(Redazione) - Voci dall'Umanesimo-Rinascimento - 06 - Torquato Tasso e "l'ossessione dell'occhio che guarda"

di Gianni Antonio Palumbo

Voglio adunque che ’l nostro cortegiano in ciò che egli faccia o dica usi alcune regole universali, le quali io estimo che brevemente contengano tutto quello che a me s’appartien di dire; e per la prima e più importante fugga [...] sopra tutto l’affettazione. Appresso consideri ben che cosa è quella che egli fa o dice e ’l loco dove la fa, in presenzia di cui, a che tempo, la causa perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende e i mezzi che a quello condur lo possono; e così con queste avvertenzie s’accommodi discretamente a tutto quello che fare o dir vole (B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, con introduzione di A. Quondam, Milano, Garzanti, 1981, II, 7, pp. 128-129).


Nella prima sezione del II libro del suo Cortegiano, affrontando il motivo delle circunstanzie, la cui lucida valutazione appariva costantemente sottesa all’agire del perfetto cortigiano, Castiglione pennellava una realtà, connotata − come già ampiamente evidenziato da Amedeo Quondam − dalla pervasiva teatralità insita nell’incessante relazionarsi a un “occhio che guarda” e, conseguentemente, esprime un giudizio. 
Nel proliferare di modellizzanti institutiones, compassate o irridenti, l’esistenza di un potere occhiuto, in grado d’insinuarsi persino nell’amenità di luoghi di delizia, specie se operante accanto a un’altra istanza giudicante, quella della Chiesa post-tridentina, rischiava di determinare, in chi ne avvertisse ossessivamente la presenza, il rischio di un corto-circuito emotivo.
A Torquato Tasso non sfuggiva tale caratteristica della realtà di palazzo, al punto che al vocabolo stesso “cortigiano”, nel suo epistolario, è legata una connotazione spregiativa, come quando, dopo aver evocato l’ambigua pratica con Orazio Ariosto, prorompeva in un sarcastico: “vuo’ cominciar a vivere a la cortigiana”, che chiosava come “mirare a tutte quelle apparenze a le quali fin ora non ho avuto riguardo così particolare” (T. Tasso, Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo e illustrate da Cesare Guasti, vol. I, Napoli, Rondinella, 1857, p. 173). 

