(Redazione) - Nerio Vespertin: subappaltare il futuro - nota di lettura di Anna Rita Merico
Nerio Vespertin: subappaltare il futuro
di Anna Rita Merico
Bella
questa scrittura poetica che s’incunea nelle crepe del quotidiano
rendendolo trasparente a sé stesso.
Ne
porta narrazione di battito e di vena pulsante capace di seguire dati
e impulsi visivi impacchettati in lampi di sguardo.
Sono
lampi di sguardo posati su un volante, su di una sigaretta, su
copertoni d’auto, su lampioni.
E’
sguardo che tocca oggetti lasciandoli al loro posto. E’ realtà che
tocca ma non è toccata. Qualcosa si è arreso alla realtà.
Sono
lampi accesi nel freddo di luce che trema, su un tempo sospeso, in un
silenzioso urlo quotidiano impastato dall’immobile dell’infinita,
snervante ripetizione.
Parte
IV Automatica
automobilisti bloccati in un ingorgo-tangenziale di Bologna;
primavera 2012.
Speranza,
si. Nel tritatutto dell’identico a sé, un filo torce idea di ciò
che potrebbe, sarebbe, verrebbe, farebbe, sognerebbe, andrebbe. Tutto
s’accuccia e si mostrano le brezze, i geli, gli alibi per ciò che
“va bene”, per ciò che è -comunque- sopportabile, sempre. Ogni
cosa, ogni situazione è calata in un sistema di realtà che
schiaccia.
Coro
di voci.
Trascendimento
dell’io.
Voci
coreutiche ridotte ad ombre di sé stesse.
Voci
impastate con poche parole e infiniti immobili movimenti di mancate
articolazioni sonore.
ma
il fiume scorre nero di notte
livida
creatura violenta la calma mormora segreti indicibili nelle vene
della
terra
ho
detriti sottopelle le lenzuola non aiutano
rigirandosi
nel suo letto il fiume scorre con le parole non dette tutte le
paure
rimaste zitte le civette non viste trattengono il respiro mentre
i
sassi grattano il fondo mentre i sogni attendono di salire gli ultimi
istanti
in superficie a passo di lupo di sciacallo l’acqua scura si gonfia
delle
colpe
il
fiume scorre il fiume scorre non c’è fine alle tenebre la bocca
s’apre
diventa
piena sfonda la lingua la sirena del giorno grida pericolo pericolo
e
il fiume è già qui siamo noi1
Nella
nebbia del senso le parole piroettano. Sono parole che si staccano da
pareti di celibi macchine riproduttive. Tra questi versi scorgiamo
paesaggi che affiorano da surrealtà.
Qualcosa
si stacca, altro deflagra.
Vespertin
accoglie la nostra presenza di lettrici/ori collocandoci in uno
spazio che è una sorta di finestra metafisica. E’ una finestra che
accoglie la nostra presenza e ci consente di muovere sguardo:
misuriamo, così, il dentro ed il fuori di lontananze siderali che
slegano connessioni ed ogni possibile legame.
Tra
le sue pagine la produzione, all’interno del sistema economico,
diviene una sorta di entità antropologica a sé stante: genera
oggetti ma genera, anche, fasciami di monadi. Un surplus di
produzione invade l’io lasciandolo privo di agganci ai propri
stessi processi di umanizzazione.
La
poesia ne scruta gli anfratti, ne registra presenza, ne calcola
evaporazione di dolore, ne riporta assuefazione.
Nel
versificare di Vespertin tavolozze dense di cromie scivolano come
flussi meditativi all’interno delle palpebre. Cementi e colle da
cui si originano direzioni, echi, nudità, viandanze, immagini naif e
scenari informali su tele d’anima. Il ciò che è nascosto palpita
dirompendo negli anfratti di matrici che cantano l’estinzione.
Anche
quella, l’estinzione, va fatta avvenire con ordine e discernimento.
Ogni vivente è ridotto a stato vivente precedente, ammassato in
condominio di insetti, larve, sopravvissuti senza scheletro. Il coro
dell’Uno sguscia via. Anime infrattate attraversano una quotidiana
bolgia infernale e un tempo da cui è stata sfilata via la colonna
vertebrale dello scorrimento.
