Il sogno di Joyce (un racconto di Goffredo De Andreis) - con nota di lettura di Cristina Simoncini

 



IL SOGNO DI JOYCE

Un sabato sera di metà giugno, James Joyce – che ha una ventina d’anni o giù di lì – mentre sta entrando al Davy Byrnes per bagnarsi il becco, tenta di rimorchiare una pollastra. Le ronza attorno, propone una pinta al pub, fa lo spiritoso.
Insomma, ci prova, ma non si accorge che nei paraggi c’è il ganzo della ragazza, un tipo irascibile, un attaccabrighe incline al pestaggio che, appena si accorge delle mire del giovane Joyce, lo stende con due cazzotti poderosi e definitivi. Potrebbe chiudersi qua, ma il tipo è una bestia e ha tracannato in eccedenza, quindi, non pago, continua a colpire con i calci, finché, di punto in bianco, come se si fosse ricordato di un appuntamento, si gira e se ne va, lasciando Joyce con due costole rotte, un polso slogato, profondi tagli agli zigomi e l’autostima sotto i piedi.
Il ragazzo Joyce rimane a terra a lungo. Il sangue gli esce dalla bocca, avrà sputato uno o più denti, probabilmente.
Non ce la fa a muoversi e nemmeno a chiedere aiuto. Di gente stesa a terra fuori dei pub, di sabato sera, ce n’è un fottio, nessuno se lo fila.
Nessuno tranne un uomo di mezza età, che prima lo guarda da lontano, poi si avvicina per valutarne le condizioni e infine decide di aiutarlo. È un buon samaritano irlandese, o almeno così lui pensa di sé stesso.
Tira su faticosamente Joyce, provocandogli una sfilza di dolori che si traducono in gemiti. Se lo carica sulle spalle e gli chiede dove abita: prima di capire la risposta, se la deve far ripetere decine di volte. Ora che lo sa può accompagnarlo a casa.
Dublino è piccola, la via dove abita Joyce non è lontana, ma ci mettono un bel po’ prima di arrivare.
Il samaritano è un uomo di mezza età, appesantito dalla vita sedentaria, che va in affanno per lo sforzo, e questo comporta numerose soste per riprendere fiato. Durante quelle pause l’uomo si mette a raccontare episodi della sua vita. Parla più che altro per attutire la fatica, e per far sentire al ragazzo la sua voce, per tenerlo sveglio e non farlo collassare. Non sta a pensare alle cose che dice, non crede che Joyce ci stia con la testa. Infatti il ragazzo non ci sta, le parole del salvatore gli giungono alle orecchie legate l’una all’altra, come un lungo nastro di frasi senza punteggiatura.
Per tutto il tragitto non dirà una parola. Anche se lo volesse, uno dei calci l’ha colpito alla mascella che gli si è incastrata, gli fa un male cane.
Il suo soccorritore si chiama Albert Hunter. È un ebreo di circa quarant’anni, di statura leggermente inferiore alla media. Se i chili non gli mancano, non è così con i capelli, che sono radi ed eccessivamente fini, e che cura con una lozione allo zolfo che infastidisce non poco Joyce, che non tarda a vomitare. Veste strano. Tiene su i pantaloni con gli straccali che porta sotto la camicia, come fossero un accessorio intimo. Dice che si occupa di pubblicità.
Per tutto il tragitto gli parlerà di sé, dei suoi rimpianti, delle frustrazioni e dei peccati di omissione, che lui considera i peggiori. Infine confida a Joyce il suo più grande malessere: ha scoperto proprio il giorno prima di essere cornuto. Becco! gli ha urlato in faccia la moglie nel corso di un alterco che come tanti all’inizio pareva irrilevante.
Quando finalmente arrivano davanti all’abitazione di Joyce, Albert Hunter sembra essersi liberato di un peso enorme, quello delle corna.
Lascia il ragazzo davanti al portone, gli sorride, gli arruffa i capelli come si fa con i piccoli, gli augura in bocca al lupo e se ne va. Non si incontreranno mai più.
Passano quindici anni e Joyce dà alle stampe un romanzo, un poema monumentale, epico, che ha come protagonista proprio Albert Hunter, il suo salvatore.
Lo raffigura come un uomo insulso, asociale, un eterosessuale con qualche tendenza opposta, e ovviamente cornuto. Gli cambia nome però, lo chiama Leopold Bloom.
Al lettore sono sufficienti appena un paio di capitoli per delineare il personaggio principale del romanzo, per accorgersi che Bloom è una trascurabile mezzasega, un fallito; e allora viene spontaneo che si chieda come mai uno così insignificante diventa il protagonista di una delle più grandi opere della narrativa del Novecento. E il lettore non se lo spiega finché, man mano che va avanti con la lettura, si rende conto che un’esistenza priva di qualsiasi interesse, piatta e banale, diventa – come accade al protagonista – lettura complicata e rilevante unicamente perché a narrarla è uno che si chiama James Joyce.
Così capiterà che quella mezzasega di Albert Hunter, per volontà dello scrittore, si trasformerà in Leopold Bloom, memorabile in ogni circostanza: all’ufficio postale, dal macellaio, in una cappella, al pub, o magari in Tyrone Street, alla porta di Bella Cohen, o meglio, alla porta del bordello di Bella Cohen: Bloom entra e si trova faccia a faccia con la donna. Bella peserà duecento chili. È una donna enorme, a malapena le si vedono gli occhi, due rossi d’uovo infossati in uno gnocco voluminoso di pasta di pane in lievitazione.
