Stanze della parola contratta

Stento a dire mio
quel tratto di penna.
M'appartiene il polso
-  e anche il fiato.
Ma quel lemma scomposto
- quel taglio beffardo
sull'albume del foglio -
che tacita ogni mio dire
canta con voci straniere
ai miei midolli semiti.
Poi, lo sai, 
finiamo coll'ospitare
nelle rughe delle mani
parole altrui - malsane -
per non dirci capaci
del volo che c'appartiene.
Finiamo coll'opporre un silenzio
di palude al sacro che abita
le nostre pure intenzioni,
perché incapaci d'una risata
che sgretoli lo stigma
sulla nostra pelle bambina.
E ci incantano la notte
voci sublimi di sonno
- che il sogno poi nega -
e la loro lettura 
al mattino confonde;
perché sotto all'omero candido
del nostro oblio
si nasconde un verso sovrano,
una "voce di tenebra azzurra" ¹,
un sospiro silvano,
un tatuaggio sull'ebano
d'un guerriero africano.
Tu chiedi il gesto
io oppongo il suono;
non resta che un passaggio 
stretto - alla parola -
per divenire besciamella di significato,
crema pasticcera di senso,
mentre noi, aspiranti cuochi,
ci dilettiamo a coprire 
di spezie preziose
i nostri impasti
costituiti di niente.
E non userai -  mi dici - la scrittura
come fuga, né la lettura;
ma per affondare la lama
rovente nella carne
d'un dolore antico.
Farai della scrittura
il fuoco che cauterizza
i solchi dell'indicibile
sulla tua pelle.
È poi un passo
credere a un corpo
di parole sfatte;
all'uso improprio
dei respiri della vita
Di te ricordo
lo sguardo mio di allora,
ancorato alle tue stelle;
l'astronave delle mie labbra
sulla via Lattea
del tuo collo.
Di noi ricordo
il suono vacuo,
il sonno, ora;
una carenza d'ossigeno,
una carezza d'addio.
Mi chiedi di parlare della parola;
io tacito il silenzio
e cerco nel brusio della vita
un suono di temporale
o lo scatto felino della lince
su una preda ignara. 
Ho i muscoli contratti 
dalla fatica di Atlante;
pesano su di me 
cinque millenni di onorata licenza
poetica su un testo immutabile.
Per te è facile scrivere
e dimenticare l'onere
di tener alta la parola;
lasciando che cada
- come cade  a terra il frutto
d'un albero proibito.
Più difficile è non dire
e lasciare che la membrana 
della nostra innocenza
venga crepata da un dire straniero,
da un suono inusitato.
Più difficile è dirsi terra 
che aratro e accettare
la lama e il solco 
che l'altrui dire traccia
nel nostro cuore ancora vergine.
Tutte le foto e i testi inediti (2022)
sono creazioni di 
Sergio Daniele Donati ©

¹ omaggio a un celeberrimo verso
dell'immenso Giovanni Pascoli
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