(Redazione) - Dissolvenze - 12 - RACCONTO A QUATTRO ANTE (parte prima e seconda)

A cura di Arianna Bonino

Questo armadio racchiude quattro brevissime storie. Ma, una volta aperte tutte e quattro le ante di questo strano armadio, si scoprirà che la storia è una e una soltanto. Forse.

"MOUSE" BY SHIBATA ZESHIN (olio su tela)

PRIMA ANTA: THE END

“…fu così semplice, aprì il libro blu e lesse quella dedica …”.
Era di fretta ancora una volta e quella mezza frase, quelle parole, lette di sfuggita, si mischiarono alle altre dei pensieri, all’”ordine del giorno”, alle liste delle cose da fare, a quella delle email da inviare, parole diverse che troneggiavano in primo piano, mentre le parole di quella frase -“fu così semplice, apri il libro blu e lesse quella dedica…” - precipitarono sul fondo della mente, dove navigavano già tra le quinte le solite “fine mese, scadenze, impossibile…”, così come altre cianfrusaglie che aspettavano il momento giusto per entrare in scena.
Quella frase del libro blu era scritta su un foglietto già calpestato da qualcuno in ascensore, forse tenuto fermo con un piede e disteso con l’altro, proprio per dispiegare la carta e togliersi la curiosità di leggere quel messaggio scritto a penna, chissà da chi, chissà per chi. Un modo come un altro per ammazzare il tempo mentre l’ascensore si elevava o calava misteriosamente. Lei non ci badò più, anche perché c’era un bel graffio nuovo sulla carrozzeria, proprio sopra il fanale sinistro, e pensò che il compratore con cui aveva preso accordi avrebbe rivisto al ribasso la valutazione dell’auto per via di quell’ennesimo segno: “e mai una volta che si prendano la responsabilità e ti lascino un biglietto coi dati o anche solo le scuse, figurati”. Anche quelle parole andarono a sparpagliarsi insieme a “libro blu, dedica, scadenze”, mentre in primo piano adesso c’erano, ben nitide, Senso Unico” e Zona Industriale, oltre ai titoli della solita playlist, che lei scorreva digitando ripetutamente con l’indice alla ricerca di un pezzo che amava ascoltare al mattino e di cui non ricordava il titolo. Altre parole che non arrivavano, che non riusciva a recuperare dal calderone della memoria e che magari sarebbero saltate fuori più tardi, in ufficio, quando invece erano ben altre quelle su cui doveva concentrarsi.
Così da tre settimane, un caos di vocaboli a sproposito. Si arrese al randomizzatore per non distrarsi dalla guida e riconobbe con un sorriso chiuso l’attacco di “Je te laisserai des mots”. Era un pezzo breve e sdolcinato, non ci si riconosceva. In ogni caso, la riascoltò un paio di volte mentre si mimetizzava nel traffico. “Eh, fosse facile trovare le parole, ci fosse davvero qualcuno che ti passa i bigliettini sotto la porta quando non riesci più a scrivere mezza frase…avrei già finito da un pezzo di tormentarmi con quello stramaledetto romanzo da consegnare”, disse rivolta al contachilometri, che rimase indifferente.
Nel parcheggio chiazzato di macchie d’olio e sole freddo c’era molto spazio e lasciò la macchina senza cura, ma soprattutto come non doveva, con le ruote non allineate, come le capitava da un mese a quella parte. Le sembrava che più nulla si allineasse, nemmeno quello.
Era nervosa, non riusciva a trovare quella dannata ultima frase per chiudere il romanzo e inviarlo all’editore. Il testo era buono, funzionava, sapeva benissimo che sarebbe piaciuto. Era l’occasione vera, definitiva, ma non riusciva a concluderlo.
“Fogli, borsa, cellulare, ok c’è tutto…bip-bip, chiusa”.
Fu solo nella cabina dell’ascensore che, alla vista della sigaretta ancora spenta e appesa alle labbra del collega, si tastò la tasca sinistra facendo una bizzarra manovra col gomito per non dare nell’occhio, constatando che sì, aveva dimenticato il pacchetto in macchina, tanto per cambiare. Impassibile, doveva rimanere impassibile, non aveva alcuna intenzione di chiedere a quel tizio irritante di offrirgliene una. In fondo, erano solo otto piani e li avrebbe trascorsi guardando oltre quell’imbecille che ammiccava. “Il pavimento è sempre un’ottima idea in ascensore”, pensò, e si guardò la punta degli stivaletti constatando che era ora di lucidarli, sapendo che comunque non l’avrebbe fatto.
Ma l’occhio ha una coda curiosa e fu con quella che colse la presenza di una piccola pallotta di carta in un angolo. Si rifletteva come tutto il resto nello specchio a figura intera, nel quale vedeva la bottoniera illuminare alle sue spalle la sequenza dei numeri: 3, 4…si andava per il 5 piano, ovvio. Guardò il riflesso di quel foglietto per evitare di incrociare lo sguardo allusivo che la fissava. “Idiota, insopportabile idiota”, pensò. 5, 6…, la bottoniera s’illuminava indifferente “Bene, tra poco sarà finito lo strazio di questa breve agonia”, si disse. “Ma, un secondo”, c’era qualcosa scritto sopra quel foglietto accartocciato, la calligrafia era simile a… no, non era possibile, eppure sembrava identico al foglietto visto già una volta, mezz’ora prima, nell’ascensore di casa sua. Fece d’istinto un passo avanti verso lo specchio scansando senza riguardo il collega sorridente e vide chiaramente scritte su quella carta le parole “…aprì il libro blu e lesse la dedica…”. Si girò di scatto per raccogliere finalmente il foglietto…7, 8… “Al piano, signora bella”, disse con una smorfia il seduttore deluso e umiliato, ma ben capace di cogliere l’interesse di lei per quell’avanzo scarabocchiato. “Do ut des, mia cara”, e con il piede spinse la cartaccia nella fessura creata dall’apertura delle porte che si spalancavano intanto sull’ottavo piano. Il foglietto era perduto per sempre.
