(Redazione) - Fisiologia dei significati in poesia - 14 - Può il poeta vivere di sola parola?
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di Giansalvo Pio Fortunato |
Può il poeta vivere di sola parola? È questa, presumibilmente, la domanda più astrusa ed ancestrale per una fisiologia dei significanti in poesia. Ed è la domanda più difficile da collocare, perché pone essenzialmente in essere due presupposti, che non sono così immediati in una considerazione complessiva attorno alla poesia.
- nella poesia è la parola a trionfare; non la lingua.
- ogni ontologia, in poesia, è composta nel e dal linguaggio.
Per
entrare in un’analitica della poesia è opportuno, allora, chiarire
come essa sia possibile solo attraverso la focalizzazione sulla
parola. La parola, così considerata, non è il termine, il lemma che
si individua nel dizionario e che compone sensi esatti e compiuti. La
parola, così considerata, è l’atto singolare ed individuale di
espressione. E, specificamente, di espressione proferita, di
espressione che si compie per se stessa [1].
Il
compito spesso atteso dalla poesia è, infatti, la nominazione
esatta; quasi che la poesia vada o a tradurre l’innominato in una
forma eufemistica del vissuto a-verbale, o a creare una sfera di
portamento alla conoscenza e all’espressione. Nel primo caso,
dunque, la poesia diventa una semplice codificazione, nella quale è
necessario rendere in parola il sentito, tramite il confluire di un
lessico esperienziale solidificato che cerca di adattarsi pienamente
a ciò che è vissuto ed esperito nella singolarità. Nel secondo
caso, invece, l’aspettativa è più ampia: ci si attende, infatti,
che la poesia ci tradisca perché, pervasi dall’illuminazione
spirituale, manifestiamo sostrati di sentire che, altrimenti,
resterebbero nascosti e ben segregati; quasi come se la poesia
godesse di un certo onirismo, di una certa vigilanza simulata.
In
entrambe le opportunità – inutile dire – sfugge la
considerazione, già fatta presente, per la quale l’esperienza non
sia l’esperienza di un’esperienza, ma una nuova attribuzione di
senso che, ovviamente, non vuole per se stessa se non se stessa [2].
Nella
prima opportunità, tuttavia, si ha una fiducia palese e rimarcata
nella natura denotativa del linguaggio, in virtù di un’esperienza
dell’operatività su lessico già costituito ed al quale siamo
abituati. In pratica? Facendo perennemente ricorso ad un continuo
complesso di denotazioni (dunque: di designazioni), si è abituati a
percepire una relazione lineare tra l’esperito e l’espresso,
ritenendo che la massa atterrente di tutto il già convenzionalmente
stabilito (la lingua) possa e debba incasellare il vissuto singolare
di ciascuno di noi. Il potere, che assai spesso si riconosce alla
poesia, è, infatti, la capacità con la quale riesce a dare
espressione all’inesprimibile, a ciò che è contenuto severamente
in ciascuno di noi e che non riesce ad affiorare. Ci si attende,
allora, un’intimità, una voce dell’anima che, tramite la poesia,
trova il suo compimento. Ed il grande e presunto miracolo sta proprio
nell’ottenere l’esito in virtù della lingua quotidiana. È
chiaro che questa opportunità si getta, appena concepita, nel
ridicolo, almeno per me che scrivo. In primis, perché una simile
codificazione maggiormente sensibile parte comunque da un immobilismo
del linguaggio. Avendo, per intenderci, un riferimento diretto [3],
se da un lato consento una certa libertà e semplicità
all’assegnazione di un nome ed alla sua validità espressiva nel
rapporto di uno a uno (un nome ad una cosa [4]), dall’altro lato
riduco l’espressione alla sola composizionalità di termini
riferiti, non considerando che, soprattutto in poesia, abbia senso e
valore soprattutto lo spazio
vuoto tra le lettere
[5]; non considerando che il calibro della parola stessa e la sfera
connotativa abbiano un ruolo decisivo nell’espressione poetica.
Nella
seconda opportunità, seppur più suggestiva, ritroviamo una
rimostranza assolutamente assurda e tendenziosa. Questo spirito, che
quasi ci trascende, si relaziona alla parola, sosta nel nostro io [6]
e si lega all’artificio che viene fuori senza il nostro controllo.