In un’epistola dell’aprile 1576, indirizzata allo Scalabrino, in riferimento all’urticante Silvio Antoniano, revisore della Gerusalemme deliziosamente ribattezzato “Marguttino”, a chiari fini di captatio benivolentiae si riproponeva di scrivergli “dieci righe, o pur una lettera intera profumatissima cortigiana” (ivi, p. 53). 
Avrebbe dissimulato, ovviamente, la propria acredine, con quella medesima nonchalance con cui, in una lettera a Scipione Gonzaga (datata Modena, 24 aprile 1576), progettava la burla diabolica e, tutto sommato, dispendiosa, di far stampare copie della sua Gerusalemme epurate delle ottave di maggior lascivia (e di più irresistibile bellezza), per poi distribuire i canti nella loro interezza alle persone di fiducia e dar più ampia circolazione alle copie conformi allo spirito del tempo, andando a irretire revisori e bacchettoni in un inganno che solo una mente geniale e contorta poteva concepire (ivi, pp. 167-168). 
Nella medesima lettera, forse involontariamente condizionato dalla dichiarazione dell’Antoniano di voler che la Gerusalemme liberata fosse letta “non tanto da cavalieri, quanto da religiosi e da monache”, Tasso arrivava a concepire l’idea balzana ch’Erminia si facesse “non sol ... cristiana, ma religiosa monaca”. 
Pregava tuttavia Scipione di “conferire questo suo pensiero” esclusivamente con Flaminio de’ Nobili, altro revisore, e ovviamente con l’Antoniano; “con gli altri no; − precisava − chè se ne riderebbono” (ivi, p. 168). 
Questo balletto di concieri e revisori, se non fosse per gli effetti disastrosi che ebbe sulla condizione emotiva di Tasso, non mancava, così, di colorirsi di risvolti a tratti comici e d’innescare reazioni a catena, per cui lo stesso Silvio Antoniano finiva col convincersi che, causa il suo eccessivo rigore nell’affaire della revisione della Gerusalemme, il Gonzaga, amico del Tasso, avesse preso, se non proprio a guardarlo in cagnesco, quanto meno a salutarlo con viso meno sereno del solito. Tornando alla pratica cortigiana con le sue occhiute insidie, in un’epistola al corrispondente e amico Luca Scalabrino, il letterato scorciava un perturbante ritratto di perfetto cortigiano, quello del rispettabile signor Giulio C., probabilmente Giulio Coccapani. Il galante cortigiano era − come, a quanto pare, lo stesso Torquato − dedito alla poco discreta pratica di schiudere e sbirciare la corrispondenza altrui. Forse perché circondato di tali cerimoniosi ficcanaso, Tasso rabbrividiva quando ritardi nella corrispondenza, che in passato non avevano più di tanto impensierito il padre Bernardo, gli lasciavano balenare l’ipotesi che le sue missive giacessero nelle mani d’individui intenzionati a nuocergli.
Nella sua opera, dato comprensibile se solo s’indulge alla considerazione che l’epos e il romanzo cavalleresco sono i generi maggiormente condizionati dal culto dell’onore e dai retaggi della civiltà della vergogna, si assiste a un continuo pullulare di sguardi.
La Gerusalemme liberata, il poema della prima crociata, si apre, per esempio, all’insegna dello spectans oculum di Dio, altrove (nel Discorso sopra varii accidenti della sua vita) da lui definito “spiator dei cuori”. 
La prospettiva si rifrange poi sullo sguardo di Goffredo che passa in rassegna l’esercito adorno in un “largo prato” (I, 35; seguiremo per le citazioni l’edizione della Gerusalemme liberata a cura di Claudio Gigante e Tancredi Artico, Milano, Mondadori, 2022). 
Tra le forze cristiane, nel poema, era menzionato anche Tatin, probabilmente spia di Alessio Comneno, imperatore d’Oriente, a sua volta evocato indirettamente, con atteggiamento ambiguamente attendista, nell’apostrofe alla Grecia, seduta “quasi a spettacolo”, “lenta aspettando de’ grand’atti il fine” (I, 51). 
Non possiamo qui esimerci dal menzionare l’Alessiade della figlia dell’imperatore, Anna Comnena, foriera di una differente prospettiva di analisi della prima crociata e d’inusitati a tratti impietosi, giudizi su Buglione, Boemondo, Tancredi...
I personaggi della Liberata potrebbero ripartirsi in occhi che guardano o che smaniano per attrarre su di sé gli sguardi. 
In quest’ultima categoria rientra il “tempestoso e notturno” (Giovanni Getto, Malinconia di Torquato Tasso, Napoli, Liguori, 1979, p. 371) Argante, poi infiacchito nella Conquistata dall’infelice tassiana idea di appioppargli, da novello Ettore, una nutrita famiglia, in cui spiccano due sbiaditi personaggi femminili dai nomi parlanti: la moglie Lugeria e la madre Funebrina.
Ogni azione d’Argante è finalizzata, nella Liberata, a far convergere su di sé l’attenzione generale e si carica d’una teatralità esasperata (su questo personaggio ci permettiamo di rinviare anche a un nostro saggio per la rivista polacca “Studia Paradyskie”, qui il link). 

