(Redazione) Specchi e labirinti - 05 - Girando intorno a Mario Praz (Mario Praz num. 1)

A cura di Paola Deplano
L’uscita di questo mese della rubrica “Specchi e labirinti”- una sorta di “rubrica nella rubrica” - è dedicata a un primo approccio con alcuni piacevoli elzeviri di Mario Praz.
Il secondo episodio di quest’avventura sarà pubblicato tra qualche mese.

Mario Praz

GLI INFEDELI di Mario Praz
Mentre sentivo raccontare il caso di Paola Terenzi mi venivano alla mente certi versi birichini di John Donne, di quella poesia che comincia: «Va’ ad acchiappare una stella cadente…», che è tutta una presa in giro della fedeltà in amore: «Se tu trovi una donna fedele e leale, fammelo sapere: dolce sarebbe andare da lei in pellegrinaggio; ma no, non lo fare: io non andrei, quand’anche io la potessi incontrare all’uscio accanto. Per quanto essa sia fedele quando tu la incontri, e seguiti ad esserlo fintanto che tu mi scrivi, pure essa prima che tu venga ne tradirà due o tre». Ma la traduzione italiana non rende il suono di questi versi, che cinguettano come il canto d’un uccello beffeggiatore: «Though she were true, when you met her, And last, till you write your letter, Yet she Will be False, ere I come, to two or three». Sebbene, nel caso di Paola Terenzi, si trattasse d’infedeltà dell’altro sesso. Ma sostituite he a she, e il discorso torna, il fischio sottile dell’uccello beffeggiatore vi penetra lo stesso nell’anima: guai ad ascoltarlo! Rapidi come una cilecca quei due versetti: Yet she e Will be, leggera come uno sgambetto di ballerina, un entrechat, quella rima: mét her, lettér. Pare nulla, e a poco a poco vi rintrona come il crescendo rossiniano nell’aria della «Calunnia».
Quell’estate all’albergo Sontuoso di Cortina le signore, come sempre accade, ricevevano ogni tanto la visita dei mariti rimasti in città per gli affari, le più fortunate ogni settimana, ma di solito più di quindici giorni non passavano senza che l’ingegnere, il professore o l’onorevole facesse la sua comparsa, ed alcuni si trattenevano anche parte delle vacanze. Ma il marito della signora Sardelli non si faceva vivo mai. Presto qualcuno sussurrò, e la cosa si riseppe: Sardelli aveva un’attricetta, non bella, anzi piuttosto «racchia», con un gran naso sensuale e due occhi che dicevano «prendimi, prendimi», era anche sguaiata assai, le piacevano le «orgette», ma Sardelli ci s’era perso, chissà che cosa vedeva in lei? Sicché passando accanto a Anna sua moglie molti sussurravano della sua disgrazia, e quando le parlavano il tono della loro voce era come di chi si rivolge a una persona molto malata.
A Paola Terenzi questo dava disgusto: era un’anima buona, Paola, e vedendo Anna, con la quale aveva stretto amicizia, così sconsolata, così tenuta a vile dalla gente, (perché la comune compassione non era che la vernice d’un segreto disprezzo), pensò di consolarla, e che maniera migliore c’era per consolarla che fingersi sua compagna di sventura? Proprio quell’anno il professor Terenzi aveva un grosso lavoro da finire, e poteva finirlo solo in città dove c’erano tutti i libri indispensabili: aveva fatto rinunziare alle vacanze anche alla segretaria, abilissima nel maneggio dello schedario e dattilografa impeccabile. Così Paola inventò infedeltà in quel buon uomo di suo marito, che proprio quell’anno non veniva a trovarla a Cortina, tant’era preso dal suo lavoro.
«Anna, come ti capisco» (s’erano date presto del «tu»), le disse un giorno, «anch’io, se tu sapessi…».
«Ma come, anche tu, poveretta!...»
Le parole di Anna erano piene di pietà, ma nel suo sguardo, oh, nel suo sguardo che lampo, di speranza, di gioia, come un naufrago che scorge una riva. Non era più sola, c’era qualcuno accanto a lei. È solo perché ci sappiano tutti condannati a morire, che non pensiamo alla morte. Se Paola riusciva simpatica a Anna prima, quanto più cara divenne dopo questa mezza confessione! Ma una mezza confessione non bastava. Anna era famelica da un lungo digiuno di solitudine, e voleva sentire i denari sonanti del proprio riscatto. Sicché insistette per sapere il come, il quando. E Paola dovette precisare, e cosa strana, non si trovò troppo imbarazzata. Le uscì quasi di bocca: «Sai, quella segretaria…».
Prima d’allora non le era mai passato pel capo di pensare alla segretaria; era brutta, era bella? Ora, dovendo dipingere per soddisfare la golosità della sua povera amica, si provò a descrivere la segretaria, e mentre la descriveva trovava che poi tanto brutta non era, anzi era piuttosto carina, o, almeno, poteva piacere agli uomini, i cui gusti del resto a Paola erano parsi sempre piuttosto inesplicabili: trovavano belle certe donne! Poteva piacere a Vittorio? E mentre si sforzava di precisare circostanze («sai, un giorno lei era curva sullo schedario, e vidi lui che le baciava la nuca…»), negli occhi soddisfatti dell’amica scorse quasi riflesso quell’episodio immaginario, e involontariamente le venne fatto di scrollare il capo, come per scacciare una mosca, un pensiero assurdo e – non se lo confessava ancora – un po’ molesto.
Anna le diceva: «Dopotutto io sono sposata da quindici anni, e tu lo sei solo da tre. Quando eravamo sposati da tre anni, mio marito mi adorava; ora ne sono passati quindici…La prima svolta difficile è quella dei cinque anni, poi vien quella dei dieci, ed è lì che Sergio ha cominciato a non esser più lui. Ma tu, poveretta, dopo tre anni!» Come doveva dilatarsi il cuore ad Anna vedendo una sventura più grande della sua! Lei dopo tutto aveva avuto il suo grande romanzo d’amore, ma questa povera disgraziata, quasi all’indomani delle nozze…Che pena! Diceva la voce. Che gioia! Che sollievo! Dicevano gli occhi.
