(Redazione) - Dissolvenze - 05 Chiudi gli occhi e apri la bocca (su Henry Hargreaves)

 

A cura di Arianna Bonino
A volte si fa per scherzare, s’immaginano cose, si gioca. Quando ero piccola – e lo sono stata in compagnia di un fratello gemello e di uno più grande di solo un anno e mezzo – durante i viaggi in macchina, con noi tre stipati sul sedile posteriore di una Ford Escort carta da zucchero, pronti a generare liti furiose e a darcele a sangue come solo i bambini e gli animali sanno fare, mia madre cercava di differire il climax della violenza fratricida proponendoci giochi che non potevano essere altro che competizioni, il che pertanto se da un lato ci distraeva momentaneamente dall’ammazzarci, dall’altro alimentava l’odio reciproco e predisponeva ad un escalation furiosa, che puntualmente sfociava in pianti lacrime, graffi e sberle poco fraterne e nella consueta sosta in autogrill per separarci l’uno dall’altra, farci lavare il viso paonazzo dalle lacrime e fare pipì, già che c’eravamo. 
Quelli che proponeva mia madre erano giochi di parole e d’immaginazione: “tutti gli animali che iniziano con la F”, “nomi di pietanze con la N”, “nomi propri di persona con la B”, oppure erano le storie inconsapevolmente dadaiste che creavamo una frase ciascuno, a turno, e che iniziavano con “C’era una volta” per perdersi poi in un futuro immaginario traboccante di asteroidi, satelliti e navicelle spaziali. In mezzo a quei giochi, ogni tanto c’era il “Se fossi”, che era il meno gioco di tutti, ma forse quello che mi piaceva di più. “Se fossi una città, quale saresti?”, e “Se fossi un albero?” e “Se dovessi fare un viaggio e potessi portare con te solo una cosa, cosa porteresti?”

Ecco, quando si dice: il condizionale. Sì, perché qui, giocando al “Se fosse”, si sa che si dice tanto per dire, che è un’ipotesi, che comunque non si è davvero obbligati a scegliere, a privilegiare qualcosa rinunciando a tutto il resto, tantomeno per sempre. Eppure c’è chi questa scelta è chiamato a farla sul serio e senza condizionale: sono i condannati a morte a cui si domanda cosa vogliano nel vassoio della loro ultima cena.
Quella dell’ultimo pasto non è una tradizione estinta. Ci sono ancora diversi paesi dove, con dovuti limiti, è prassi permettere a chi è giunto al termine della sua vita terrena di indicare pietanze e bevande dell’ultima volta. È un’usanza dura a morire, come la stessa pena di morte.
Perché se è vero che ormai da tempo il cerimoniale della pena e dell’esecuzione ha perso il suo carattere di spettacolarizzazione, come ci insegna Foucault in “Sorvegliare e punire” (1) e si è ritirato dalla pubblica piazza, questo discorso non vale per i numerosi paesi USA dove l’esecuzione della condanna permette, anzi richiede la presenza di un pubblico. 
Per esempio, in Arkansas la legge (2)  stabilisce che ad ogni esecuzione debbano assistere almeno sei persone senza rapporti di parentela con la vittima o con lo stesso autore del crimine. Lo scopo è ovviamente che possano testimoniare che tutto si è svolto in modo conforme e regolare. Ce ne sono di volontari che si candidano a tale ruolo di spettatori: basta essere residenti in Arkansas, non avere precedenti penali e, naturalmente, essere “cittadini rispettabili”, il che non ho ben idea di come si verifichi, ma tant’è. 
Chi si candida deve anche indicare il motivo per il quale vorrebbe assistere all’esecuzione capitale, anche se questo non ha mai fatto la differenza e con ciò intendo che non risulta sia mai stato determinante per respingere una candidatura. L’Arkansas è solo un esempio, considerando che dei 38 stati americani dove vige la pena di morte, sono una dozzina quelli dove è prevista la necessità di un pubblico tra le condizioni per rendere legale l’esecuzione.
Mississippi, Arizona, Florida, Pennsylvania, Missouri, Virginia sono solo alcuni degli stati dove ci sono cittadini rispettabili che decidono di voler vedere l’esecuzione dei condannati. Si tratta di frequente di studenti di criminologia o ex poliziotti, ma anche di persone che fanno altro. In questi stati americani allora l’esecuzione non ha perso, anzi si esprime proprio nella sua cifra arcaica di messa in scena, di spettacolo, di rappresentazione, dove il gruppo dei testimoni, campione della collettività, si raduna per assistere e anche in un certo senso partecipare a qualcosa che esprime quella verticalità del potere la cui massima manifestazione è proprio l’esecuzione capitale. Proprio così come accadeva alla popolazione che si raccoglieva attorno al palco ne “La lettera scarlatta” (3), che si apre proprio descrivendo quel palco che è centro, spazio pubblico dove avvengono le cose di tutti, dai proclami ai processi alle esecuzioni:
«Una folla d’uomini barbuti, dagli abiti scuri e dai grigi cappelloni a punta, e di donne in cappuccio o a testa nuda, stava raccolta davanti a un edificio di legno, la cui porta di quercia massiccia era guarnita con bulloni di ferro».