Quest’attitudine traspare in gesti come quello, celebre, della scena dell’ambasceria, quando, indossata metaforicamente la toga del Quinto Fabio Massimo delle storie di Livio e di Floro (segnaliamo a tal proposito il saggio di Martellotti, La toga di Argante, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. III, 1975, pp. 1067-1074), il barbaro s’abbandona, in atto di sfida contro i cristiani, a un gesto “sì feroce et empio / che parve aprir di Giano il chiuso tempio” (II, 90). 
Nell’atto di congedarsi, le sue parole esplicitano al Buglione la volontà di adibire la spada dono ospitale allo sterminio dello stesso esercito cristiano (II, 93: “Qq”), minaccia attuata nel canto terzo. Adoperata l’arma per consumare con voluttuosa barbarie l’uccisione di Dudone, Argante si rivolgerà beffardo ai Franchi, in particolare al Buglione, per rimarcare l’adempimento della fosca promessa: “O cavalieri, questa sanguigna spada è quella stessa / che ’l signor vostro mi donò pur ieri; / ditegli come in uso oggi l’ho messa / ch’udirà la novella ei volentieri” (III, 47). 
È come se il pagano presupponesse di essere costantemente oggetto degli sguardi pavidi e/o rancorosi dei nemici. La lontananza dal campo aperto provoca in lui claustrofobica sofferenza e, portandolo ad anteporre la pulsione a mettere in scena lo spettacolo del proprio valore all’interesse per l’esito stesso del conflitto, lo stimola a stigmatizzare l’atteggiamento da temporeggiatore del re di Gerusalemme Aladino, intenzionato ad attendere il soccorso di Solimano, sultano spodestato di Nicea.
L’episodio sfocerà nella celebre disfida del canto sesto, orchestrata da Argante; si tratta di una giostra senza esclusione di colpi che contrapporrà non risolutivamente il titano al melanconico Tancredi. A interrompere il duello sarà il sopraggiungere della notte, per Tasso emblema del non essere; i guerrieri si separeranno con l’auspicio di una ripresa diurna dello scontro, perché la sola vera gloria rifulge alla luce del giorno.
Se l’Argante della Liberata concepisce la guerra come un teatro en plein air, in cui gli è assegnato il ruolo di primattore, Caretti intuiva quanto l’entrata in scena di Armida costituisse il mirabile “a solo” d’un’“attrice consumata” (L. Caretti, Canto quarto, in T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Torino, Einaudi, 1971, p. 99). La maga è maestra nell’inscenare lo spettacolo della bellezza; nel rendersi “lieto paesaggio”, come segnalato da Getto (G. Getto, Nel mondo della «Gerusalemme», Firenze, Vallecchi, 1968, p. 194), per i famelici sguardi maschili. È allo stesso tempo occhiuta istanza di controllo, che, nel proprio castello – un po’ come Tasso stesso –, “albergatrice infida” (XIV, 50), siede “in eccelsa parte” e “senz’esser vista” “ode e vede” (VII, 36). 
Persino il paragone, nel canto XVI, con il pavone che “spiega la pompa de l’occhiute piume” (XVI, 24) evoca i cento occhi d’Argo, peculiarità femminile. È a quegli sguardi penetranti di strega che Rinaldo cerca di sfuggire nello struggente “duetto a bocca chiusa” delle ottave 42 e 43, che prelude alla scena madre d’Armida abbandonata nel medesimo canto.
Spesso, per tali personaggi, è uno sguardo differente dall’usuale a determinare l’incrinarsi di un equilibrio. 
Accade ad Argante, quando, nel XIX canto, nona ottava, “sospeso” si volge “a la cittade afflitta”, per poi abbandonarsi a meditazioni figlie di una sorta di confuso, melancolico presagio. Accade ad Armida, vittima dello sguardo “dolceridente” di Rinaldo, addormentato come Endimione. 
Al pari della Luna, la maga potrà amare narcisisticamente il giovane solo alimentando in lui il sonno della coscienza, effeminandolo, avvincendolo con reali e figurate catene floreali, cui succederanno, nella 
Conquistata, quelle adamantine con cui Araldo immobilizzerà la fattucchiera. La condanna inflitta a un’Armida irredenta, secondo l’ultima volontà di Tasso, sarà quella di contemplare nell’inazione, avvinta, come Prometeo, a una roccia, “le stelle erranti e fisse” (Gerusalemme conquistata, XIII, 71, p. 18 dell’edizione Bonfigli, Bari, Laterza, 1934, vol. 2). 