Paola Terenzi aveva altri amici all’Albergo Sontuoso, e prima a uno, poi all’altro confidò di che finzione si era servita per consolare Anna. Lo confidò perché già cominciava a non sentirsi così sicura di sé, e per persuadersi che era una commedia non c’era niente di meglio che farne sorridere gli altri per ritrovare la propria sicurezza nel loro sorriso. Così l’avvocato Criteri, che era un burlone, si mise a collaborare alla farsa, e in presenza di Anna le chiese più volte: «Ebbene, quando viene Vittorio? Sempre curvo sulle schede? Pare impossibile. Neanche un momento di svago!» E scoteva il capo. Anna ora non era più tanto triste, ma aveva bisogno delle confidenze di Paola come un diabetico dell’insulina. Paola, come una brava infermiera, le faceva l’iniezione giornaliera di coraggio. O era una trasfusione di sangue? Perché in verità più Anna ridiventava quasi serena, più Paola perdeva la calma. Vittorio, macché, lui poi no! Cercava di dirsi, ma mentre dapprincipio aveva dovuto inventare le circostanze, ora queste le venivano in mente da sé. Ed erano circostanze vere, non inventate. Vittorio era così buono, ma anche un debole: come tanti uomini di studio; era un pigro e un sensuale; non sarebbe andato a cercare le avventure, ma quando queste erano lì sotto gli occhi, a portata di mano…D’estate, col caldo: la segretaria, ricordava, aveva un sottile odore strano quand’era accaldata: Vittorio era sensibilissimo agli odori.
Malauguratamente proprio in quei giorni le lettere di Vittorio erano fiacche, distratte. Dapprima Paola aveva pensato che il lavoro gli lasciasse poco tempo per scrivere, e non ci aveva fatto caso. Solo ora che Anna le chiedeva: «E ti scrive? Ti scrive? Che lettere ti scrive? Io cominciai a sentirlo dalle lettere che scriveva. A me Sergio ora non scrive quasi mai, solo lettere di cose pratiche, di affari» - solo ora le lettere di Vittorio le parevano fredde, sospette. Diceva Anna, pure: «Hai fatto male a permettergli di avere una segretaria. Non potevi fargli da segretaria tu stessa?» Paola pensava alle dediche di certi libri di professori alle proprie mogli, senza il cui aiuto, asserivano, l’opera non avrebbe potuto esser compiuta. E l’aiuto si riduceva, come certi professori inglesi dicevano chiaro e tondo, a clerical work, lavoro di segretaria. To My Wife, without whose clerical work…Una volta, è vero, s’era offerta, ma Vittorio aveva protestato. Condannare sua moglie a quel lavoro minuto, noioso… «E poi, vedi, con te nella stanza non riuscirei a lavorare» diceva. Paola s’era vista mettere su un piedistallo di divinità, ma non era forse perché già Vittorio se l’intendeva con la segretaria? E più scacciava l’idea, più quella tornava con l’esasperante ostinazione d’una mosca.
Ora nella fantasia scrutava lineamento per lineamento il viso della segretaria, gesto per gesto i suoi modi. Ma via, proprio quella lì con gli occhiali. Eppure quando, senza gli occhiali, strizzava le palpebre con gli occhi perduti come in una nebbia cilestrina, Paola non poteva non riconoscere che qualcosa di estremamente grazioso c’era in lei, che lei stessa Paola, una bruna dai lineamenti classici, non possedeva. Cominciò a scrivere a Vittorio che assolutamente doveva venirla a trovare, ma insieme non voleva confessare di sentir gli aculei del sospetto geloso. Però Vittorio si trovava alle strette coi capitoli finali; ancora un po’, poi sarebbe forse venuto, ora proprio non poteva interrompere. La signorina Cantelli (la segretaria) l’aiutava molto, ma il lavoro progrediva lentamente, nonostante tutto, e alla fine di settembre doveva essere consegnato all’editore perché fosse pronto in tempo per Premio Trifoglio. (Il grosso premio, per tutti i rami dello scibile, era stato fondato dal proprietario della fabbrica d’un famoso nuovo aperitivo a base di trifoglio acquatico, sicuro rimedio contro le dispepsie nervose).
Paola la sera, coricandosi, invece di cullarsi al pensiero del suo caro lontano, vedeva ora tutte le cose che aveva cercato di fingere per l’amica infelice, e aveva voglia a dirsi che era soltanto una farsa: non c’era niente d’impossibile in questo mondo. Se anche Vittorio le era stato fedele fino al giorno della sua partenza, l’estate, il continuo trovarsi solo con quella ragazza…Non riusciva più a prender sonno; sarebbe partita l’indomani per Roma, avrebbe fatto una sorpresa. Così pensava la notte, ma la luce del giorno dissipava i fantasmi, e Paola non voleva degradarsi al punto da cercare di sorprendere il marito. O aveva paura del resultato del suo viaggio? Poi non poté più resisterci. Ogni mattina proprio l’avvocato Criteri a chiederle: «Sicché proprio Vittorio non viene?» Ogni mattina quegli occhi supplichevoli e ghiotti di Anna, e se cercava di cambiar discorso, quella non lasciava presa, e raccontava della sguaiata attricetta e voleva sentir tante cose sulla fatale segretaria; veramente così la villeggiatura era un supplizio.
Paola telegrafò a Vittorio, si precipitò a Roma, e quando il marito si meravigliò di trovarla un po’ sciupata, disse che non si sentiva bene, che era venuta per consultare uno specialista, che forse anche lei come tante, come tutte, soffriva di mal di fegato, forse avrebbe avuto bisogno d’un’operazione. Ma quando vide gli occhi miopi e pieni di fascino della signorina Cantelli, sapeva in cuor suo di che operazione c’era bisogno, ed era decisissima di farla, e presto.

