Stanze d'ospedale (quando il cuore urla, si confessa)


LA NOTTE

Eppure srotola qui
- di notte -
la sua armonia,
lo strascicar di ciabatte,
il cigolio della gruccia dell'ossigeno,
l'assolo dell'anziano
che chiama ”mamma
- e il silenzio di velo che
ne accarezza lo strazio.
L'attesa - d'un giorno d'attesa -
è qui narrazione solenne.
Adesso, a occhi chiusi,
la notte la puoi ascoltare.


ALL'IMPROVVISO

T'assale poi mesi dopo
improvviso un pianto
ché in camera c'era una voce 
un urlo sgraziato
tra l'extrasistole del mio cuore
e mi diceva: conta, contale tutte
le separazioni della tua vita,
le lacerazioni e gli abbandoni
e i pugni ricevuti e quelli dati.
Conta, contali tutti gli occhi sofferti
di chi ti chiedeva "guardami"
mentre tu sapevi solo tenere
in equilibrio instabile
lo sguardo vitreo
sul tuo vuoto centrale.

E io le contavo, una a una,
e davo loro un nome
perché nel rivederle il cuore, 
sentinella stanca,
non cedeva agli abusi 
d'una memoria stuprata
a colpi di negazioni.
Ero stato io, 
ero stato io,
ero stato io.


NON MANGIAVO

«Perchè non mangia?» mi chiedeva, 
lo sguardo amorevole
di chi sa capire dall'iride mia umida
la risposta lasciata non detta.

«Ho creato il male»
avrei voluto rispondere
ma avevo nel cuore
due occhi corvini
e la mia incapacità di raccoglierne
la mano tesa.

Non fui capace di stare
e ora il mio cuore balza
e il mio stomaco rifiuta nutrimento
e poi lo sapeva l'infermiera.
Dietro a quello sguardo
che giocava la seduzione
per salvarmi dall'abisso, lo sapeva:
era facile per me dare al purè d'ospedale
la colpa del mio desiderio di morire.


CREPE? ALLORA CREPA

Cercavo di consolare allora
con parole inadeguate
chi stava peggio di me,
e vedevo anziani come bambini
chiamarmi al tributo
d'una vita - la mia - sconnessa
ché forse il cuore balza
quando gli manca la continuità,
quando uno sguardo astigmatico 
e fisso e senza requie 
sulle lacerazioni del mondo
t'impedisce d'abbassare le palpebre. 
Avevo creato il male
proprio cercando rimediazione
e ucciso il Dio Silenzio
con un fiume di parole,
tante quante le aritmie
del mio muscolo centrale. 
E se ora piango 
non è su latte versato
ma su sangue scarlatto
intossicato sin da piccolo
dall'assenza e dall'abbandono. 

Tornerai diverso ma migliore di prima
mi dicevano quegli occhi comprensivi.

Sono diverso
e forse migliore di prima
ma non sono affatto tornato. 
La mia anima è rimasta in parte
allacciata ai fili della telemetria
e sono certo che al reparto 
si chiedano ancora 
che fine abbia fatto
il filo di sutura della mia ironia.

Me lo chiedo anche io
e nell'apparenza ormai normale
della mia esistenza
se sento chiamare mamma
penso alla litania senza sosta 
di quel vecchio durata
finchè dal letto accanto il suo
non gli dissi: Hineni, sono qui, eccomi.

"Tu non sei mia mamma"
mi rispose nel dormiveglia
"tu sei un sogno".

"Già un sogno gradevole per alcuni"
borbottai tra me e me
"il peggior incubo per me stesso".

Foto e testi - inediti 2023 - 
di Sergio Daniele Donati ©

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