Colei che, con strategiche battaglie di sguardi, aveva brigato per assoggettare i cristiani ai vincoli del piacere era, per contrappasso, indotta a scrutare eternamente il cielo, in una contemplazione vana, come quella del poeta prigioniero a Sant’Anna, orbato perfino della pratica della scrittura...
Ma gli occhi che guardano nel poema si moltiplicano; su tutti Erminia, protagonista della teichoscopìa del III libro, angosciata osservatrice delle vicende belliche, vittima di una sorta di sindrome di Stoccolma ante litteram che la lega al gentile carceriere di un tempo.
La giovane deciderà d’indossare le vesti di Clorinda, suo doppio votato all’azione, sebbene non esente da momenti di meditativa, forse amorosa sospensione. 
Così, dapprima occhio che guarda, la sfortunata principessa diverrà oggetto degli sguardi di Alcandro e Poliferno, increduli dinnanzi alla possibilità di catturare la virgo militans. Ridestatasi nel locus amoenus, scrutata dapprima con timore dal consesso pastorale, poi accolta in un’Arcadia non dimentica di sé, Erminia continuerà a sognare, melanconicamente, che un giorno lo sguardo di Tancredi possa petrarchescamente posarsi sul suo sepolcro, in un moto di tardiva pietas.
Ma anche nell’Eden poi violato dai malfattori, uno sguardo furtivo sembrerebbe indugiare su Erminia per inferirne l’estraneità all’orizzonte bucolico: “nel moto de gli occhi e de le membra / non già di boschi abitatrice sembra” (VII, 17). 
La incontreremo nuovamente a conclusione del poema, ritornata occhio che guarda, intenta a ‘spiare la spia’, Vafrino...
Altro personaggio che ha la peculiarità di osservare non veduto le azioni del nemico come della propria pars è Solimano. La sua maledizione è quella di essere chiamato ad assistere, impotente, allo spettacolo della sconfitta e della morte: “mirar destrutto”, “con ciglio asciutto”, il proprio regno; piangere per l’uccisione dell’amato Lesbino, “quasi bel fior succiso” (IX, 85-86); scrutare impietrito, istante dopo istante, la fatale progressione del colpo destinato a porre fine alla propria stessa esistenza.
C’è tutta una fenomenologia dello sguardo nell’opera di Tasso, di cui abbiamo potuto apportare solo pochissimi esempi. Fenomenologia che si arricchisce se si considerano la vicenda biografica e gli epistolari. Nel periodo trascorso a Sant’Anna, Torquato Tasso assimilava la propria disposizione d’animo a quella del matricida Oreste. 
Scriveva, in un’epistola a Scipione Gonzaga del 15 aprile 1579, di sentirsi tormentato dai “rimorsi della coscienza” e dalla “vergogna de la perduta riputazione” (T. Tasso, Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo ed illustrate da Cesare Guasti, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1854, p. 11). 
Si giudicava persino più colpevole del rampollo atride, che era artefice di un solo, atroce delitto, a fronte delle numerose colpe che Tasso si addebitava. 
Forse proprio a questo suo volersi presentare come novello Oreste perseguitato dalle Furie è riconducibile il celebre episodio, che trascolora in leggenda, della finta morte annunciata alla sorella Cornelia per saggiare la sua fedeltà, vicenda piuttosto simile all’inganno rappresentato nell’Elettra sofoclea.
Presumibilmente non sarà mai possibile discernere le reali insidie di una corte avvezza agli intrighi dalle larve evocate di un’immaginazione inquieta, perturbata da un male dell’anima di cui non si potrà mai fornire una diagnosi inoppugnabile. 
Resterà sempre vivo il mito di un poeta frenetico, narciso, ipersensibile, dopo il trauma di S. Anna incapace di persistere a lungo nel medesimo luogo. Un po’ come quel suo Tancredi, involontario omicida dell’amata, che, disperato, nel dodicesimo canto (XII, 77) dava sfogo così al proprio dolore:

Vivrò fra i miei tormenti e le mie cure,
mie giuste furie, forsennato, errante;
paventerò l’ombre solinghe e scure
che ’l primo error mi recheranno inante,
e del sol, che scoprì le mie sventure,
a schivo et in orrore avrò il sembiante.
Temerò me medesmo; e da me stesso
sempre fuggendo, avrò me sempre appresso.

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