Il
simbolico generato dalla produzione continua a mostrarsi. E’
produzione del valorialmente inutile. E’ produzione che vomita la
propria mancanza di senso. Scilla e Cariddi ora sono perennemente
bulimiche. E’ produzione che toglie sapore al cibo e senso al tempo
rendendone vitrea la durata. Il verso fotografa i sottili e cangianti
mutamenti di forma attraverso cui avvengono le infinite genesi di
forme altre, ancora.
Grande
movimento nel dentro dell’apparente immobile.
Compaiono
reti invisibili che annodano il senso dell’esistenza intossicandola
ed erodendo differenze. Operaio, impiegato, dirigente divengono,
all’interno dei fiati mefitici della produzione, soggetti molli,
invisibili. Sono soggetti tutti sottoposti al movimento di un
invisibile rezzaro che gioca a catturare dissipazioni di senso
all’interno di invisibili urti tellurici e sconquassanti della
realtà.
E’
un rezzaro che affama. Essere affamati galleggiando nell’oceano
informe di un leviatano capace di produrre un infinito al di fuori
del cosmo. Il rezzaro si esibisce in un’arena spurgata dal dolore
del conoscere e del riconoscersi attraverso e con l’altro.
La
produzione giunge al suo essere e genera gli occhi vuotovitrei della
sparizione dell’umanità.
La
poesia di Vespertin testimonia l’atto consapevole di un’umana
ribellione. Il NO
dello stare dentro alla macchina produttiva accade attraverso un
gesto di fondata scelta che va nella direzione della non appartenenza
al sistema politico-produttivo.
Il
suo è sempre un io desoggettivato che sostanzia, attraverso la
parola, quanto si genera intorno e dentro la propria spoliazione. E’
un io che, da quella altezza di nullificazione, continua a cantare la
propria umanità tutta racchiusa nell’atto di un vedere capace di
discernere l’imbroglio dell’irretimento.
M.
eccanica
U.
mana
S.
intentica
A.
utomatica
Simon
Weil voleva comprendere cosa e quali parole potesse generare la
catena di montaggio. Simon Weil inseguì la sua renault dell’anima
per divenire appendice di macchina. Simon Weil volle trascendere il
corpo dato e sentire la stanchezza, la dissipazione di sé,
l’annullamento del pensiero, la tracimazione e l’irruzione della
macchina all’interno del luogo sacro del vivente. Non voleva
scriverne distopia ma cogliere il nerbo di un cambiamento che la
contemporaneità imprimeva nelle cellule, sconquassandone ordini.
Quale
era e qual è la potenza di questo nuovo dio giunto a pieno
dispiegamento?
Vespertin,
nello spazio scenico della parola, fa entrare Andrea.
Lo
fa entrare con le sue sequenze
lavorative
e in asfissia di numeri declinati allo zero infinito. Asfissia in cui
controllo, manutenzione, vertigine, nevrosi s’addensano frullando
umana metamorfosi e resistenza di vita, svuotamenti e riavvii
d’essere in incontrollabili, immanenti ontologie d’anima.
Parte
I
Meccanica ANDREA-area industriale di Granarolo; inverno 2008
lungo
la fila era la pazienza.
Il
collare della catena di montaggio sconfinava
nel
tempo della cena.
Ci
stringeva la fame padrona
la
domanda e l’offerta della miseria.
Compagna
stanchezza
di
neon e di fumo screziava la sera.
L’officina
bianca
il
sudore e la bava.
Ma
lungo la fila la gente era serena.
Bagliori
nuovi, la vita resisteva.2
Resettare
le sequenze.
Sequenze
d’essere ormai impazzite.
Sequenze
d’essere appese al filo acido di una riproduzione infinita,
insensata, incontrollabile.
Parte
II: Umana
Marco; quartiere Lambrate di Milano; autunno 2010
Un
“colletto bianco”, un po’ di tempo fa si nominava così. Marco
dice dell’altro aspetto egualmente tossico della produzione. Non la
produzione di oggetti seriali ma quella produzione torbida che emana
dalla politica amministrativa. Quel bianco decisionale che gestisce
vite come fossero numeri intercambiabili privi di storie, privi di
progetti, privi di futuro.
La
produzione che produce l’oggetto-uomo.
Prima
di essere risolti.
Prima
dei tagli al personale
nei
giorni d’ufficio eravamo
cinema
d’intelligente perfezione.