Fa un caldo terribile, l’aria sa di un misto di sperma, sudore e profumo da quattro soldi.
Bella Cohen è seduta su una poltrona rinforzata. Indossa un abito di lustrini che le lascia le braccia scoperte. La carne flaccida traballa a causa del movimento che fa per agitare un ventaglio che sembra l’orecchio di un elefante. Guarda Leopold e dice Parola mia, sudo come un camembert.
Leopold però sta pensando ad altro.
Leopold Bloom non si è fatto largo, sta in fondo a una tasca della memoria in cui Joyce non ha ancora ficcato le mani. Dalla stanza vicina un rumore lo distrae. Sua moglie Nora si è chiusa alle spalle la porta di casa.
L’appartamento in cui vivono è al secondo piano di un edificio in via Bramante 4, non lontano da san Giusto, una cucina, un ingresso, un minuscolo bagno e una camera da letto.
Nora ha detto al marito che andava a comprare le sigarette dal tabaccaio. Mentre scende le scale, pensa intensamente all’uomo che la mattina le ha venduto due metri di stoffa: ha intenzione di trasformarli in un abitino corto, quattro dita sopra al ginocchio, come va di moda a Parigi.
Per tutto il tempo che è stata nel negozio, il commesso non le ha staccato gli occhi di dosso. L’uomo ha sulle guance un’ombra di barba scura, come di chi non si è rasato dalla mattina del giorno prima, e a lei è venuta voglia di togliere quel velo di trasparenza opaca con la lingua.
Passa davanti alla rivendita di tabacchi e tira avanti.
Anche il marito si è chiuso alle spalle la porta, lo ha fatto appena ha sentito Nora uscire di casa. L’ha seguita e si è fermato a guardarla dal portone, aspetta che lei giri l’angolo per prendere la direzione opposta.
Fa caldo, l’aria di fine giugno è greve come il fiato di una bocca marcia. Il cielo basso e plumbeo staziona a un paio di centimetri sopra la testa dei triestini, che camminano chini per non sbatterci contro. Ci vorrebbe un soffio di quel loro vento incalzante per ripulirlo e tinteggiarlo di azzurro. Invece non si respira.
Dopo poche centinaia di metri, Joyce entra in una bettola impregnata di fumo, di frastuoni che stordiscono, di vapori caldi e aliti alcolici. Trova un tavolo, si siede. Il cantiniere, che lo conosce, gli mette davanti un bicchiere di opolo, un vino carsico rosato, secco, apparentemente moderato, invece è di quelli che tagliano le gambe.
Non è un buon giorno per bere, pensa Joyce, che ha nella testa Nora, o forse lo è proprio per questo. Di certo il vino lo indirizza lungo un cammino a ritroso che si compie in un battito di ciglia. Si rivede a terra con il naso ammaccato, gli occhi pesti e le ossa rotte. Anche il suo corpo inizia a ricordare, comincia a fargli male e a dargli qualche suggerimento su ciò che deve fare.
Sono passati dieci anni da quando l’ebreo l’ha aiutato caricandoselo sulle spalle per trasportarlo fino a casa.
Risente la voce del samaritano, le vicende che gli aveva raccontato per tenerlo sveglio, il resoconto di come la moglie lo tradiva, i peccati di omissione: cose intime che si dicono a chi non si rivedrà mai più.
L’ultimo bicchiere di vino arriva sul dodicesimo rintocco della mezzanotte. Il passaggio dal vecchio al nuovo giorno lo distoglie dai ricordi. Si è appena entrati nel ventottesimo del sesto mese dell’anno. Joyce pensa sia un giorno come un altro, ma non è così: tra poco, a seicento chilometri di distanza, in direzione sud-est, l’Arciduca erede al trono d'Austria-Ungheria sta per essere assassinato. È un gran cambiamento quello in arrivo.
Quando lascia l’osteria procede con passi malfermi. Ha bisogno di respirare aria pulita, magari anche di fumarsi una sigaretta. Non gli va di rientrare a casa, di incontrare Nora. Vorrebbe raggiungere il grande molo, ma non per il percorso più breve. Gironzola per i vicoli che, nonostante l’ora, non sono deserti come si potrebbe credere. Qualcuno lo saluta senza ricevere risposta.
Vagando in quell’intrico di viuzze si imbatte nel Metro Cubo, un bordello di terza categoria così angusto che se vuoi farti una scopata la devi fare in piedi. Entra.
Tornato a casa, trova Nora che dorme nuda sopra le lenzuola. Ha scoperto che lo tradisce, chissà se oggi lo ha fatto con lo stesso amante di ieri.
È tutta la sera che non fa altro che pensare ad Albert Hunter. Vorrebbe fare come l’ebreo che se lo era caricato sulle spalle, percorrere la via crucis e raccontare la propria sconfitta, la più amara, quella che non prevede il riscatto. Vorrebbe togliersi il peso, mettersi a nudo, dichiararsi colpevole, ma non c’è nessun ragazzo sanguinante da soccorrere.
Pensa per un attimo di buttarsi sul letto accanto a Nora; invece, dopo aver messo il bricco del caffè sulla fiamma, raduna tutti i fogli di carta che riesce a trovare in casa, spegne il fuoco sotto la cuccuma, versa la bevanda in una tazza sbeccata e va a sedersi al tavolo di cucina.
Da lì, piegando la testa da un lato, riesce a vedere Nora.
La moglie, tonificata dal sonno profondo, appare ignara di ciò che le sta accadendo intorno. Joyce la guarda, si sofferma sulle cosce piene, sui peli pubici, sulle unghie dipinte dei piedi.
Se ne sta lì per qualche secondo a contemplare la sua rivelazione. Poi si gira verso i fogli e inizia a scrivere l’Ulisse.

