(Redazione) - Metricamente (Prontuario di sopravvivenza metrica) - 04 - La cantabilità dell’amore: dissertazioni sulla forma metrica della ballata

 

Di Ester Guglielmino

Perch’i’ no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’ a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Tu porterai novelle di sospiri
piene di dogli’ e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.
 
Guido Cavalcanti, da Rime, Perch’io non spero… vv. 1-16

Inizia così la più nota ballata di Guido Cavalcanti, il celeberrimo poeta fiorentino che fu personalità centrale, seppur controversa e misteriosa, dello Stilnovismo nonché grande amico di Dante. Appartenente all’alta aristocrazia, a una famiglia di rango ben più nobile rispetto a quella degli Alighieri, fu proprio lui a introdurre il Nostro presso i circoli culturali più in di Firenze. Pare, infatti, che la famiglia di Dante, rientrante nel novero della piccola aristocrazia, avesse in realtà fatto fortuna prestando denaro a tassi di interesse certo non modesti, motivo per cui Alighiero padre era riuscito a mantenere una posizione economica ragguardevole, ma un prestigio sociale ben più limitato. Dell’amicizia con Guido - figlio del noto e rispettato Cavalcante de’ Cavalcanti - Dante andò a lungo fiero, anche perché i due giovani erano legati da grandi affinità sia d’animo che culturali. Quella fra i due poeti fu però un’amicizia destinata a spegnersi nel segno d’un perdurante rimorso e, potremmo quasi dire, d’un oscuro presagio. Giunto all’apice della sua breve carriera politica, fu proprio Dante, in qualità di priore1, a votare l’esilio dell’amico; esilio da cui Guido - confinato a Sarzana e ammalatosi di febbre malarica - non fece mai più ritorno; esilio che fu per lo stesso Dante foriero di sventure, visto che da lì a poco si sarebbe trovato a ripetere il destino dell’amico. Secondo una congettura un po’ romanzata, che non tiene abbastanza conto di quanto l’autobiografismo – almeno prima di Dante – fosse in buona sostanza estraneo allo spirito della lirica antica, sarebbe stato proprio il confino a Sarzana a fornire il contesto per la nascita di questa ballata, che insiste sui temi della lontananza dalla donna amata, dell’idea pressante della morte, della consapevolezza di non poter più tornare a casa.
Tuttavia, a interessarci in questa sede non è tanto il contenuto di tale componimento quanto il genere metrico a cui esso appartiene. La ballata antica o canzone da ballo (in provenzale dansa) era una forma strofica di argomento profano, originariamente destinata al canto o alla danza. A costituirne la peculiarità strutturale era infatti la presenza di un ritornello (in provenzale respos o refranh) di due, tre, quattro versi che veniva cantato dal coro danzante e che poteva essere ripetuto alla fine di ogni stanza. La stanza, invece, si manteneva del tutto analoga a quella della canzone, aveva sempre dai quattro versi in su, era suddivisa in piedi e volta ed era cantata dal solista. L’ultima rima della stanza, in genere, ripeteva quella del ritornello, proprio per far risaltare la musicalità del componimento. La lunghezza metrica del verso, abbastanza libera, poteva alternare settenari ed endecasillabi (o talora versi più brevi) senza uno schema preciso.
È molto probabile che la ballata, come struttura metrica, provenisse dallo zagial arabo, attestato in Spagna già a partire dal X secolo e dalla fine dell’XI secolo adottato, con probabile tramite ebraico, in alcune sequenze mediolatine, dalle quali passerà alla poesia provenzale.
In Italia ritroviamo questo schema metrico solo a partire dal XIII secolo, nelle regioni settentrionali e in particolare a Firenze e Bologna, mentre ne mancano esempi nella scuola siciliana. Non si può del tutto escludere, in questi luoghi, la provenienza da un contesto autoctono e popolare, ma sembra assai più probabile immaginare una mediazione provenzale. In ogni caso la sua struttura verrà perfezionata prima dagli Stilnovisti e poi da Petrarca, per vivere, infine, la sua stagione più fortunata nel XV secolo.
Così, se all’inizio il suo schema metrico/rimico era:

XX (ritornello di due versi a rima baciata)
AAAX (stanza di quattro versi, tre con rima rinterzata e ultimo in rima col ritornello)
XX (ripresa del ritornello)
BBBX (stanza con medesimo schema)
XX (ulteriore ripresa finale del ritornello),

successivamente esso si amplia fino ad arrivare allo schema più tipico della ballata italiana:

XY YX (ritornello di quattro versi a rima incrociata)
AB.AB.BC.CX (stanza di otto versi con rime ripetute, volta e ripresa della rima del ritornello)
XY YX (ripresa del ritornello)
DE.DE.EF.FX (stanza con medesimo schema)
XYYX (ripresa finale del ritornello).
La ballata di Cavalcanti sopracitata ha però uno schema in parte diverso; come si può vedere, ciascuna stanza è formata da dieci versi e non da otto; il ritornello da sei versi e non da massimo quattro. All’interno delle stanze i versi sono poi ripartiti in:

  • FRONTE di quattro endecasillabi, rimati secondo lo schema AB.AB:
Tu porterai novelle di sospiri -IRI
piene di dogli’ e di molta paura; -URA
ma guarda che persona non ti miri -IRI
che sia nemica di gentil natura: -URA

  • SIRMA formata da un verso endecasillabo e cinque settenari, rimati secondo lo schema Bccddx:
ché certo per la mia disaventura -URA
tu saresti contesa, -ESA
tanto da lei ripresa -ESA
che mi sarebbe angoscia; -OSCIA
dopo la morte, poscia, -OSCIA
pianto e novel dolore. -ORE

Inoltre, tutte le stanze terminano con una rima (x) in -ORE che riprende l’ultima rima del ritornello.
La ripresa o ritornello, che si compone eccezionalmente di sei versi, riproduce lo schema della sirma (un endecasillabo + due settenari a rima baciata + due settenari a rima baciata + settenario rimato in -ORE).

Perch’i’ no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’ a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Questa struttura metrica anomala va messa in correlazione con il forte sperimentalismo dei poeti fiorentini del Trecento; essi pensarono anche di aggiungere alla fine una replicazione, cioè una strofa indipendente simile per funzione alla ripresa. L’uso dei versi spazia dagli endecasillabi agli endecasillabi misti a settenari, ai settenari misti a versi più brevi.
Ma, sperimentalismi a parte, sembra opportuno chiarire che, in base al numero di versi che formavano il ritornello, si potevano anche avere vari tipi di ballata:
  • grande (ritornello di quattro endecasillabi o endecasillabi e settenari);
  • mezzana (ritornello di tre endecasillabi o endecasillabi e settenari);
  • minore (ritornello di due endecasillabi o di un endecasillabo e un settenario);
  • piccola (ritornello di un endecasillabo);
  • minima (ritornello di un verso breve, ottonario o settenario o quinario);
  • stravagante (ritornello con più di quattro versi).
La ballata, quindi, nasce come componimento di argomento profano, ha come tema privilegiato l’amore e come scopo principale allietare il suo uditorio, puntando su una struttura metrica orecchiabile e musicale. È probabile che sia stato proprio questo ultimo aspetto a favorire una precoce deviazione dalla fisionomia originaria. A partire dalla prima metà del Duecento, infatti, soprattutto nell’Italia centrale, comincia a circolarne una nuova tipologia, destinata a cantare l’amore sacro, non più profano. Nasce così la lauda, che verrà impiegata per celebrare le lodi di Dio, di Gesù, di Maria, dei santi. È del 1233 la fondazione del movimento degli Alleluianti, il cui nome deriva appunto dall’abitudine di intonare l’alleluia; è perciò assai probabile che contestualmente ad esso trovi diffusione questa nuova forma di ballata, di tema religioso e in lingua volgare. Negli anni a venire la lauda diventerà uno dei generi più diffusi a livello popolare, perché la sua forma cantabile si prestava molto bene a veicolare i contenuti sacri in maniera semplice e leggera, venendo incontro alle esigenze di divulgazione popolare delle confraternite radicate nel territorio. Su un piano qualitativo strettamente letterario, la lauda due-trecentesca resta per lo più legata a due grandi nomi, quello di Guittore d’’Arezzo e quello di Iacopone da Todi.
Tralasciando in questa sede, per ragioni di spazio, il primo, di cui resta certo più famosa la produzione di argomento politico e partigiano; del secondo possiamo dire che si conferma per eccellenza come maestro del genere. A Iacopone - prima notaio benestante, poi francescano conventuale intransigente, convertitosi dopo l’infausta morte della moglie - si fanno risalire ben novanta laudi; tra di esse occupa un posto di primo piano Donna de Paradiso, nota per essere anche la prima lauda drammatica della letteratura italiana ossia quanto di più prossimo si possa trovare, in questi anni, a un testo proto-teatrale. Di struttura fortemente innovativa e sperimentale, essa ripercorre l’evento evangelico della Passione, sviluppandolo come un dialogo scenico a più voci: il Nunzio, che si fa portavoce dell’imminente crocifissione; la Madonna, che raccoglie la notizia e ne resta tramortita; il popolo, pronto a sfogare la sua rabbia contro l’imputato sacro; Cristo, che prende congedo dalla madre, dolendosi per la sua sofferenza infinita. Lo schema metrico resta quello della ballata:

«Donna de Paradiso,
lo tuo figliolo è preso
Iesù Cristo beato.

