(Redazione) - Il Femminile - 05 - Wislawa Szymborska: poeta del particolare

A cura di Patrizia Baglione
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Nata a Kòrnik il 2 luglio nel 1923, Wislawa Szymborska è stata una delle voci più originali della poesia contemporanea. Premio Nobel per la letteratura nel 1996, le sue poesie affrontano questioni esistenziali e si sforzano di fare luce sulle domande più antiche e radicate dell’esistenza umana. 
Una poesia minimalista, priva di artifici retorici che, partendo da episodi e sentimenti comuni, porta il lettore a superarli con uno sguardo più consapevole e profondo.
La sua scrittura è leggera, semplice solo in apparenza, dato che è il frutto di una padronanza assoluta della lingua e della metrica, così come del suono e della musicalità delle parole.
Una poesia ricca di lirismo e chiaroscuri, anafore e similitudini.
La Szymborska riesce ad avere uno sguardo incisivo e pieno di meraviglia verso le cose ordinarie della vita, rendendole a loro volta straordinarie. 
Non bisogna mai smettere di provare stupore, il poeta è un essere che abita una frattura tra la realtà e l’immaginario. 
Sue parole: "La poesia deve superare l’ovvietà e darle un’altra dimensione"
Le sue opere sono dettati emozionali sulla natura e l’amore, attraverso un linguaggio semplice e mai banale; come l’ha definita il poeta e saggista Czeslaw Milosz: "Szymborska è prima di tutto una poetessa della coscienza".

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Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.

Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.

Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.

In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.

Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.

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Tutto -
una parola sfrontata e gonfia di boria.
Andrebbe scritta tra virgolette.
Fa finta di non tralasciare nulla,
di concentrare, includere, contenere e avere.
E invece è soltanto
un brandello di bufera.

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Da qui si doveva cominciare: il cielo.
Finestra senza davanzale, telaio, vetri.
Un’apertura e nulla più,
ma spalancata.

Non devo attendere una notte serena,
né alzare la testa,
per osservare il cielo.
L’ho dietro a me, sottomano e sulle palpebre.
Il cielo mi avvolge ermeticamente
e mi solleva dal basso.

Perfino le montagne più alte
non sono più vicine al cielo
delle valli più profonde.
In nessun luogo ce n’è più
che in un altro.
La nuvola è schiacciata dal cielo
inesorabilmente come la tomba.
La talpa è al settimo cielo
come il gufo che scuote le ali.
La cosa che cade in un abisso
cade da cielo a cielo.

Friabili, fluenti, rocciosi,
infuocati e aerei,
distese di cielo, briciole di cielo,
folate e cumuli di cielo.
Il cielo è onnipresente
perfino nel buio sotto la pelle.

Mangio cielo, evacuo cielo.
Sono una trappola in trappola,
un abitante abitato,
un abbraccio abbracciato,
una domanda in risposta a una domanda.

La divisione in cielo e terra
non è il modo appropriato
di pensare a questa totalità.
Permette solo di sopravvivere
a un indirizzo più esatto,
più facile da trovare,
se dovessero cercarmi.
Miei segni particolari:
incanto e disperazione.
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