(Redazione) - Speciale "Mediterraneo" - Mediterraneo ed ancestrale : la capitolazione del capitalismo, di Giansalvo Pio Fortunato

L’universo dischiuso dal dionisiaco si insinua nel corredo costitutivo del Mediterraneo e lo avvale di un’interpretazione meridana e latitudinale che, certamente, meglio di ogni altra disamina antecedente, è stata in grado di definire un’identità. È interessante, in tal senso, entrare fin da subito nel punto cruciale di questa mia breve trattazione, evidenziando una sostanziale differenza tra il dionisiaco posto ed i comportamenti afferenti ad un simile codice interpretativo.
Perché il dionisiaco, preso per se stesso, costituisce una solida matrice interpretativa che, essendo schietti, tradisce la sua stessa sostanzialità: anzi – si può dire – ha ben poco a che vedere con essa. Certamente, gli avvertimenti giungono da fonti autorevolissime, tali che il dionisiaco, così individuato, non si formalizzi altro che in un’espediente ermeneutico, capace di raccogliere una serialità comportamentale o, pari merito, una postura esistenziale e, dunque, una costitutività di tipo artistico-simbolico in grado di fornire la congrua consequenzialità rispetto ad una sfera personale: anche piscologica. In soldoni: il dionisiaco è un archetipo capace di rendere conoscibile una sfera della psicologia umana che, aldilà dell’indottrinamento e della formalizzazione culturale, è connaturata all’umano, radicalizzandolo.
Il dionisiaco, dunque, non solo esemplifica quel primigenio connaturato, ma riesce a rendere palese questa naturale ed irriflessa relazione col mondo, oltre la “corruzione” educativa, oltre la standardizzazione borghese o simil borghese. Il problema fondamentale, tuttavia, che distacca il dionisiaco dall’essenzialità dionisiaca, si inscrive nella sua figliolanza teorizzatrice. Una figliolanza teorizzatrice che rende il dionisiaco un complementare dell’apollineo1. Una figliolanza teorizzatrice che, archetipizzando, costituisce eremeneuticamente2. Il dionisiaco, allora, è il modo di designazione osservante e trascrivente, che appartiene molto più all’osservatore, al filosofo, all’antropologo, che realmente ai soggetti ed agli individui ai quali appartiene e dai quali è esso applicato.
Eppure, come posto in apertura, il dionisiaco è la forma più radicale e meridiana di evidenziare un’esistenzialità mediterranea, facendo quantomeno emergere un modo costitutivo di stare al mondo che originariamente è appartenuto alla gente mediterranea, al suo immaginario, al suo collettivo. L’ibridismo, la carnale misticità, l’attaccamento alla terra, la religiosità esoterica, lo spazio impulsivo, la naturale ed armoniosa ritmicità coreutica, sono segni, seppur sparsi, di una relazione caratterizzante il vissuto mediterraneo; dove, per mediterraneo, intendo il Mediterraneo tutto.
Tuttavia, è interessante il gioco del dionisiaco perché, se da un lato offre una visione trasversale e meridiana di un enclave esistenziale, dall’altra parte apre ad una genealogia chiarificatrice che, come vedremo, distrugge questo enclave, pur volendolo definire o, come da tendenza contemporanea, esaltare.
La capitolazione del dionisiaco è sia, infatti, di carattere puramente teoretico sia di carattere puramente capitalistico. Per inciso, perdonandomi questa strozzatura ritmica, il riadattamento pratico – teoretico, separato dall’esperienza marxiana e marxista, viene ad essere, per esempio, rigorosamente smontato proprio da un campo riflessivo di questa portata.
La capitolazione è, allora, capitalistica, in quanto riguardante il sottoproletariato3. In particolare l’Italia meridionale, per esempio, è stata investita da un movimento di esacrazione della condizione sottoproletaria e di uniformazione utopistico-capitalistica del sottoproletariato. In quanto fenomeno sottoproletario, infatti, il dionisiaco rappresenta un tentativo, nemmeno così tanto celato, di investire la sfera sottoproletaria di una giustificazione e di una sistematizzazione tipico-borghese. Emotivamente, allora, la beatitudine sottoproletaria, la sua manifesta purezza, è figlia di una relazionalità borghese: è imposizione di un corrugamento narrativo ed analitico, che guarda dalla parte confortevole del borghese e, pari merito, dalla sua immanente resistenza. Così, il presunto grado di purezza, al quale spinge anche lo stesso Pasolini, non è figlio di una reale empatia sottoproletaria, ma rappresenta semplicemente una risposta dialettica all’inquadramento borghese. I sottoproletari non si sono beati della loro continua lotta per la sopravvivenza; così come non si beano della loro reclusione sociale, culturale e civile. I sottoproletari non godevano/godono della loro creduloneria: erano/sono atterriti dalla paura mistica e veleggiavano/veleggiano verso le speranze universalistiche. I sottoproletari non assumono minimamente le fattezze e le sembianze di incorruttibili: se possono, anzi, barattare la propria condizione per un continuato stato di benessere, accettano ben allegramente la “corruzione” borghese.
Socialmente, i sottoproletari non mantengono incontaminata la propria estraneità al capitalismo: anzi, la alimentano e la rendono ancora più solida. Il legame alla terra, nel dettaglio, è subordinato alla possibilità di accedere al sistema capitalistico. In una riflessione, tutt’altro che poeticamente paesologa, il ripopolamento dei borghi contadini è leggibile come un processo culturale e storicistico solo dal lato borghese. È il borghese a voler popolare borghi isolati, privi di un sistematico legame col fulcro capitalistico. È il borghese che, assicuratosi del suo benessere, vuole – come istintiva mercificazione culturale – spingere la propria ideologia alienata a mercificare luoghi di vissuto. Il sottoproletario, se non vede riqualificato il proprio territorio di appartenenza, fugge per esigenza. Di un’esigenza, sia chiaro, pur sempre costretta dal sistema capitalistico: ma non valorizza, non alimenta, non irrobustisce nel sogno.