Con la mascella contratta dalla rabbia che le montava dentro e non poteva esplodere, lei uscì a passo spedito dall’ascensore e gettò borse e carte sulla scrivania già ingombra di ansie pronte ad aggredirla.
Lavorò male, malissimo. L’inconcludenza che non poteva permettersi le fu addirittura sbattuta in faccia da una brutta mail che le ricordava scadenze impossibili.
Le parole “fu così semplice, aprì il libro blu e lesse quella dedica …” e quei due foglietti identici scritti da chissà chi, erano al centro del suo sipario mentale. Tutto il resto andava sfocandosi sullo sfondo, inservibile. “Magari sono proprio le parole che mi mancano per chiudere il mio racconto. Di sicuro lo sono, non c’è altra spiegazione.”, rimuginava con lo sguardo fisso verso un punto immaginario, cercando di capire come mai terminasse quel moncone di frase che, tutto sommato, sembrava perfettamente coerente con la trama del suo racconto da finire. “Anche io nel mio racconto parlo di un libro e del suo destino fatale e di come cambi la vita di quei due…non può essere un caso” pronunciò quasi impercettibilmente.
Le ore furono anni. I cinque caffè fecero il resto. All’uscita dall’ufficio non le importava nemmeno il fatto che avrebbe perso il lavoro, non avendo concluso niente nemmeno quel giorno. Voleva solo una cosa: arrivare a casa, precipitarsi nell’ascensore e recuperare quel diabolico pezzo di carta, aprirlo, leggere e trovare lì - ne era assolutamente certa - la frase che il suo cervello non riusciva a produrre, quella che aspettava ormai da settimane. Raggiunse l’auto ridendo con rabbia. Le sue mani tremavano, le strinse attorno al volante fino al pallore, fino a indovinare perfettamente lo scheletro delle falangi e la raggera dei tendini. Guardò avanti, mise in moto e si avviò. Qualche larga goccia di pioggia iniziò a precipitare sul parabrezza, e in un attimo l’acqua scrosciò pesante e fitta. D’istinto avviò il tergicristalli che, spostandosi al centro del parabrezza, si trascinò dietro qualcosa: una foglia, un pezzo di plastica…no, era un biglietto con una frase scritta a mano. Per un attimo lesse chiaramente alcune parole, non c’erano dubbi: “…fu così semplice, aprì il libro blu e lesse quella dedica…”. Era la sua frase, era lei. Sterzò immediatamente e arrestò l’auto davanti a un passo carrabile, si gettò fuori e recuperò al volo quella carta.
Adesso era ferma nell’abitacolo, con la sua frase tra le mani. Chiuse gli occhi, accese una sigaretta, godendo un sollievo indescrivibile, sorridendo come non faceva da...nemmeno lo ricordava più. Aprì il foglietto sul clacson, accese la luce interna e lesse: “…fu così semplice, aprì il libro blu e lesse quella dedica…”. Seguivano altre parole, forse quattro, cinque, ma l’acqua aveva diluito l’inchiostro e le lettere si erano sciolte dalla loro forma, perdendo irrimediabilmente contorni e senso. Pianse per una decina di minuti, provò a fumare ancora, ma quel sapore le sembrò disgustoso.
“C’è ancora una possibilità, c’è ancora quel foglietto, la mia frase, nell’ascensore, a casa” pensava, “non è finita, non è finita, non è finita, non è finita…”, guidò ripentendo a voce alta quelle parole, sapendo che si adattavano perfettamente al suo romanzo senza finale, ma anche alla speranza ancora viva di trovargli la giusta fine.
Quando arrivò sotto casa non pioveva più. Lasciò la macchina in fretta, non prese nemmeno borsa e sigarette e si ritrovò in un attimo nell’androne. “Buonasera, signora, faccia attenzione che è tutto bagnato, si scivola”, l’avvisò quella dell’impresa di pulizie, spostando un secchio colmo di bolle e acqua grigia.
L’altra addetta era proprio nell’ascensore, dove stava finendo di spolverare la targa d’ottone che riportava il massimo di passeggeri ammessi, contando sul solito peso medio di 75 kg. Il pavimento dell’ascensore era terso come uno specchio, come non era mai stato prima.
Verso le due di notte, in un buio quasi blu, due piccoli occhi si accesero su un musetto tremante e mobile. Lo squittio riecheggiò dove nessuno lo avrebbe mai sentito, là sotto, sul fondo della tromba dell’ascensore: “Uno scarto insapore, niente di commestibile”, pensò. Ma se ne accorse solo dopo aver divorato un’estremità di quella striscia di carta, che abbandonò in fretta scomparendo nell’ombra. Su quel foglietto rosicchiato adesso si potevano leggere solo poche parole: “fu così semplice, aprì il libro blu e lesse quella dedica…”.