Brillanti
capaci promettenti
i
primi dei nostri corsi.
Bellissimi
capaci promettenti proactive
sorridenti
precari
al
bianco fosforo.
Poi
il risveglio
somministrato
a tutti
nella
casella di posta elettronica.
Oggetto:
“Mancato rinnovamento”.3
La
terza stanza di M.U.S.A. è un luogo asettico, stanza d’hotel.
Parte
III Sintetica
S.C.-unità di memoria esterna rinvenuta in una stanza d’hotel a
Torino; inverno 2011
Radiografia,
foto, file di testo, copia telematica, biglietto telematico, referto
medico.
Sfilano,
come figurine futuriste in fila, i resti leggibili di una unità di
memoria esterna ritrovata. Caccia al tesoro di vita che ha lasciato
tracce, segni, indizi, chiaroscuri, ombre ed onde. Ricostruire vita
da frame di memoria. Lento gesto d’attesa. Spettatore dinanzi a
perdite di senso che solo il racconto può ri-donare. La narrazione:
unica certezza, antico gesto di ricomposizione.
Quello
di Vespertin è un verso de-individuato. Nell’Autore l’io lirico
viene lasciato stemperare in molteplicità di ritorni scheggiati,
ripetitivi. E’pressante la domanda sull’oggi. La parola segue e
nasce da gesti che stentano a trovare la propria unità. Nella
perduta possibilità di dire io
campeggia, ondivaga, la rimozione delle parti.
Vi
è, tra le sue pagine, una lateralità
che
rende la postura di nuove forme di alienazione e di differenti
estraneità.
La
deindividuazione di Vespertin è prossima alla visione di una Piazza
di De Chirico.
E’
un non luogo in cui inconsistenza e potenza convivono.
La
deriva poetica verso un qualsiasi possibile ancoraggio all’umanesimo
dispiega, senza alcun nascondimento, la propria consapevole lucidità.
Vespertin
lascia lavorare un io
autoriale
assorbito all’interno di una testimonianza capace di svelare. E’una
testimonianza empaticamente partecipe a quel tutto
che questa poesia attraversa. I modi del dissolvimento dell’io, in
Vespertin, rendono conto di un universo dai legami
molecolari-antropologici diafani. Legami destrutturati eppure colmi
di memoria per ciò da cui, storicamente, si giunge sin qui.
Tornare
a dire io
passa, in Vespertin, dall’attraversamento interno di una
moltitudine di esseri umani ridotti a quella blasfema uguaglianza in
cui riproduzione insensata e uomo-massa hanno relegato la
contemporaneità della soggettività. Ma questa rimodulazione del
pronome io è, nei fatti, luogo di ricerca che vuole scorgere
sostanza altra dell’essere persona, non è desiderio di ritorno a
ciò che è stato.
La
poesia di Vespertin, con le sue dissonanze, con i suoi costrutti
interni e distanti da ogni canone dato, evidenzia il posto verso cui
-oggi- la poesia deve saper tendere: quell’entrare all’interno
dello scavo delle umane superfici per indagare le forme evolutive di
cui si ammanta l’erratico andare riscattandolo da distopiche derive
o depressivi incantamenti affinchè muse, ossia parola, sia ancora.
Foto
in bianco e nero di una donna giovane e sorridente, vestita con un
semplice abito bianco; l’inquadratura è a mezzo busto e a
giudicare dallo sfondo si direbbe scattata in uno spazio aperto e
assolato, forse un giardino pubblico; una bella mora pettinata a
caschetto, viso tondo, zigomi alti, fronte spaziosa e sorriso
radioso; nell’angolo basso a destra, una scritta a penna: “Autunno
1954
La
testa spalancata
su
di un deserto rosso.
Il
sole ti spacca il sorriso
di
ghiaia e di quarzo
nudo
ogni osso.
Sterpi
ostinati qualche lucertola
la
voce di un profeta
fra
dune di cordoglio.
La
vita resiste.
E’
un oceano sotterraneo, smisurato
limpidissima
sorgente d’amore.4
____
NOTE
1 - Nerio
Vespertin, M.U.S.A. , Selvatiche Edizioni-seed 2025 con
postfazione di Francesca del Moro, Undicesima voce pg 91
2 - ivi sequenza_lavorativa_00010
pg 16
3 - Casual Smart, pg 48
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pg 64
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