Palco che quindi è anche luogo del supplizio, dispositivo narrativo e di deterrenza se è appunto teatro, messa in scena pubblica, spettacolo: quindi se è visto.
Ma mentre in Europa con l’inizio del XIX secolo scompare “il grande spettacolo della punizione fisica; si nasconde il corpo del suppliziato; si esclude dal castigo l’esposizione della sofferenza; si entra nell’età della sobrietà punitiva” dato che “la pena non è più centrata sul supplizio come tecnica per far soffrire e ha preso come oggetto principale la perdita di un bene o di un diritto”, la stessa cosa non si può dire per l’America, dove, come detto, a tutt’oggi in più stati sia l’intera fase del processo che l’esecuzione della condanna sono pubblici, visti, esposti, dove la messa in scena è ancora dotata di una valenza culturale.
Cosa resta allora al condannato americano di privato, di intimo, di non spettacolarizzabile? Dovrebbe proprio essere il momento di quell’ultima cena, del pasto di qualcosa che - una et ultima tantum - il condannato ha potuto liberamente scegliere e privatamente consumare.

Scegliere, così come potrà liberamente scegliere se abbuffarsi o avanzare qualcosa, magari tutto. Il secondino va da lui come sempre, anzi come mai prima e come non potrà mai più fare dopo e prende nota dei desideri alimentari. C’è da  chiedersi cosa mai guiderà quella scelta, se il condannato in quel momento guarda avanti, a come vorrà farsi trovare quando renderà l’anima a Dio, o se invece il suo sguardo si volga a quel che non ha avuto mai o mai più dal momento in cui la sua condanna è iniziata, con tutte le privazioni che anni e anni di carcere comportano. Forse si potrebbe capire cosa passa per la testa di un condannato a morte se solo si potesse vedere quel vassoio, cosa ci ha voluto far mettere dentro, quali cibi, quanti e cosa ha deciso di farne. 
Può darsi che sia quest’interrogativo ad aver spinto Henry Hargreaves a fare quello che ha fatto. È nato e cresciuto in Nuova Zelanda, dove ha studiato tutto fuorché fotografia. La macchina fotografica l’ha vista inizialmente dall’altra parte dell’obiettivo, dato che era lui il fotomodello in posa. Ma a un certo punto ha sentito il desiderio di guardare attraverso l’obiettivo e lo ha puntato non su cose a caso, ma su un’altra delle sue passioni: il cibo. Ora, ciascuno ha i suoi gusti, le sue preferenze, il suo modo di mangiare, le sue predilezioni e forse quando col naso in un menù puntiamo il dito proprio su un'amatriciana, su un cheeseburger o un filetto alla Wellington non è solo un fatto di papille gustative; può essere che quel bucatino o quel fegato alla veneziana dicano qualcosa di noi. Il cibo lo ama e lo fotografa e lo fotografa in varie “salse”, diciamo così. Ci gioca e lo fa molto seriamente. Nella serie “Fallout of the food System” per esempio, fotografa funghi veri ma che sembrano mimare esplosioni atomiche e si chiede in tal modo come la minaccia del nucleare potrebbe impattare sul sistema alimentare globale
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Nella serie “Condiment Illusion” invece fotografa figure geometriche alla Escher disegnate però a chiaroscuri con majonese, senape e ketchup:
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C’è poi “Birthday that will never come”, dove Harveagres fotografa torte di compleanno vere, ma che nessuno ha mai realmente potuto ordinare per festeggiare, perché sono dedicate a bambini i cui nomi non sono accettati all’anagrafe in Nuova Zelanda e per i quali i genitori hanno dovuto scegliere altro:
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Ma la serie di Hargreaves che mi ha fatto decidere di scrivere questo pezzo è un’altra. Si chiama “No Seconds” e ritrae vassoi sui quali si vede l’ultimo pasto di alcuni condannati a morte americani, che hanno potuto scegliere cosa mangiare prima di passare a miglior vita. Non si tratta tuttavia dei vassoi autentici: questo non è stato possibile, come è facile comprendere. Sono però vassoi che riproducono il vero, l’autentico ultimo pasto dei condannati a morte su cui si è puntata l’attenzione di Hargraves Ed ecco che sappiamo che il noto serial killer Ted Bundy, prima di finire sulla sedia elettrica, rinunciò a pietanze speciali e ricevette l’ultima cena tradizionale in Florida, a base di bistecca, uova al tegame, frittelle di patate, toast imburrati, spremuta, marmellata.
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Invece Timothy James McVeigh, ex ufficiale della guerra del Golfo condannato per l’attentato che il 19 aprile del 1995 uccise 168 persone ad Oklahoma City, prima dell’iniezione letale ordinò e consumò due pinte di gelato menta e cioccolato:
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Una semplice oliva fu l’ultimo pasto di Victor Feuger, che trascorse in totale silenzio i dieci giorni precedenti l’esecuzione per impiccagione, eseguita il 15 marzo del 1963, dopo che Kennedy respinse la richiesta di grazia, data l’efferatezza dell’omicidio di cui si era macchiato.
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Se da un lato viene così soddisfatta un’innegabile curiosità, è anche vero che l’operazione di Hargreaves viola in qualche modo l’ultimo barlume di riservatezza che è il pasto, momento intimo e privato, lontano dai riflettori, almeno quello, a differenza di processo, interrogatori, condanna ed esecuzione. Ma Hargreaves fa qualcosa di più, perché quel vassoio, quel piatto non sono quelli veri, sono la messa in scena dell’ultimo pasto, una messa in scena che fa da contraltare a quella dell’esecuzione ed è così che anche il pasto, la cosa più intima e privata, l’ultima cosa privata di un condannato a morte, si fa materia narrativa e assumono quella valenza teatrale che è evento creato in funzione dello spettatore che guarda, in funzione di noi che scrutiamo in quel piatto, come a scandagliare il fondo del condannato, in una sorta di pornografia dell’ultimo desiderio, del boccone con cui ci si consegna al boia.
È stato chiesto a Hargreaves cosa vorrebbe trovare nel suo vassoio, se si trattasse del suo ultimo pasto. Ha risposto che non riuscirebbe a “digerire” nulla sapendo di dover morire. Ecco, lui è uno di quelli che ordinerebbe pensando a come presentarsi al cospetto dell’ultimo giudice, l’unico che conta davvero.
Io non riesco ancora a rispondere a questa domanda, è difficile. Non è come quando giocavo al “se fossi” sul sedile posteriore di quella Escort azzurra, tra un pianto e una risata, litigando tra fratelli. Non riesco a fare questo gioco.
E tu invece cosa mangeresti se dovessi decidere con quale sapore andartene per sempre? Cosa vorresti sentire tra lingua e palato, mentre chiudi gli occhi e vai verso un dove che non si sa cosa sia, non si sa se c’è qualcuno là che ti aspetta, quanto durerà il viaggio e se davvero, alla fine di tutto, c’è un posto da qualche parte dove potrai prendere una fragola, sporcarla di panna e sentire ancora una volta il suo sapore, magari per sempre, magari come fosse di nuovo la prima volta.
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NOTE
(1) Michel Foucault “Sorvegliare e punire”, Einaudi 2014
(2) Per un riferimento normativo cliccare qui
(3) Nathaniel Hawthorne “La lettera scarlatta”, Einaudi 1982 


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