SECONDA ANTA: SCATOLE

Una scocciatura, ecco cos’era: una scocciatura.
Faceva presto sua madre a dire “Che ci vuole? Ne hai fatti tanti, farai anche questo.” E intanto la guardava con le sopracciglia inarcate a bifora gotica, le sopracciglia fatali di sua madre, che, con le braccia ben conserte, l’osservava come si osserva un topolino che non trova la via d’uscita dal labirinto in cui qualcun’altro l’ha ficcato. Naturalmente senza intervenire in soccorso, proprio per vedere se ce la farà da solo.
Le scatole, il segreto era quello: questa volta avrebbe preso un pennarello indelebile - nero - e ci avrebbe scritto sopra per bene il contenuto. Sarebbe stato un gioco da ragazzi sistemare in un lampo libri, pentolame, tutto. Un altro trasloco si profilava ad un orizzonte vicinissimo e anche questa volta ci si era ritrovata faccia a faccia, dopo aver rimandato i preparativi di giorno in giorno, di ora in ora. Saltava sempre fuori una scusa, un motivo, un alibi: non che si inventasse distrazioni, succedeva di distrarsi con cose reali. D'altronde non aveva deciso lei, non era colpa sua. Il destino sceglieva di pararsi dinnanzi a lei proprio quando credeva di aver finito di sistemare un po’ tutto. “Vuoi vedere che è proprio per quello che adesso mi tocca rimettere tutto in quegli scatoloni? La prossima volta ne lascio qualcuno mezzo pieno”, pensava guardando l’avana del cartone strinato dalle vecchie strisce di nastro adesivo. “C’è chi ha i bauli rivestiti di Saint Tropez, Marrakech e Lisbone varie e chi i cartoni con su scritto: “vetri””.
Non era stato il caso di interpellare ditte specializzate. Avrebbe trascorso l’intera giornata a fare avanti e indietro perdendo il conto dei ticchettii delle quattro frecce, moltiplicati all’infinito per tutte le volte necessarie a quel carico-scarico sempre più approssimativo e snervante, di cartone in cartone, di sosta in sosta.
Un agosto tutto sommato tiepido che aveva poca voglia di appartenere al calendario e che dava ragione al senso di tempo sprecato a incartare e trasportare ciascuna di quelle tazze inutili – usava sempre la stessa e sempre l’avrebbe usata - e di quei bicchieri, incasellati in fondo ai cartoni, ora confabulanti nel buio del bagagliaio. “Forse il numerino impresso sul fondo dei bicchieri indica i minuti che mi stanno facendo perdere in questo andirivieni, ecco a cosa serve”, disse pigiando il bottone delle quattro frecce per l’ultima volta e tirando il freno a mano come si fa calare il sipario su una tragedia in cinque atti, finalmente conclusa. Recuperò l’ultimo cartone tenendolo sul ginocchio per liberare la mano con cui richiuse il portabagagli, pregando mentalmente chiunque l’ascoltasse lassù - o dove diavolo era - che il miracolo, forse il mistero delle “cose che restano in bilico nonostante tutto” si compisse anche per lei, una buona volta. E accadde.
Il cubo della guardiola era vuoto, il che non la sorprese: era ormai buio e quell’androne deserto la liberava dall’imbarazzo di badare all’equilibrio dello scatolone – le sue braccia le stavano dicendo senza margine di trattativa che quella era l’ultima volta per oggi - e intanto al dovere di mantenere il decoro di una camminata composta, come avrebbe voluto il “se qualcuno ti vede” di materna memoria. Non c’era nessuno, altroché: avanzò esasperando la posa sgraziata e facendo una boccaccia per completare l’opera: il rettangolo dello specchio dell’ascensore le restituì un Bacon illuminato al neon, che lei animò con nuove smorfie per i quattro piani che la separavano dalla meta.