Se, come già mostrato, non è richiesta tematizzazione per un atto
di afferrare, il muoversi entro la lingua, l’atto di linguaggio,
avviene comunque alla luce di un distacco. La nominazione è come se
fosse un affioramento: affiora ciò che non ha nome, se non
attraverso la poesia. E come mai affiora? O, meglio ancora: come fa
ad affiorare? Affiora perché il movimento espressivo poetico è
trasversale e non centrifugo. Non richiedendo una terminologia
rigorosa e draconiana, è il verso nella sua totalità, non il
termine nella singolarità, a dare la totalità di senso e,
ipoteticamente, di un senso che, nella stragrande maggioranza dei
casi, sfugge.
Inutile
dire che l’opportunità sulla quale dobbiamo lavorare sia la
seconda; non certo la prima. L’aspettativa di una semplice
nominazione è pressoché utopistica. Il rischio del residuale sarà
sempre enorme. Ossia? Essendo la parola in poesia connotativa, essa
non si accontenta di esprimere le cose semplicemente a
corrispondenza, ma, muovendosi nella totalità delle variazioni
sintattiche e fonematiche, fa sì che la stessa materialità della
parola (il suono, l’ordine di disposizione nel verso, il ritmo e la
musicalità) sia costruttrice di senso e contribuisca alla
significatività del verso. Così come, e questo avrà una pertinenza
ontologica (come vedremo), la capacità di richiedere una
descrittività di base caratterizza un nome connotativo [8],
l’ipotetico termine si inserisce per il significato che ha già in
sé e gioca ruoli aprenti significati pluristratificati, attraverso
la convergenza di due o più significati contemporaneamente (i
significati subliminali di uno stesso termine: la metafora, per
esempio) o attraverso la sua relazione con il termine / i termini
nelle vicinanze (ossimoro, per esempio).
Questa
dinamica ed oltre-costruttiva apertura di più sensi contemporanei ci
pone all’interno del fulcro reale della parola poetica. Nella
parola poetica la vera arte è lo sfuggimento. Da un simile
sfuggimento, sia chiaro, non mi attendo assolutamente il sovraccarico
retorico dell’espressione non controllato dall’uomo o di questo
incoscio (supposto che sia) che non sarebbe articolabile in parola,
che miracolosamente nella poesia si rende articolato e che, avente
significati non codificabili, trova una sua maestosa e miracolosa
resa. Seppur cristiano, in primis, io credo nel miracolo ordinario;
non nel miracolo eccezionale [7]. Ma, soprattutto, non credo
all’abbordaggio ingiustificato ad una determinata costruzione di
senso.
Questo
cosa implica? Questo implica che, pur non rivendicando per la poesia
una dimensione calcolistica o di mero esercizio linguistico (il che
sarebbe reso dalla sola fissità della lingua e dalla mera
codificazione) io credo – e credo perché non ho ancora la certezza
matura ed analitica – in un percorso posturale: in una postura
poetica che, chiarita già nella sua matrice potenziale , ora deve
manifestarsi entro l’arte della parola. Il poeta si relaziona al
mondo da poeta, dà una preventiva significazione stra-ordinaria e
gioca contraddittoriamente con la totalità procreativa e
significativa del senso. Il poeta, dunque, afferra la parola
semplicemente e la assolutizza. Ne coglie tutte le componenti per
arrivare ad una posizione edificante tanto più ampia, per puntare ad
un senso non dato dalla lingua, ma comunque attinto da essa.
La
domanda, conclusiva per questo nuovo intervento, sorge, dunque,
spontanea: cosa differenzia, nel poeta, la parola dalla lingua?
Lo
cercheremo assieme nella prossima stazione!
____
NOTE
[1]
Assumo “parola” come resa ortodossa della parole
saussuriana:
atto linguistico singolo; singolo proferimento.
[2]
Si vedano in vari articoli, sempre per Le Parole di Fedro, scritti
sulla relazione in poesia tra Greifen
e
Zeigen.
[3]
Penso ad Austin ed alla teoria del riferimento diretto.
[4]
Teoria causale/battesimo di Austin o Wittgenstein del Tractatus.
[5]
Particolarmente significativa è, dal mio punto di vista,
l’intuizione di Sergio Daniele Donati, di collocare, già nel
titolo, una ricerca sulla poesia nel "Lo spazio
vuoto tra le lettere",
parafrasabile anche in tra
le parole.
[6]
L’io
psico-dinamico
(per esempio).
[7]
Mi si permetta questa battuta pungente.
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