Abbaino di Francesca Piovesan


Testo e immagini pubblicati su concessione dell'autrice


Quando piove, qui è buio. 

Resto intanato in un angolo, mi muovo poco, sistemo qualcosa di sfilacciato. Mi ci sono voluti circa due mesi per imparare a fare bene le cose, prima terminavo tutto a metà, mangiavo poco, sono stato magro, sottopeso.

Quando piove chi vive con me fa poco rumore. Il suono della pioggia è più forte. La tv della stanza accanto non si accende, il gatto dorme sempre al solito posto, anche i vicini sono silenziosi. Io sono silenzioso, guardo l’abbaino che respinge l’acqua. Un paio di settimane fa è venuto un uomo a ripararlo; l’acqua entrava, formava delle piccole pozzanghere sul parquet rossastro. Ho provato ad avvicinarmi a quelle pozzanghere, per capire se ricordavo bene quei primi giorni di vita quando vivevo fuori, all’aperto, quando ero minuscolo, quando ero uno fra cento. Ho immerso nell’acqua una delle mie gambe; era fredda, acqua di Dicembre, acqua di ghiaccio, acqua di sole negato. L’ho ritirata subito, no, non fa per me.

Nei giorni seguenti ho aspettato che arrivasse quell’uomo, l’uomo delle riparazioni, arrabbiandomi ad ogni ora sospesa, ad ogni ora allargata da quella minuscola pozzanghera che la lingua del gatto leccava, divertita. Quando è arrivato, in un pomeriggio di neve indecisa, l’ho seguito in ogni movimento.

Ero lì, sempre al solito posto, il posto al riparo, nascosto tra lo scatolone del servizio di piatti arrivato per l’ultimo compleanno e quattro vecchie cornici vuote, spente, sporche di polvere, sbiadite. Sopra la testa dell’uomo la vita che costruivo da qualche giorno. E se l’avesse urtata? Se l’avesse strappata involontariamente o, nella peggior delle ipotesi, con volontà bruta, arrabbiata, schifata, passandosi poi furiosamente la mano nei capelli per controllare che non ci fosse l’orrore, la ripugnanza?

Lì, nel mio angolo, diventavo minuscolo dalla rabbia, una palla nera pronta da schiacciare. Avrei dovuto diventare pericoloso per la paura, cercare di spaventare, di mordere; invece rimpicciolivo. Insulsa creatura di pochi centimetri, fenicottero scuro dalle gambe di cristallo. E quel naso bagnato che mi scovava in ogni dove, lo sentivo sul mio corpo, ne assaggiavo il respiro. Lo aggredivo sempre, in qualche modo, e lui saltava all’indietro, passandosi una zampa sul muso, scuotendo un po’ la testa.

Se fossi stato una femmina, lo avrei usato come nido. Avrei deposto la mia palla di seta nel suo pelo. Invece ero un maschio solo. Solo nella caccia, solo nelle ore vuote tra una trave e l’altra, solo a guardare l’ombra di quel spaventoso Babbo Natale che si arrampicava su una scaletta e che, tutti, avevano vergogna ad appendere in terrazza, solo quando entravo nell’armadio e dormivo sopra la tovaglia troppo lunga, solo mentre leggevo qualche vecchio giornale.

Tra pochi giorni tutto sarebbe finito, il pino sintetico che staziona in salotto sarebbe ritornato qui. Quel pino aveva visto molta vita in un mese, forse mi avrebbe portato anche lei.
stampa la pagina

Commenti

Posta un commento