De profundis (una scrittura in onore di Vladimr Lubarov e Arvo Part)

 
Opera di Vladimir Lubarov


Ci sono stato a lungo davanti a quello specchio che pareva riprodurre all'infinito una nenia di memoria, terzine di suoni che erano balzi - avanti e indietro, per poi tornare, chissà dove. 
Chissà dove?
E ho tenuto a lungo lo sguardo fisso sulla candela sullo scrittoio alla ricerca dell'anima nera e nobile che sostiene ogni nostra tremula speranza. 

Nero all'interno, bianco in mezzo, azzurro fuori, queste sono le alchimie di una fragile fiamma.   

Ma tu non c'eri, né mi accompagnava la tua voce, non più.
Allora mi sono rivolto ai semidei che abitano la mia libreria e ho cercato parole, lemmi di conforto.
Ma le lettere si mescolavano come sotto uno sguardo fortemente dislessico e componevano continui nonsense in lingue arcane e sconosciute.
Una sola aveva contorni di fuoco: una Alef, muta e regale. 
Mi guardava dentro le iridi senza cercare nulla, o forse cercando il nulla che le abitava. 
Fu allora che una goccia d'ambra mi rigò il viso. 
Un fossile di dolore vegetale protetto da una lacrima oleosa, il distillato di un silenzio decennale.
Aveva un nome ma io non osai pronunciarlo. 
E ho paura di dirlo ora; un nome palindromo, barbaro e breve, uno Spiegel Im Spiegel che riflette all'infinito l'antico gioco tra desiderio ed assenza.

Affidati al gesto, mi disse nel suo muto linguaggio la Alef. 
E io alzavo entrambe le mani, davanti allo specchio, in segno di resa. 

Che l'occhio non veda ciò che sceglie il nascondimento, continuava la regina del più antico alfabeto.
E io chiudevo lo sguardo al ricordo e lo posavo in un luogo privato di tempo, una landa pre-morte, un deserto del mutamento, cosparso di pelli di biscia.

È ora di dirti di nuovo Maestro, diceva la Alef.
E strusciavo il piede su sabbie percorse millenni orsono, e ne sentivo gli odori, e ne riconoscevo la consistenza. 

È ora che la tua iniziazione venga rinnovata, diceva - tacendo - la Alef. 
E io mi coprivo i volti con un velo di lacrime spesso e duro. 
Ero stato troppo lontano dal mio sogno, troppo a lungo. 

È ora che tu sappia chi sei, diceva mentre fissava la sua fiammella superiore al centro della mia fronte e prendeva dimora nell'esatto centro della linea che unisce gli occhi.

Io mi coprivo di silenzio, lasciando che dal mio viso cadessero maschere su maschere di terracotta a terra. Gli idoli di Terach che mi avevano appesantito troppo a lungo il respiro non coprivano più il mio epitelio.

Sussurra quel nome ai palmi delle tue mani, che ne resti traccia ogni volta che benedici il loro lavaggio. Non si esce con la pelle intatta dal ventre del pesce, resta una goccia di memoria tra i pori. Perché ciò che abbiamo rischiato di divenire per non essere ciò che siamo lascia un segno indelebile a memoria del pericolo scampato, diceva la lettera regina, tramutando il colore dei suoi contorni in indaco scuro.

Mi svegliai allora; la stanza era nel silenzio più assoluto e, per la prima volta da decenni, il mio primo pensiero non fu dedicato ad altro che al deserto della trasformazione dei miei avi.

Spiegel Im Speigel  - di Arvo Part
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Testo di Sergio Daniele Donati

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