alla mia
versione dei fatti,
ogni tua parola
nega me
rendendo evidente
al mondo
un’altra che non sono io.
Anche se non si tratta di me
anche se stai dicendo altro,
tutte le tue parole
parlano di me.
Anche quelle che non scrivi.

L'esordio della poeta è un tuono nel silenzio notturno. Della parola si definisce immediatamente l'assenza di sacralità, quando usato come strumento di vuoto o, ancora peggio d'imposizione. È la parola che tutti noi ci imponiamo l'un l'altro nel tentativo, tanto puerile, di dimenticare che l'altro da noi non è un nostro replicante. È la parola che, peggio del silenzio, tenta di imporre all'altro/a i nostri stessi limiti, non certo la parola che libera e libra cui si accennava sopra. 
E mettere questa lirica in esordio significa, a parere di chi vi scrive, predisporre il lettore ad una lettura scarna, dissacrata (più che dissacrante) del rapporto amoroso; metterlo, in altre parole nella condizione di leggere dell'amore anche la decadenza, l'interstizio marcio, il calo e il compromesso (accettato o meno qui poco conta). 
L'abilità di Anna Segre in questo è quindi di svelare ciò che tutti noi sappiamo del grande soggetto della poesia di tutti i tempi, e troppo poco spesso diciamo. Eppure in quel dire e dirsi vittime anche di quell'amore, di quella declinazione amorosa, si crea lo spazio di una liberazione possibile  - e non detta - simile a quello della parola quando assume una sua valenza confessoria, finalmente.
Se dico ciò che è stato, sembra sussurrarsi tra i versi, anzi SOLO se dico ciò che é (o è stato) si crea lo spazio perché l'altrove canti.
Cio è stato, ciò è, cioè...un passaggio obbligato e durissimo in cui si esce dal sogno perché il sogno possa esistere. 
E non sta a me - anzi sta proprio a me -  dire quanto di ebraico ci sia in questo e a quali altre confessioni  - o accuse - quel processo richiama. 
Ma sì, la fase destruens, per quanto dura e difficile è, in un certo senso, necessaria per il poeta sempre, al di là dell'oggetto della sua parola. 
E in questo Anna Segre, la cui lettura penso non si possa evitare per il peso e la profondità che con sé porta, mostra non solo un'abile maestria, ma i frutti di un percorso davvero intenso e capace di donare nuovo spazio e respiro all'idea di poesia. 

per la Redazione 
de LE PAROLE DI FEDRO
il caporedattore 
Sergio Daniele Donati

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ESTRATTO

Ancora
Od
עוד

Orfana, esiliata.
Né più patria,
né più lingua madre.
Sola nella memoria
tormentosa
e nell’incomunicabile.
Come la morte,
che preferirei,
la fine del tuo amore
per me
è arrivata all’improvviso:
con un solo colpo
perfetto.
Torna da me.
Amami, non come prima,
amami adesso
che non può essere come prima,
ma potrebbe essere di più.
Desiderami ancora,
vieni in tutte le mie stanze,
toccami al punto
di entrare nel caveau,
però mettici tanto.
Prima
facciamo il giro del mondo,
prima
facciamo crescere degli alberi,
prima
addormentiamoci al sole,
prima
le meraviglie, tutte le meraviglie,
prima
baciami fino alla pazzia del corpo
e poi la stanza segreta:
semplicità fatale
del mio essere umana
e tua.


Senza
Bli
בלי

È solo una questione
di disciplina.
La vita può essere
interstizio
briciola
goccia.
Non c’è bisogno della bottiglia,
basta un fondo di bicchiere.
Si vive senza cioccolata
senza baci
senza tetto
con pochissimo ossigeno.
Ho visto persone compiere
imprese incredibili
sulla propria
anima.
Dimagrire per metà di sé.
Saltare fino al volo.
Pagare debiti strozzini
a malattie fino ad allora
incurabili.
Perciò,
la mia testa sa
che non è imperativo
quello che il corpo
urla come fatale.
È solo una questione
di disciplina.
Tutto passa,
anche la vita.

Altrimenti
Acheret
אחרת

Provenire non vuol dire
appartenere,
è solo il punto di partenza,
un cognome sul documento.
Io sono la somma dei maestri,
delle madri,
dei viandanti gentili.
Io sono l’amalgama
dei mille film,
il mischio delle altrui poesie
con le mie ombre.
Io sono l’orfana
della domanda inevasa
e mi rivolgo
non so nemmeno a cosa,
salmodiando nella solitudine
preghiere che spingono
dal fondo dell’es.
Se fossi solo figlia, sangue,
cromosomi, somiglianza,
frutto
che non lontano dall’albero cade,
nulla potrebbe cambiare
mai.
Sarebbe una dittatura cellulare
governata dal Caso e dagli Dei,
o dalla Patria e dall’idioma.
No.
Con un piede solo sto
sulla punta affilata
di un dilemma:
si può rifiutare
la forza centripeta
del sistema
in ragione di
un sé divergente
e essere ancora amati?


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