Il sottoproletario, inoltre, per il suo essere tale alla luce dell’universalismo capitalistico, decide di raccogliere dal sistema stesso che lo schiaccia e fa convogliare energicamente il proprio sistema produttivo verso la dura legislazione capitalistica. Lo sversamento di rifiuti tossici, la coltivazione intensiva, il dopaggio del bestiame, la rinuncia agricola per la buonuscita industriale, l’emigrazione per difficoltà logistiche, l’accentramento verso le città di smistamento borghesi, rappresentano i veri statuti socio-economici del sottoproletario. Ogni agapica convivenza comunitaria è solo onirismo fittizio di ipocriti intellettuali – se definibili tali – di orientamento borghese.
Valorialmente, il sottoproletariato è certamente il concentrato di una concettualità e di un’intenzionalità alter-borghese. Non può difendersi, tuttavia, da una pervasività di tipo capitalistico, non avendone i mezzi né analitici né culturali. L’esoterismo territoriale, la sacralità intrinseca, la lingua terrosa e connotativa, lo contrattura sociale sono, talvolta positivamente e talvolta negativamente, continuamente permeati da un sostrato di massificazione e mediaticità culturale (elemento, questo, proprio della cultura capitalistica). Sicchè la reazione allo strenuo mantenimento di modi di pensiero, di modi di vissuti, di scheletri simbolici, di linguaggi omogenei, di relazionalità tipiche, viene continuamente permeata dalla promessa culturale evolutiva, che attecchisce proprio nella rempetinità capitalistica del dissolvimento. Il sottoproletariato, per intenderci, non è vaccinato alla culturalizzazione capitalistica4, non conoscendone le fattezze e non potendone quindi sviluppare le contromisure. Per la promessa, tuttavia, di un sostanzioso avanzamento culturale, il sottoproletariato raccoglie completamente i contenuti mediati dalla cultura capitalista, producendo, probabilmente, per quest’ultima, la sua più completa realizzazione. La massificazione di condivisione e di dialogo a-critico, che già naturalmente avviene nella mediocre cultura borghese, fornisce quell’autorità tale da rendere i valori appresi non coscientemente, o con un sostrato di sudditanza, il vero nuovo istituto culturale del sottoproletariato. Un sostrato culturale tale da sostituire all’indrottinamento sistematico una liberalizzazione che toglie ogni prospettiva di critica autonoma e personale.
Questo complesso di ricostruzioni pratico-capitalistiche, ovviamente, si regge sulla possibilità teoretica essenziale: la distanza percettiva e cosciente tra analisi sul dionisiaco e dionisicità.
La riflessione ermenuetica, in tal senso, malgrado la sua portata dirompente, ha mostrato tutte le sue residualità ed i suoi limiti oggettivi. Se in un’ottica morale, infatti, il dionisiaco mostra per la prima volta la fittizia operatività utilaristica della designazione misurata del vissuto. Se il dionisiaco evidenzia un a-priori non immanente, non oggettivo, non universale, ma ne esalta sentitamente le oppressioni epistemiche e percettive: le sodomie. D’altra parte, la sua capacità empatico-percettiva è sempre un passo indietro rispetto alla sua essenzialità.
Lo è in un grado psicologico: essendo l’irrazionale o l’irriflesso motivi tutt’altro che già contenutistici, rendibili piuttosto nella molto più problematica designazione somato-fisiologica, convivente e co-operante con una designazione significativa e di coscienza.
Lo è in un grado artistico: non serializzabile, non definibile entro una canonicità operativa. La forza pulsionale, che spingerebbe ad un’espressività estatica, ha in realtà il merito di non essere formalizzabile in una sistematicità verbale e musicale. Essa si regge sulla naturale inclinazione all’espressione, sulla tensione fungente ad un complesso di significati o di materialità sonore non filtrate, non mitigate. L’autentico dionisiaco, per intenderci, non è l’abissale istinto alla creazione artistica5 come non è la risposta silenziosa e solipsistica alla propria interiorità. Il dionisiaco è, piuttosto, lo spurio: la semplice volizione espressiva, che non tiene conto di eventuali condizionamenti esterni, di forme, più o meno claustrofobiche, di semplice ripetizione o indirizzo rendente.
Lo è in un grado fenomenologico.
NOTE
1 Il primo rimando basilare, ovviamente, è al Nietzsche de La nascita della tragedia e all’impossibilità di rendere il dionisiaco come autentico dionisiaco. Se fosse tale, infatti, ci troveremmo innanzi ad un mutismo continuativo o ad una ibrida vocalizzazione, non pienamente concettuale (di un concettuale classicamente definito, ovviamente).
2 Con tutte le retrosie – non le nascondo – che la fenomenologia muove all’ermeneutica.
3 In un’accezione pasoliniana: non rigorosamente marxiana. In un contesto cittadino, com’era quello dell’Inghilterra industrializzata di Marx, non v’era altra strada, per chi non rientrava nell’alienazione borghese-industriale, che la micro-criminalità o il lavoro non legale. In Pasolini, invece, il sottoproletario è rappresentativo del contesto contadino, non “contaminato” dall’arrembaggio borghese.
4 Non stupisce, non essendo nemmeno il cuore intellettuale del nostro tempo estraneo alla forzatura culturale capitalistica.
5 Questa, anzi, ben calibrata, ben orientata. Vedi tutta la mia rubrica Fisiologia dei significanti in poesia (Le Parole di Fedro, 2024-2025).
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