(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 44 - La rivoluzione copernicana di Sciascia poeta

   
di Sergio Daniele Donati


Di Leonardo Sciascia come poeta si parla troppo poco. Eppure tra le anime del famoso scrittore, narratore, giornalista e politico, esiste, forse un po' celata, anche quella che richiama al verso come forma espressiva. 
Lo si può cogliere nella raccolta La Sicilia, il suo cuore, pubblicata da Adelphi nel lontano 1997, unitamente ad altro lavoro favolistico-politico  dal titolo Favole della dittatura.


E di cuore  la raccolta è densa, e non solo, né tanto, per il richiamo alla terra natia del poeta. 
In ognuna delle composizioni infatti un'altra affezione, un altro affetto, emerge patente. 
Mi riferisco qui ad un certa descrizione della stasi come elemento sia di stupore che di rivolgimento al sé, a volte in modo angosciato, ma in ogni caso "rivoluzionario". 

I luoghi per il poeta, così come spesso i tempi, sono decritti come contenitori di assenza, quasi paradossalmente né oggetti, né del tutto simboli.
Sono luoghi, e tempi, di richiamo forte a un senso sia di resa che di scoperta. 

Scrive ad esempio il poeta (pag. 23 dell'opera), in una sua poesia senza titolo

La minerale solitudine dei ciechi
fermi sulle soglie,
la furia incandescente delle voci
dentro un mondo di tenebra: così oggi,
solo nella città grande,
io mi abbandono al muro di una chiesa.

Pare di poterla toccare quell'assenza di vista che si tramuta in parola (voci) incandescente e quella tenebra che è sia interiore che esteriore per chi non vede, che chiama un rifugio, o quantomeno un appoggio, qualcosa che possa dare un perimetro preciso alla solitudine del piccolo nell'immensità (della città).
Occorre un gesto di abbandono senza parola, qualcosa che parta dal corpo e al corpo si limiti, senza accedere alla parola, in una ricerca di stabilità anche spirituale (il muro di una chiesa).
Altrove il poeta riesce, ove mai sia possibile, a divenire ancora più incisivo e a dire dei luoghi e degli oggetti come tra loro dialoganti e capaci di moti dell'anima.

In Piazzetta per un primo atto, ad esempio leggiamo:

La fontana ha chiamato le case
a un sonno lieve –
                               e la luna 
all'amore della fontana.

Come vedete qui l'umano viene escluso e il poeta appare descrivere un dialogo di sentimenti e facoltà spirituali le cose. 
Un fontana capace di chiamare al sonno le case  e la luna che (immagino riflettendosi nella sua acqua) è capace di attirare nel gioco amoroso la fontana, rendono assente, prima facie, l'umano.
Sembra si parli del sonno e dell'amore degli e fra gli oggetti; di un dialogo tra cose. 
Eppure, proprio perchè assente, è in questa poesia che l'umano palpita con maggior vigore, è dalla sua assenza nel testo che emerge il ruolo di trascrittore/poeta che Sciascia sceglie di assumere, quasi che facesse propria la teoria del ritiro dell'autore dall'opera.
L'assenza di un IO in questa poesia, per contrappasso, fa cantare il Sé profondo del poeta e, me lo si conceda, anche del lettore che in quanto testimone di un dialogo da cui pare essere tenuto in disparte, dandone parola e vita, accoglie in sé la bellezza dell'essere "presenti alla propria stessa assenza". 

Di sé Sciascia però parla in una sua poesia della raccolta, dal titolo Hic et nunc, ma, proprio da come ne parla, si desume una forte tensione al ritiro, se non addirittura all'evanescenza. Ecco a voi il testo.

Sono una statua mutila
in fondo ad un'acqua chiara.

Fermato in un gesto – e spezzato.

Soltanto un tremore di cose
specchiate – alberi che si incielano
e rapidi voli – può darmi
delirio di tempo,
mutare il nulla in parola.

Vera e propria rivoluzione copernicana rispetto al comune sentire questa poesia ci obbliga a ripensare il nostro rapporto con l'inanimato e con il naturale. 
L'essere umano, il soggetto, il poeta, in sé sono definiti come monchi e mutili, come statici e spezzati nel gesto che un'acqua chiara lascia solo trasparire. 
Ed è proprio solo il movimento delle cose specchiate (tremore), di alberi che tendono al cielo (ah la dinamica statica degli alberi) e i voli degli uccelli, appaiono capaci di donare parola, quindi esistenza e nome, e dinamica temporale/temprale (delirio di tempo).
La vedete anche voi la rivoluzione di un umano che, al contrario di quanto comunemente si percepisce, diviene simbolo dell'inanimato e del naturale?
Sono le cose e gli elementi di natura a definirci, ed è poi la natura stessa ad avere il lasciapassare che ci permette di esistere e di poter testimoniare parola.
Senza di esse, noi diveniamo solo meri richiami e riflessi e rimaniamo mutilati e spezzati sotto il peso dell'inesistenza (un evidente ossimoro parlare di peso di ciò che non è!)

Una breve raccolta questa che lascia muti, come quando, senza ben poterne definire i contorni, si ha la piena sensazione e certezza che qualcosa di grande ci è passato a fianco – o forse dentro, trafiggendoci.
Una raccolta snella ma che, per contrappasso, richiede una lettura lenta e profondamente modificativa del pensiero del lettore, se attento alle finezze non solo linguistiche del Maestro siciliano.
In ogni caso, una lettura imperdibile per chi vuole, in poesia, incontrare oltre alla bellezza dei versi, indubitabile e fine, un pensiero divergente, almeno in parte, da un comune sentire troppo stereotipizzante.
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