(Redazione) - Speciale "Mediterraneo" - Il Mediterraneo come soglia anche ebraica: Amichai, Someck e i Salmi - di Sergio Daniele Donati
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| Foto di Sara Groblechner su Unsplash |
Tra
“Mayim”, “Shamayim”, “Ghematria” e la lettera מ
(M-E-M)
Il
Mediterraneo,
nella tradizione ebraica e nella poesia israeliana contemporanea, non
si configura semplicemente come spazio geografico, bensì come luogo
simbolico e teologico.
Esso rappresenta una sorta di soglia:
tra acqua e cielo, tra caos e ordine, tra corporeità e trascendenza, tra elevazione ed abisso.
In
questo breve studio cerchiamo di analizzare tre prospettive tra loro
complementari: la poesia di Yehuda Amichai, la scrittura di Ronny
Someck, e la voce liturgica e poetica dei Salmi (Tehillim).
Attraverso
l’analisi linguistica,
etimologica
e ghematrica1
delle parole mayim (acqua/acque) e shamayim (cielo/cieli), si intende qui restituire poi, almeno per cenni, la densità semantica e simbolica del
Mediterraneo come figura liminale anche, ma non solo, nella cultura ebraica.
1.
Etimologia di “Mayim”
e “Shamayim”
La
parola mayim (מַיִם),
“acque”, è morfologicamente plurale e priva di forma singolare.
Essa designa un elemento fluido, instabile, spesse volte primordiale.
In Genesi
1:2, le acque precedono la creazione ordinata: “Lo
spirito di Dio aleggiava sulle acque”
(al-penei ha-mayim – lett. …
sui volti delle acque).
Mayim
è, in certo senso, il grembo del mondo, ma anche il residuo del
caos.
In
opposizione solo parziale e non conflittuale, ovvero come alto e basso,
troviamo Shamayim (שָׁמַיִם),
“cieli/cielo”, che è parola composta che, secondo il Midrash
(Bereshit Rabbah 4:7), deriva dalla fusione di Esh
(fuoco) e Mayim
(acqua).
I cieli sono così concepiti come equilibrio degli opposti,
come distesa che sovrasta e ordina le acque inferiori (Genesi 1:8).
Appare
pleonastico ricordare che laddove il fuoco rende vapore l’acqua,
quest’ultima è in grado di spegnere lo stesso fuoco.
Il
Mediterraneo, come archetipo delle acque
della Creazione, in
questa prospettiva, si configura come ponte tra mayim
e shamayim:
è acqua che riflette il cielo, ma anche abisso che lo sfida. È
soglia cosmica, luogo di rivelazione e di silenzio, forse di quel
silenzio che è prima del primo detto creativo (sia la luce).
2.
Ghematria
di Mayim:
corrispondenze numeriche e implicazioni simboliche
La Ghematria, tecnica ermeneutica della mistica ebraica, assegna un
valore numerico a ciascuna lettera dell’alfabeto. La parola mayim
(מַיִם)
ha il seguente valore:
מ
(mem)
= 40
י
(yod)
= 10
ם
(mem) = 40
Totale:
90 e per una parola che, non è certo sfuggito al lettore, è fonicamente e graficamente palindroma.
La
lettera mem (מ),
che apre e chiude la parola Mayim,
è tradizionalmente associata all’elemento dell’acqua e all’idea
di profondità. Nella cabala, essa è considerata come una sorta di
guardiana dell’abisso, simbolo della soglia tra il visibile e
l’invisibile, tra il detto e il taciuto.
Alcuni autori e mistici della penisola iberica medievale definiscono la Mem come una sorta di secchio posto rovesciato sopra l’abisso affinché questo non esondi e ci travolga. Tuttavia, e la struttura grafica della lettera lo conferma per quegli stessi autori, quel secchio ha in basso un piccolissimo foro, perché dall’abisso, goccia a goccia si possa apprendere qualcosa, come per trasudazione dei significati abissali.
Molte
parole dell’ebraico biblico condividono con Mayim
il valore ghematrico 90.
Ne ricordo qui, a titolo esemplificativo,
solo alcune:
-
מלך
(melech)
– Re: מ
(40)
+ ל
(30)
+ ך
(20)
= 90 →
L’acqua
è associata alla regalità. Il mare diventa trono mobile, segno
della sovranità che si manifesta nel fluire.
Una regalità per nulla
statica, la regalità del flusso
della trasmissione del sapere, senza la quale il sapere stesso
perisce.
-
צד
(tzad)
– Lato / giustizia parziale: צ
(90)
→
Il
mare è qui giudice silenzioso, spazio di separazione e
discernimento, come nella teofania dell’Esodo.
-
צ
(tzadi)
– Giustizia: valore isolato di 90→
L’acqua
in relazione alla Giustizia diviene qui strumento di purificazione e
di giudizio, come nel diluvio o nel passaggio del Mar Rosso.
La
Ghematria, in tal senso, non è mero gioco numerico, ma struttura, quasi ossatura, simbolica del mondo: Mayim
è flusso, ma anche ordine; è abisso מ,
ma anche trono; è caos, ma anche giustizia.
3.
