(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 29 - In dialogo con Hermann Broch



A cura di Sergio Daniele Donati

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Wohin gehen wir...


Wohin gehen wir? Tag um Tag,
Jahr um Jahr bleibt hinter uns.
Zerfällt in zerfallender Welt -
Wohin gehen wir? Klag um Klag
Verballt so dunkel hinter uns,
Als wären wir niemandem zugesellt
Wohin gehen wir? Frag und Frag
Bleibt antwortlos hinter uns
Zerfallend, wo jedwedes Wort zerfällt,
Dennoch Frage, an uns gestellt
Und ohne Antwort zur Antwort erhellt:
Das Menschliche bleibt. 
(1)
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Dove andiamo...

Dove andiamo? Giorno dopo giorno,
anno dopo anno resta dietro di noi.
Decade in un mondo decadente
dove andiamo? Lamento dopo lamento
così oscuro si dilegua dietro di noi,
come fossimo accompagnati da nessuno
dove andiamo? Domanda dopo domanda
resta senza risposta dietro di noi
decadente, mentre ogni parola decade,
tuttavia domanda, posta a noi 
e senza risposta rischiarata a risposta:
l'umano permane.

(1) - Poesia di Hermann Broch, nell'originale senza titolo , tratta da La verità solo nella forma - poesie 1913-1939 (De Piante ed., 2021), scritta e dedicata a Ruth Norden nel dicembre 1939 per il suo compleanno

Dove andiamo, Hermann,
io non saprei dirlo
né mi sento di stravolgere
la terza sacra domanda 
con un plurale arido
che non contempli 
un secchio, forse forato 
sul lato, da cui far colare 
le collose incertezze
d'un uomo rimasto solo
con le sue maschere
d'argilla rossa in mano.

L'umano permane,
ma non c'è parola che tenga
al crollo del figlio.
Rotolano allora macerie 
e lemmi sul piano obliquo
del fallimento di quel sogno,
troppo mio per affidarsi
al coro di voci che mi abita.
    
Fare e tacere 
e poggiare lo sguardo
sul dolore della ricostruzione:
forse è questo mostrarsi nudi,
uomini o padri pericolanti 
sotto il peso di una colpa 
di fuoco, antica e ignorata.

        Ci voleva quell'ossidiana,
        quella richiesta d'aiuto 
        afona e liquida, 
        quel pelo nero,
        inesperto e ribelle,
        - su volto d'angelo -
        per farmi comprendere
        l'inutilità d'ogni mia parola.

        Risiede là il seme 
        di ogni decadenza.

Eppure sento
il bisogno di scriverne,
perché - almeno io -
non possa dimenticare
di non essere stato
quando avrei dovuto.

Crolliamo allora assieme,
nell'assenza di parola,
abbracciati al nulla
sul prato scosceso
d'una ferita che si riapre
e spurga scampoli di verità
fittizie e canti d'uccello:
già, come canta il tacchino.

Avrei dovuto dirvi prima
dell'adolescente che fui
e della gabbia dorata
in cui il mio corpo
è cresciuto, storto.

Avresti, e forse avrebbe, compreso 
che tenuta e sopravvivenza 
sono sorelle inseparabili
e non principi sterili 
da enunciare sotto la coperta 
urticante di un'etica disumana.

S'alzi piano lo sguardo,
- piano, senza fretta -
 ché l'orizzonte abbaglia
 la retina inesperta, 
 e io ora so
 di non saper più vedere:
 anzi, di non aver mai visto.

Sergio Daniele Donati
(dedicata a Hermann Broch ... e non solo)
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