L'antica lotta

 

L'antica lotta - Sergio Daniele Donati


L'antica lotta è sopra, in cielo, tra bianco e nero. 
Io sto sotto, i piedi su una terra fertile. 
Ho camminato a lungo e non so quanti cadaveri ho lasciato alle mie spalle.
Ma ora la terra su cui poggiano i miei piedi è fertile. 

Lo ripeto a me stesso da tempo, come fosse un mantra, come se dirlo lo facesse diventare reale. 
Ho bisogno di poter pensare di aver creato qualcosa. 
Per questo ho sotterrato in terre lontane la mia spada e ho cominciato a camminare. 
Senza meta, lontano, sempre più lontano.

Nel cammino ho incontrato anime incomplete. 
Volevano una parola, una soluzione, a chissà cosa, poi.
Mi chiedevano sostegno.
A me che avevo lasciato non so quanti cadaveri sul mio percorso. 
Mi chiedevano cosa fare della loro vita.
A me che ho seminato morte per metà dei miei giorni.

Li ascoltavo, poi guardavo il cielo, poi di nuovo i loro volti. 
"C'è una guerra in cielo", gli dicevo.
Non capivano. E forse nemmeno io. 
Allora mi mettevo una mano in tasca, ne estraevo un sassolino e glielo davo. 
"Se il cielo cade a terra, lanciaglielo contro,", dicevo, "altrimenti non guardarlo e cammina".

Mi osservavano come si fa coi pazzi e sconsolati andavano via. 
Io vedevo le loro schiene curve. 
Ma non potevo farci niente. 
Io non sono un maestro e non ho nulla da insegnare, se non come si scaglia un sassolino contro il cielo; quando cade a terra. 

Allora riprendevo il cammino, ripetendo la lista dei cadaveri che avevo lasciato sulla mia strada e sperando in una terra fertile. 

Era la mia penitenza ricordarne i nomi, la mia speranza non dimenticare che la terra dà frutti; il cielo no. 

Un giorno mentre camminavo e ricordavo nomi di vittime una voce bambina mi chiamava. 
Stava dietro un salice e lanciava sassi nel fiume. 
Mi guardava. Io posavo lo sguardo a terra. 

"Hai una domanda da farmi?", mi chiedeva la bimba.
"Perché la gente mi chiede aiuto? Io sono un assassino", rispondevo.
"Quante sono le tue vittime? Lo saprai visto che ne ripeti i nomi da anni, ogni giorno", diceva.
"Sessantasette", rispondevo sicuro di me. 
Gli occhi mi bruciavano, come se fosse entrata una tempesta di sabbia nel mio sguardo.
"E in quanti ti hanno chiesto aiuto sin ora?", domandava.
"Sessantasette", rispondevo sorpreso.
"Hai offerto a tutti il sassolino?", chiedeva ancora.
"Sì, ma non capivano e mi giravano le spalle e andavano via", dicevo.
"Ma l'hai offerto", affermava. 
"Da quanto non guardi il cielo?", chiedeva poi. 
"Da sessantasette mesi", dicevo. 
"Guardalo ora", ordinava.
Era azzurro. Solo azzurro. 

Scavavo una buca e sotterravo i miei ultimi sassolini sotto il salice. 
La bambina non era più lì. 
La terra era umida e fertile. 
Sotto, la mia spada si tingeva di ruggine.
Sopra cresceva un mirto.
Più sopra ancora il cielo. Color indaco. 





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