Era stanca, il cuore nelle orecchie, lo stomaco al suo posto, ma vuoto, e che tale sarebbe rimasto fino al mattino dopo – tardi, molto tardi, questo era sicuro -, quando con calma avrebbe cercato un caffè nei dintorni, affezionandosi al solito posto d’angolo. Ma adesso la spia del carburante le permetteva di fare una e una sola cosa. E quella cosa sarebbe stata una sacrosanta doccia ormai notturna.
L’appartamento buio era rigato dall’azzurro della luce proveniente dalle finestre: “Eccoci qui tutti felici e contenti, tutto è bene quel che finisce. Punto.”, disse lasciando andare l’ultimo cartone sul pavimento del corridoio cosparso di altri grossi dadi di carta nei quali aveva sparpagliato la sua vita solo il giorno prima, cercando poi di catalogarla a colpi di pennarello nero. Non accese nemmeno una luce. Si sfilò le scarpe, la salopette si accovacciò in un angolo, per sfuggire ad un secondo calcio. Era finita, per modo di dire, ma soprattutto era sfinita. Camminò furtiva, come fosse in casa d’altri, fino alla porta in fondo al corridoio. La doccia era una bella scatola di vetro e non poteva essere altrimenti. Va bene l’angolo cottura, va bene anche il tinello e il letto alla francese, ma quella doveva essere come la voleva lei: grande, senza quei tendoni a canne d’organo, delittuosamente evocativi, e con un getto forte, ampio, assordante. Pulita nelle linee, semplice.
E così era: niente ripiani, niente ganci, niente di niente. Piastrelle bianche, acciaio, acqua. Certo, a pensarci bene, era davvero buffo che un ambiente così moderno avesse lassù in alto quel coso che aveva notato fin dal primo sopralluogo. Sì, uno di quei cosiddetti “contatti con comando a fune”. E c’era, in effetti, con tanto di funicella avvolta e fermata da un sigillo rosso, lassù in alto. La corda ben ripiegata spuntava da una placchetta rettangolare nascosta nel muro e fermata con quattro grosse viti. “Chissà dove suonerà mai poi se si tira, quella funicella…non si è mai salvato nessuno tirando una funicella, ci vuol ben altro”, disse nel buio azionando il miscelatore.
L’acqua fredda era un castigo immeritato ma atteso, un sollievo, tutto sommato. La lasciò fare, immobile per un tempo che sfidava quello scritto nei numeri in fondo ai bicchieri ancora incartati, di là, in uno di quegli scatoloni.
Quando finalmente aprì gli occhi nel buio, inquadrò di nuovo il Bacon pallido visto in ascensore, ma questa volta era costellato di pois: era suo quel riflesso bucherellato di gocce nel disco d’acciaio?
Il cuore era sceso al suo posto, ma era dilatato tanto da occuparle tutta la gabbia toracica. Lo sentiva a tambur battente, mentre guardava in alto, aspettando qualcosa. Era fredda quell’acqua, era fredda lei. Si guardò le mani: le dita erano sgualcite, lo sentiva passando in rassegna col pollice i polpastrelli, uno alla volta, sotto quella pioggia efficiente e inappuntabile. “Le mani tremano dopo aver sollevato pesi tutto il giorno, è normale”.
Ma anche le gambe tremavano. Si piegarono.
Era ampia quella bella scatola di vetro, ci si stava anche a quattro zampe, con il getto forte, assordante che continuava a battere tra le scapole. Torse il viso verso l’alto: sì, qualcosa c’era lassù. Qualcosa di piccolo, che sporgeva dalla parete nel buio, in alto, un po’ sopra il margine della piastrellatura bianca e bagnata. Si vedeva con la coda dell’occhio quella funicella avvolta nel sigillo rosso.
“Chissà dove avrebbe mai suonato, tirandola, quella funicella.”

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Commenti

  1. Stupendo, non vedo l’ora di leggere gli ultimi due! 🖤 (Emiliano Vizzi)

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  2. letto!! Attendo impaziente le due ultime ante !!

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