Accurre, donna e vide
che la gente l’allide;
credo che lo s’occide,
tanto l’ho flagellato»

[Iacopone da Todi, Donna de Paradiso, vv. 1-7]

I versi, tutti settenari, hanno una ripresa di tre versi con schema yyx (Paradiso/preso è rima siciliana) e stanze di quattro versi con schema aaax. Tale struttura viene definita “zagialesca” ossia strettamente connessa – come dicevamo prima - alla forma metrica araba dello zajal, che prevede, per ogni stanza, tre versi in rima baciata e un verso di chiusa che rima con l’ultimo verso della ripresa (x…x).
Il ritmo cadenzato e snello è perfettamente funzionale al sistema della battuta teatrale, determinando nella tensione narrativa un crescendo che coinvolge appieno il lettore/uditore e che si presta bene alla memorizzazione e ripetizione. Nuova e inattesa è pure la prospettiva da cui si racconta la crocifissione ossia quella di Maria, nella sua dimensione terrena e umanissima di madre. Non c’è la donna celeste al centro della scena ma la madre umana con cui ogni donna del popolo può identificarsi; una madre che assiste alla morte del figlio e che a questo figlio rivolge la sua nenia patetica e dolorosa:

«O figlio, figlio, figlio,

figlio, amoroso giglio!
Figlio, chi dà consiglio
al cor me’ angustïato?

Figlio occhi iocundi,
figlio, co’ non respundi?
Figlio, perché t’ascundi
al petto o’ sì lattato?».

***

«Et eo comenzo el corrotto;
figlio, lo meo deporto,
figlio, chi me tt’à morto,
figlio meo dilicato?

Meglio aviriano fatto
ch’el cor m’avesser tratto,
ch’ennella croce è tratto,
stace descilïato!».

***

«Figlio, ch’eo m’aio anvito,
figlio, pat’e mmarito!
Figlio, chi tt’à firito?
Figlio, chi tt’à spogliato?».

***

«Figlio, questo non dire!
Voglio teco morire,
non me voglio partire
fin che mo ’n m’esc’el fiato.

C’una aiàn sepultura,
figlio de mamma scura,
trovarse en afrantura
mat’e figlio affocato!».

***

«Figlio, l’alma t’è ’scita,
figlio de la smarrita,
figlio de la sparita,
figlio attossecato!

Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio,
figlio e a ccui m’apiglio?
Figlio, pur m’ài lassato!

Figlio bianco e biondo,
figlio volto iocondo,
figlio, perché t’à el mondo,
figlio, cusì sprezzato?

Figlio dolc’e piacente,
figlio de la dolente,
figlio àte la gente
malamente trattato.

Ivi, vv. 40-48; vv. 76-84; vv. 88-92; 96-104; 112-127.

La struttura metrica, basata sull’uso del verso breve, viene potenziata dall’anafora e permette, col suo ritmo incalzante e serrato, di rendere a pieno la forza patetica del compianto. Perfettamente in linea con l’effetto voluto è l’uso di sintagmi di struttura elementare (Figlio + attributi/complementi) e la percussività delle rime che conferiscono al componimento la musicalità ipnotica di una litania. Ci sono, insomma, tutte le caratteristiche del rèpito o corrotto ovvero il pianto rituale che le dolenti – versione medievale delle più antiche prefiche – inscenavano in onore del defunto durante le cerimonie funebri. Jacopone imita il linguaggio delle persone comuni e nel farlo conferma l’importanza, per un genere come la ballata, di ottenere un coinvolgimento emotivo profondo in chi ascolta.
Ed è davvero straordinario constatare come questo intreccio indissolubile di musica, ritmo, linguaggio ed emozione si ritrovi, a centinaia di anni di distanza e con le medesime intenzioni, nella canzone d’autore italiana:

Figlio, figlio, figlio
Disperato giglio, giglio, giglio
Luce di purissimo smeriglio
Corro nel tuo cuore e non ti piglio
Dimmi dove ti assomiglio
Figlio, figlio, figlio
Soffocato giglio, giglio, giglio
Figlio della rabbia e dell'imbroglio
Figlio della noia e lo sbadiglio
Disperato figlio, figlio, figlio

Ancora Jacopone? No, siamo nel 2002 e questo ritornello, tratto da una ben nota canzone di Roberto Vecchioni, non fa che confermarci la vitalità dello schema metrico della ballata antica.
A seguire il link alla canzone, che merita davvero di essere ascoltata.

P.S. In limine sembra opportuno chiarire che il percorso evolutivo sopra delineato riguarda la ballata antica, forma letteraria e metrica distinta dalla ballata romantica o romanza. Quest’ultima, pur legata anch’essa al ballo e all’origine popolare, non ha veri punti di contatto con la prima. Si tratta di un genere, più che di una struttura metrica, nato tra i popoli nordici e affermatosi in ambito letterario solo molto più tardi, in epoca romantica. Affronta, di preferenza, temi di tipo narrativo o epico-lirico e non ha una struttura metrica codificata.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI:
  1. I testi citati sono reperiti in C. Giunta, Cuori Intelligenti. Dalle origini alla fine del Trecento. De Agostini, Novara, 2018 (Ristampa a cura di Dea-Giunti, ed. aggiornata del 2023)
  2. G. Ferroni, Storia della letteratura italiana. Dalle origini al Quattrocento, 1991, Elemond.
  3. M. Ramous, La Metrica, Garzanti, Milano, 1991.
  4. A. Barbero a questo link
NOTA
1 - Nel Comune medievale di Firenze i priori erano in tutto sei. Si trattava, nel XIII secolo, della magistratura più ragguardevole che un cittadino potesse raggiungere.

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