SU IL DEMONE DELL’ANALOGIA. MEMORIE E DIVAGAZIONI NARRATIVE
Lo scritto Gli infedeli è tratto da Il demone dell’analogia. Memorie e divagazioni narrative (Edizioni di storia e letteratura, Roma 2002). È un libro, questo, composto da diciotto articoli, comparsi su diversi giornali nazionali come «Il Tempo», «La Nazione» e «La Stampa» tra il 1942 e il 1965. Sono, come Mario Praz che li ha scritti, difficilmente classificabili. Elzeviri? Racconti? Squarci di memoria? Diari di viaggio? Sfoggi di erudizione? Ironici bacchettamenti dei costumi? Chi lo sa.
Un dato è certo: in queste pagine si passa con tranquilla nonchalanche dalle pene d’amore della signora Terenzi (che abbiamo appena gustato), all’autoironica critica della propria fissazione per le statue in Un acquisto mancato passando per il grazioso e ben congegnato Un caso impossibile, in cui il fine anglista scrive un racconto di “soprannaturale spiegato” che non ha niente da invidiare alle analoghe novelle d’oltremanica che aveva letto e studiato. Completano il quadro poliedrico di questa pubblicazione gli squarci sulla società britannica de È dura a morire la Londra dell’800, Barbara e Nebbia. C’è di tutto, insomma, in questo agile volumetto – e tutto è presentato con quella penna colta, ironica e lieve che contraddistingue uno dei maggiori studiosi di letteratura (e non solo) dell’Italia del Novecento. Un uso della lingua fine, puntuale, accurato, ma mai pesante, mai roboante, mai esagerato. In questo libriccino dallo spessore fisico quasi insignificante alberga il grande spessore intellettuale di un uomo che ha dato molto alla cultura e ha formato intere generazioni di anglisti e di comparatisti.
Un uomo grande, ma solo. Solo, atipico, irraggiungibile, vittima di grandi dolori – rimase orfano in giovane età, vide il suo matrimonio naufragare – e, strano e quasi incredibile a dirsi, visto il suo operare di elevata cultura, vittima di un’immeritata fama di jettatore e menagramo. Cosa sulla quale, da uomo intelligente qual era, ha lievemente e signorilmente ironizzato ne L’anello di Policrate (altro delizioso scritto contenuto ne Il demone dell’analogia).

Copertina de Il demone dell'analogia

MARIO PRAZ: BREVE NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Mario Praz nacque a Roma il 6 settembre 1896 da Luciano e dalla contessa Giulia Testa di Marsciano. Il padre morì nel 1900 e la madre si risposò col medico Carlo Targioni nel 1912.
Il giovane Praz conseguì due lauree, la prima in Giurisprudenza a Roma e la seconda in Lettere a Firenze. Nell’ambiente fiorentino strinse delle proficue amicizie con molti aristocratici e artisti inglesi, fra cui Vernon Lee, che lo introdusse nel mondo letterario anglosassone. Si trasferì a Londra nel 1923 e, dopo qualche anno, diventò docente universitario d’italiano in Inghilterra e d’inglese in Italia. Nel frattempo scrisse una grande mole di lavori accademici, saggi, articoli di giornale. Ricordiamo, tra i suoi scritti, La carne la morte e il diavolo nella letteratura romantica e Storia della letteratura inglese.
Morì a Roma il 23 marzo 1982.

Casa Museo Mario Praz  - Roma






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