Yehuda Amichai: il Mediterraneo come soglia teologica
Yehuda
Amichai (1924–2000), figura centrale della poesia israeliana del
secondo Novecento, trasforma il paesaggio mediterraneo in spazio
teologico.
Il mare, nei suoi versi, è confine tra eternità e
storia, luogo in cui la parola si fa preghiera laica.
In
Open
Closed Open
(1998), il mare diviene davvero soglia:
“Qui
molli le colline toccano il mare / come s’incontrano due eternità…
/ E le anime in loro / come porte si aprivano e chiudevano / nel
ritmo della risacca.”
Il
ritmo della risacca diventa metafora della presenza che si manifesta
e si ritira.
In
Dopo
Auschwitz,
il mare è un (o il) Dio che non risponde alle questioni che gli vengono poste:
“Il
mare è sempre lì, come un Dio che non ascolta più.”
Il
Mediterraneo è forse in Amichai Mayim
che non si eleva a Shamayim (acqua
che non si eleva a cielo),
una sorta di assenza sacra – o di sacralità di ogni assenza - una
soglia che non si apre mai, una mem
senza foro
di trasudazione dei significati di un abisso.
La
poesia di Amichai
si configura come liturgia del quotidiano, in cui il sacro pulsa nei
dettagli minimi, nei gesti interrotti, nei silenzi, ma spesso di quei
silenzi il senso sfugge al poeta, prima ancora che al suo stesso
lettore.
4.
Ronny Someck: il Mediterraneo come crocevia sensuale e diasporico
Ronny
Someck (n. 1951), poeta israeliano di origine irachena, rappresenta
una delle voci più significative della poesia mizrahi, ovvero
orientale.
La sua scrittura fonde ebraico, arabo, slang urbano e
immagini mediterranee.
Il mare, nei suoi versi, è corpo, spezia,
contaminazione.
Nella
sua composizione The
Milk Underground
(2015), il Mediterraneo diviene sinesteticamente portatore di sapori
e odori:
“Il
mare ha il sapore del sangue e del cumino.”
In
Baghdad—Tel
Aviv,
il sacro si fa gesto e , a differenza di Amichai, ci parla trraverso
di esso:
“Nel
mio quartiere Dio indossa sandali e fuma narghilè.”
Il
Mediterraneo per il poeta è Mayim
che cuoce sotto Shamayim,
lingua madre in cui l’ebraico incontra l’arabo, e dove la diaspora si
fa carne. La dimensione teologica è sostituita da una corporeità
quotidiana, da una sensualità urbana che trasforma il mare in luogo
di mescolanza e di identità fluida.
Potremmo
forse ipotizzare che la differenza dei due autori nella descrizione
delle acque
è che laddove il primo ne determina una imperscrutabilità molto
maschile, e a tratti dolorosa, il secondo appare saperne circoscrivere
i movimenti di una evidente sensualità tutta femminile.
5.
I Salmi: il mare come creatura cosmica e abisso (מ
spirituale)
Nei
Tehillim
(Salmi), il mare è figura ambivalente: caos primordiale, creatura
obbediente, specchio della gloria divina.
Il
Salmo
104,
ad esempio, celebra la creazione come atto di contenimento in cui il
timore si accompagna ad un senso di profonda e percezione estetica:
“Hai
coperto [la terra] con l’abisso come con una veste, / le acque
stavano sopra i monti. / Alla tua minaccia fuggirono…”
(trad. libera mia)
Il
Salmo
148,
poi, trasforma il mare in voce liturgica, in cui al creatura è lode
del creatore:
“Lodatelo,
mari e quanto si muove in essi!”
Il
Salmo
77
rievoca l’Esodo come evento cosmico in cui le acque/creature sono
testimoni della presenza stessa del Sacro:
“Ti
videro le acque, o Dio, / ti videro le acque e ne furono sconvolte…”
Il
Salmo
42,
infine, fa del mare metafora dell’anima:
“Un
abisso מ
chiama
un altro abisso / al fragore delle tue cascate…”
Il
Mediterraneo, nei Salmi, è dunque un Mayim
che trema davanti a Shamayim
(se proprio vogliamo aderire ad un localizzazione, tanto impossibile ed errata quanto suggestiva, di
D.o nei Cieli),
ma anche una creatura
che loda il suo Creatore e un abisso (מ)
che
ascolta, man mano che si apre.
Siamo
forse di fronte ad un rapporto filiale di riconoscimento/riconoscenza
reciproca.
Il
mare, è dunque sia simbolo di creazione che di creatura e le sue
profondità, nei tre casi, sono allo stesso tempo sia terrificante abisso
che sorgente di bellezza ed estasi.
I
cieli poi, cui rivolgiamo i nostri sguardi la notte, sono mari ed
acque irrorati dal fuoco della Creazione e delle stelle.
Cosa
di più avvincente di questa simbologia che riverbera dai tempi del
salmista alla contemporanea poesia israeliana, nei versi di quasi
tutti i suoi rappresentanti?
NOTE
1: La
Ghematria è la disciplina della mistica e dell’ermeneutica
ebraica che studia l’associazione di lettere e parole al loro
valore numerico

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