Goffredo De Andreis


NOTA DI LETTURA
di Cristina Simoncini

Ho conosciuto Goffredo De Andreis diversi anni fa, attraverso Facebook. Quello che scriveva nei suoi post mi piaceva un sacco, sapeva stare in equilibrio tra leggerezza, invenzione, conoscenza dei grandi classici della letteratura, ironia, irriverenza e molte altre cose. Il suo linguaggio era originale. Sapeva guardare il mondo. 
Così ho letto un suo libro, “Viale Carso. La panchina delle riserve”, l’ho trovato poetico e denso di vissuti, di passanti che lasciano il segno, niente di preconfezionato: divertente e umanissimo. 
Goffredo è anche poeta, ma l’ho saputo solo un anno fa, quando ho ricevuto in dono un suo vecchio libro (aveva pubblicato sue poesie su Atelier e in alcune raccolte importanti). Un autore che non si è mai sperticato, insomma.
Ciò che mi stupisce di Goffredo è la ricchezza immaginativa, una qualità che va scomparendo dalla scrittura e dalla poesia. La domanda più frequente che mi capita di fargli è “Goffré, ma come ti è venuta in mente questa roba qua?”. Non è politicamente corretto, Goffredo, la categoria di autenticità gli calza a pennello, da qualsiasi lato lo si guardi.
Questo racconto è tratto da un suo libro inedito – Il sorriso della mangusta – che mi ha tenuto compagnia negli anni passati, quando era in costruzione, e che ho amato da subito. Per il tema, che trovo geniale: racconta di una particolare storia d’amore, nelle parole dell’autore è “il diario della storia sconosciuta tra Albert Camus e mia madre”. Alla fine non saprei dire se la storia ci sia stata o no, ma trovo necessario crederlo. Questo è il libro che, secondo me, contiene Goffredo per intero, la sua passione per i grandi del pensiero, per la politica, per il gioco linguistico e l’ironia, la sua capacità di riportare la letteratura verso il basso, a incontrare la vita. Un sogno che condividiamo. E poi c’è il suo senso della famiglia, radicato tanto da far nascere una figura paterna straordinaria laddove è mancata, sostituita da altro di solido e mirabile. Di vitale.
Il racconto in questione parla di Joyce attraverso una storia che si intreccia all’aneddoto e al senso che l’autore prova a scovarci, al confine fra letteratura e vita.
Camminiamo sugli stessi confini, io e Goffredo, per questo ci vogliamo bene. Spero, un giorno, di vedere pubblicato l’intero libro.

NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE

Goffredo De Andreis è nato a Roma nel 1948. Ha lavorato per circa quarant’anni nel settore delle Telecomunicazioni occupandosi in prevalenza di pubblicità, comunicazione ed editoria aziendale. La sua passione per la scrittura è iniziata verso la metà degli anni Settanta con la produzione di versi, alcuni dei quali pubblicati su riviste nazionali ed internazionali di poesia, raccolti successivamente nel volume Camera a fisarmonica, stampato da Zona Editrice. Nel 2018 ha pubblicato “Viale Carso. La panchina delle riserve” stampato da Fuorilinea Edizioni. Colleziona e ama in particolare le piante succulente, la musica jazz e i libri. Ma anche il cibo e il buon vino: da oltre quindici anni collabora con Slow Food nella realizzazione della Guida alle Osterie d’Italia.
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Cristina Simoncini è nata a San Giovanni Valdarno nel 1966. Ha pubblicato i suoi testi su riviste e blog, Il foglio clandestino, Avamposto, Le Parole di Fedro, Atelier eccetera. Si occupa, quando possibile, delle scritture degli altri. Ha appena pubblicato la sua prima raccolta, dal titolo Linea di mira, con Pietre Vive Editore.


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