(Redazione) - Specchi e labirinti - 11 - Irina, Alessia e Livia: una storia vera

 

A cura di Paola Deplano



Il moderno concetto di Principe Azzurro si potrebbe definire in pochi tratti paradigmatici ed essenziali: dev’essere un bell’uomo, dai modi fini ed eleganti, avere un discreto stipendio ed una buona posizione sociale, essere serio ed affidabile, uno senza vizi e dipendenze di sorta, in ottima salute e possibilmente sportivo. Uno come Mathias Schepp, insomma, l’ingegnere svizzero che Irina Lucidi sposa, dopo una breve frequentazione, perché aspetta un bambino, anzi due: le gemelle Alessia e Livia, che saranno rapite e uccise a sei anni dal padre, quale atroce vendetta contro la moglie che si è voluta separare. Tutto ciò – e anche altro – è narrato nel romanzo di Concita De Gregorio dal titolo Mi sa che fuori è primavera, edito da Feltrinelli nel giugno 2015. A pensarci bene, non si tratta di un romanzo ma, come avverte la controcopertina “è opera romanzesca che ha tratto ispirazione da fatti realmente accaduti”. Concita De Gregorio ha infatti messo la sua eccellente penna di giornalista e scrittrice a disposizione di Irina Lucidi per ripercorrere insieme a lei tutte le tappe di quella che sembrava una favola, ed è diventata l’inferno.
La storia dei due comincia in modo tranquillo, quasi banale, ad una delle tante cene organizzate dalla multinazionale presso la quale lavorano entrambi:

«Com’era Mathias? Fisicamente? Era bello. Alto, sportivo, biondo. Un po’ strabico, ma non mi ricordo se strabico verso l’interno o verso l’esterno. La memoria fa certi scherzi: lavora, proprio. È una specie di salvavita: quando deve cancella. Delete. Strabico comunque, questo lo so: i suoi occhi andavano in due posti diversi. Ma poco, una cosa affascinante e un po’ ipnotica. La prima volta che l’ho visto mi ha fatto ridere tutta la sera. Eravamo in montagna in uno di quei fine settimana che la nostra azienda organizzava per far conoscere i dipendenti di paesi diversi. Lavoravamo per la stessa multinazionale. Io, italiana, a Losanna. Lui, svizzero, in Italia. A Bologna. Una specie di scambio di posto, abbiamo cominciato a parlare di questo. C’erano una sessantina di persone. Non mi aveva colpita in modo speciale, avrei anche passato la serata con altri. Solo che dopo le presentazioni ogni momento me lo trovavo vicino. Era sempre lì, io mi spostavo e lui era lì. Gentile, educato, premuroso. Raccontava aneddoti divertenti, era molto allegro. Ricordo che mi apriva le porte. Un gesto insolito se, antico. Era serio, una persona seria. Solare, anche – così biondo, bianco e ridente -, ma fermo. Come una roccia in mezzo al mare. Ha insistito perché ci vedessimo ancora. Ci siamo visti. Era una persona di principi molto saldi, forti. Era molto, molto affidabile. Non so come dirlo meglio: era sempre presente. Quella che poi si sarebbe rivelata rigidità al principio era sicurezza. Sapeva sempre cosa fare, come farlo, quando. Aveva le mani lunghe, le unghie con le lunette bianche. Prendeva ogni cosa con cura. Ti potevi dimenticare di tutto, c’era lui a pensarci.» (1)

I primi tempi procedono così, senza scosse, fra weekend rubati al lavoro, viaggi, quiete letture insieme. Poi, l’imprevisto: lei scopre di essere incinta e lui reagisce, in un primo tempo, con incredulità e sgomento, spaventato più dall’inaspettato cambio di programma che dalla prossima paternità. Del resto, pochi uomini saltano di gioia alla notizia di avere presto un figlio da una che conoscono appena. E lui, ovviamente, non fa eccezione, salvo poi ricredersi e prendersi in pieno le proprie responsabilità, sposando la donna che presto lo renderà padre.
I due vanno a vivere in un minuscolo paesino nei pressi di Losanna, l’ideale per far crescere in tranquillità le gemelle e per seguire le rispettive carriere. La casa è bella, bellissima, molto grande. C’è persino una piscina, nel seminterrato. Ma ciò non rende felice Irina, perché ben presto si palesano le stranezze del marito, le sue rigidità, l’impalpabile violenza psicologica che annienta una donna in altri ambiti riuscita, matura, consapevole. Gli episodi sono molti, alcuni oggettivamente inquietanti, come lo scatto d’ira dopo che lei ha osato affidare ad un italiano la tinteggiatura della lavanderia di casa:


«Abbiamo avuto una forte discussione in macchina. Era sabato, stavamo andando in piscina con le bambine. Perché hai chiamato un italiano, gridava, lo sai che lavorano male. Ha frenato, mi ha fatto scendere, è ripartito. Non volevo preoccupare le bambine, volevo solo che smettesse di gridare. Sono tornata a casa a piedi. Sono rientrati dopo quattro ore. Erano stati in piscina, effettivamente. Alessia e Livia erano eccitate e con le guance rosse: papà ci ha comprato i lecca lecca giganti, ci siamo divertiti tantissimo mamma. Lui non mi ha detto niente, della macchina: non ha chiesto scusa, nulla. Come se niente fosse successo." (2)


C’è poi un sottile clima di controllo e di rigidità che pervade le giornate, un gorgo inquietante che avviluppa Irina, senza che lei, in un primo tempo, se ne renda conto fino in fondo:

«La prima volta che ho trovato attaccato all’armadio di Alessia e Livia una lista degli abiti che avrebbero dovuto indossare, descritti minuziosamente in due elenchi paralleli con i nomi delle bambine in alto in stampatello, ho pensato a una premura ed è venuto da sorridere anche a me. Mathias non sopporta che le bambine siano vestite allo stesso modo, cosa che in effetti e in assoluto accordo non abbiamo fatto mai, ma capitava alle volte che nella fretta di vestirsi per la scuola potessero avere – che so – le stesse calze. Che poi le calze si somigliano tutte, non è che uno stia proprio lì a guardare se sono quelle con i palloncini o quelle con le margherite. A volte si comprano a gruppi e ce ne sono di uguali, a volte quelle che cerchi sono state messe a lavare e ne prendi altre senza nemmeno guardarle. Insomma, capitava. Così, la prima volta che ho trovato l’elenco mi sono limitata a seguire le indicazioni, che prevedevano anche l’ordine con cui gli indumenti andavano indossati - prima la canottiera, evidentemente, quella a righe per Livia e quella a tinta unita per Alessia, poi la maglia a maniche lunghe, quella verde e quella gialla, poi la camicetta. Due camicette diverse. Nei giorni e nelle settimane seguenti le indicazioni scritte si sono moltiplicate. A volte, quando erano troppo lunghe per entrare in un post-it, erano fogli bianchi da stampante attaccati – per esempio al frigo – con lo scotch: il latte deve essere scaldato nel bricco e non nel forno a microonde, deve essere versato dopo che i cereali sono stati messi nella tazza e non prima. Cose così. Cose che ho sempre fatto abitualmente. Un giorno, però, sono comparse come istruzioni scritte. Presto sono diventate ordini: dall’infinito all’imperativo. Non Chiudere, ma Chiudi! Questi dettagli, queste piccole vicende domestiche, possono davvero in una vita familiare passare in secondo piano. Se uno ha fretta, se uno ha timore di sollevare discussioni inutili, se uno pensa che in fondo sia solo una debolezza dell’altro, e certo quando ci si sente più forti delle altrui debolezze succede di assecondarle, in qualche modo comprenderle, alla fine tollerarle. È, in un certo senso, un atto di superbia. Non nego di essermi sentita in questo stato d’animo: più solida dell’altrui debolezza, capace di sopportarla con indulgenza.
Poi un pomeriggio è venuta a casa la madre di Elisabeth, è venuta a riprendere sua figlia e si è fermata a bere un tè. Mi ha chiesto, sorridendo: avete una nuova baby-sitter? Guardava le indicazioni attaccate a ogni sportello, anche dietro la porta d’ingresso ce n’era una: Rientrando chiudere a una o tre mandate, sempre comunque in numero dispari, e lasciare la chiave nella serratura. Avete una nuova baby-sitter, ha domandato. E così, attraverso gli occhi di quella persona né estranea né amica, ho visto nitidamente la condizione in cui stavamo vivendo. No, non avevamo una nuova baby-sitter. Quelle meticolose istruzioni per l’uso erano tutte destinate a me.» (3)

Questa nuova consapevolezza porta Irina a contattare un centro anti-violenza, presso il quale ha la conferma di aver sposato una persona psicotica, e di essere per questo in serio pericolo:

«Sono andata in un centro per donne maltrattate: non sapevo a chi rivolgermi per capire come comportarmi dentro quella selva di regole. Hanno disegnato una spirale. Mi hanno detto: signora, lei è qui al centro, in questo punto. Se non reagisce finirà in fondo. Il finale è sempre tragico. Ne esca.» (4)

A questo punto, inevitabile, la separazione, che lui sembra accettare senza particolari drammi. Finché un giorno di gennaio, l’ultima domenica del mese, Mathias parte, senza lasciare traccia delle proprie figlie, e vaga per cinque giorni prima di uccidersi a Cerignola, in Puglia, sdraiandosi sui binari del treno. Irina racconta attraverso la penna della De Gregorio le indagini ingarbugliate, goffe, pressoché inesistenti, il silenzio di Dolores, la tata delle bambine, la sua apparente assenza di emozioni alla notizia della scomparsa delle bimbe, i comportamenti incongrui della suocera e dei cognati, i giornalisti e le televisioni per mesi davanti alla porta, quali sciacalli assetati di dolore, i medium che la cercano per segnalarle improbabili avvistamenti ai quattro angoli del mondo, nella speranza di spillarle soldi. Però racconta anche l’amore della famiglia di origine, dalla meravigliosa nonna Klara, al padre burbero ma legatissimo a lei, dell’amicizia con Paola, che le sta accanto in tutta questa vicenda, senza mai abbandonarla, coltivando la speranza di un improbabile ritorno, della fondazione di un centro per la ricerca dei minori scomparsi (Missing Children Switzerland), fino alla nascita di un nuovo amore con Luis, prima combattuto con tutte le forze, poi accettato con serenità – e duramente giudicato da chi la vorrebbe in eterno prigioniera di un dolore che, in effetti, mai finirà, né potrà mai finire. Una storia realmente accaduta, tenera e graffiante, piena di sfaccettature, di buio e di luce, d’inverno e di ritrovata primavera.



NOTE

(1) Concita De Gregorio, Mi sa che fuori è primavera, Feltrinelli, Milano 2018, p. 19.
(2) Ivi, pp. 22-23.
(3) Ivi, pp.43-45.
(4) Ivi, p. 23.
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