(Redazione) - Specchi e labirinti - 22 - Bet: la casa

 
A cura di Paola Deplano

La sua casa era come lei: piccolina, gioiosa, colorata. Entravi dalla cucina, che era anche soggiorno e salotto e poi subito nella camera matrimoniale, con giusto lo spazio per muoversi tra letto, comò e armadio. Il bagno, poi, era piccolissimo, giusto la tazza del water, un lavandino minuscolo recuperato da Giuseppe chissà dove e tre tinozze d’alluminio, una per il bucato, una per il bagnetto della bimba e una per lavarsi loro due – a pezzi, naturalmente.
Entravi e sulla sinistra la finestra del soggiorno era abbellita da tendine a scacchi rossi e bianchi che aveva cucito lei stessa, poco prima di sposarsi, assemblando i lacerti di una tovaglia da dodici della madre, altrimenti inservibile perché piena di buchi. La tenda bianca e ricamata fino al pavimento, quella della camera da letto, era un caro ricordo: gliel’aveva regalata la suocera poco prima di morire, quando con Giuseppe erano ancora fidanzati, in un bel pomeriggio d’inverno in cui erano andate a braccetto per chilometri finché avevano trovato il negozio giusto. Se chiudeva gli occhi, ancora sentiva l’aria di quel dicembre sul volto.
Nel soggiorno sul tavolo c’era anche un altro ricordo della suocera: un vaso di vetro di Murano comprato a Venezia dal suocero una volta che era andato in viaggio per lavoro, forse trent’anni prima. Sotto il vaso, uno dei tanti centrini che costellavano l’appartamento. Le piaceva lavorare a maglia e all’uncinetto, aspettando che Giuseppe tornasse dal lavoro e così i centrini erano proliferati. Il guaio è che la bimba, che aveva imparato a correre piuttosto che a camminare, tendeva a tirare i centrini attentando all’incolumità dei fragili soprammobili e costringendo la madre a mollare tutto per attuare tutta una serie di salvataggi in extremis. E non ci riusciva neanche a sgridarla – e tantomeno a picchiarla – per via di quella fossettina sulla guancia destra quando rideva e degli occhi scuri, perché era un Giuseppe in miniatura e lei si scioglieva al solo guardarla. La bimba era nata nel lettone, undici mesi prima. Per tutto il tempo del travaglio – che non fu lungo, in verità – la casa si era riempita di donne: sua madre, sua zia, sua sorella, le cognate e un numero imprecisato di vicine che si affacciavano ogni tanto per rifocillare le assistenti della partoriente le quali mangiavano di nascosto per non farsi vedere da lei, che invece doveva rimanere digiuna e “pensare a spingere”. L’ostetrica c’era e non c’era perché ne aveva altre due in travaglio, e si sbatteva di qua e di là, povera donna, per vedere com’era la situazione, sempre sperando che il bimbo nascesse con lei presente.
Giuseppe se l’era dovuto trascinare via il padre a forza, perché da che mondo e mondo non si era mai visto un uomo che rimaneva in casa mentre la moglie partoriva e in più piangeva come un vitello al mattatoio per la paura e dava solo impiccio. Il padre lo aveva spinto per tutte le scale fino al portone, borbottando che non voleva finire criticato dal vicinato perché l’unico maschio di cinque figli che l’Altissimo gli aveva dato era anche l’unico che non aveva gli attributi e si metteva a frignare davanti a una cosa naturale come un parto.
Finalmente a mezzogiorno la bimba era nata e una delle cognate si era affacciata alla finestra per informare il fratello: «È femmina!» Quello non ci aveva pensato due volte a sfuggire dalle grinfie del padre e farsi cinque piani di corsa in salita in un soffio, che poi dovettero soccorrere lui che non respirava più, mollando la bambina e la puerpera.
E adesso c’era un’altra bella novità, glielo aveva fatto notare Giuseppe due sere prima, quando le aveva chiesto a bruciapelo che fine avesse fatto il ciclo. Poi aveva aggiunto, ridacchiando: «Dato che per adesso ancora si può, io col tuo permesso ne approfitto.» Al che lei lo aveva abbracciato, coprendogli il volto di bacetti leggeri e rispondendo a tono: «E chi te lo ha detto a te che io ti do il permesso?»
Il giorno dopo, poverino, si era sentito male, un mal di pancia forte e improvviso che era l’appendicite e lo avevano dovuto operare. Ed era ancora all’ospedale, poverino, che seccatura. E quella notte lui non c’era e le mancava tanto. Si mise la bambina nel lettone e cominciò a sognare.
Era con Giuseppe e tanti bambini in un prato pieno di fiori, ma poi arrivavano delle persone a urlare e nel sogno le urla erano sempre più forti e aprì gli occhi e non era un sogno e non era un incubo, ma la piccola che piangeva e la botta della porta che cedeva, sfondata dai calci. E le stavano profanando la casa, strappando la tenda a scacchi bianchi e rossi e lacerandola sotto gli stivali chiodati, buttando a terra il vaso di Murano che si fece in pezzettini minuscoli invadendo la casa. E urlando, urlando senza fine. Muta e tremante, lei vestì la bambina di corsa e preparò la valigia di fretta, come volevano loro. Scese i cinque piani alla svelta per ritrovarsi in strada, in mezzo a gente conosciuta, ma con nessuno dei suoi.
Le lacrime le rigavano il viso ma in quell’alba stravolta riconobbe, come un faro lontano, la nuca del suocero e le sue spalle un po’ curve, qualche metro più in là, così lo chiamò con tutto il fiato che aveva in gola: «Papà! Papà!» Lui riconobbe la voce, si girò e tornò indietro, fendendo la marea controcorrente con la forza della disperazione. Le disse: «Dammi la valigia, ci sarà da camminare parecchio.» La bimba nel vederlo smise di piangere e sillabò incerta: «Non-no, non-no.» L’uomo le baciò le ditina una ad una, come faceva sempre Giuseppe, quando rientrava. Era uguale al figlio, suo suocero, un Giuseppe con trent’anni di vita in più sul volto. Lei si sentì invadere dalla tenerezza, non era il momento ma glielo disse lo stesso: «Papà, sono incinta.» L’uomo le baciò la fronte, paternamente: «Questa volta è un maschio, sono sicuro. Stai tranquilla, ce la caveremo come sempre, figlia mia. B’shanah tovah.» Se ne andarono così – e la casa restò.
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Commenti

  1. Molto bello, grazie

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    1. La ringrazio infinitamente per il suo apprezzamento (da Paola Deplano)

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