A proposito di Giorgio Simonotti Manacorda - di Raffaele Floris

 
Raffaele Floris

Giorgio Simonotti Manacorda, (1915-1971), è uno dei tanti poeti ingiustamente dimenticati del ‘900 italiano. Figlio del forse più noto Oreste (il Sire di Villabella, luogo tuttavia inapprezzabile come la ventilazione di Sandro Ciotti), ingegnere, Grand’Ufficiale e presidente del Casale Calcio, nonché, per un biennio, dell’Ambrosiana Inter, di Giorgio non si avrebbero molte notizie né su Wikipedia né su Wikipoesia, almeno sino al 2020, anno in cui chi scrive propose questo articolo all’International Web Post (che sentitamente ringraziamo per la gentile concessione), ora rieditato per Le Parole di Fedro.

Giorgio Simonotti Manacorda

Ci soccorse e continua a soccorrerci, per nostra fortuna, la meritoria tesi di laurea di Chiara Olivero, (Casale M.to, 1980) che ringraziamo. Giorgio Simonotti Manacorda nacque a Milano nel 1915, trascorse un’infanzia dorata nella splendida villa di famiglia, viaggiando anche all’estero in compagnia del padre. La madre Vittoria fu una gran dama post-Liberty, proveniente dall’antica famiglia Manacorda (quindi, per inciso, Giorgio Simonotti Manacorda è da considerarsi anche
nom de plume). Nel 1944-45 partecipò alla resistenza con la qualifica di Partigiano combattente. Sempre nel ’44 fu arrestato e detenuto prima a Villa Trieste e poi a San Vittore, dove subì torture delle quali non parlò mai pubblicamente, rimanendone tuttavia profondamente segnato. Sposatosi nel 1945 (Marcella, sua moglie, era una persona semplice ma di carattere), ebbe un figlio, Oreste (1956 – 2003). Frequentò il Blu bar, un ritrovo letterario milanese dove conobbe Carlo Bo, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni, Luciano Erba. Più tardi, tornato a Villabella, nella splendida ma ormai decadente villa di famiglia conseguì nel 1965 la laurea in Lettere presso l’Università Statale di Milano, con una tesi su Giovanni Camerana. Di Luciano Erba fu amico personale, come pure di Piero Chiara, spesso da lui ospitati a Villabella e accompagnati a comperar miele e a discutere di cose culturali a Cascine Pinte di Santa Maria del Tempio (una frazione di Casale Monferrato), godendo la squisita ospitalità del cavalier Paolo Ferraro, la cui tenuta, frequentata da personalità della cultura e della politica, fu ribattezzata “Venezuela” dall’assiduo e sempre in bolletta scrittore Piero Ravasengal’avucàt dal Burgh (altra figura che sarebbe bene riscoprire, NdA). Dopo la morte della madre si dedicò, più per necessità che per passione, all’insegnamento presso la scuola media di Candia Lomellina (PV) e successivamente all’Istituto Commerciale Jaffe di Casale Monferrato. Il figlio Oreste, scomparso prematuramente come già accennato, fu anch’egli poeta e pubblicò, nel 1988, una silloge, Disabitare, ora probabilmente introvabile, per i tipi delle edizioni Arzanà di Torino.
Un’analisi critica, sia pure parziale, dell’opera di Giorgio Simonotti Manacorda è ora reperibile on line al seguente link: (l’articolo è del 2023).

Negli anni Cinquanta si costituì un circolo di scrittori, poeti e critici che si riunivano nel milanese Blu Bar” in piazza Filippo Meda: c’erano, tra gli altri, Luciano Erba, Vittorio Sereni e Piero Chiara; avrebbero prodotto saggi teorici e testi poetici ascrivibili a una corrente letteraria del Secondo Novecento nota come “Linea Lombarda”, termine derivante dal titolo che Luciano Anceschi diede a un’antologia pubblicata nel 1952, che includeva editi ed inediti di Vittorio Sereni, Roberto Rebora, Giorgio Orelli, Nelo Risi, Renzo Modesti e Luciano Erba.
Autori uniti, oltre che da un’appartenenza geografica nordico-lacustre, da un’attenzione ai rapporti tra poesia e realtà, definita da Anceschi come poetica degli oggetti, poesia in re Tra l’altro, essi «operano la corrosione dall’interno dei modi di vita, della mentalità e della cultura borghese, per una disperazione più o meno evidente che li porta a distruggere, con le armi dell’ironia e della corrosione del linguaggio borghese, i miti di quel mondo dal quale vorrebbero chiamarsi fuori».

È ascrivibile alla Linea Lombarda anche la produzione poetica di Giorgio Simonotti Manacorda, caratterizzata da «un’ironia incantata, preziosa e allusiva come una luce lunare che insieme svela e nasconde un paesaggio corroso, arido, amaro, ma percorso da favolose, ilari figure».”
La figura di Simonotti non è secondaria rispetto a un altro grande, Gennaro Pessini - Castelnuovo Scrivia (AL), 1941-1989 - su cui potremmo soffermarci in altra occasione. Una poesia tratta da I banchi di Terranova di Giorgio Simonotti Manacorda (Giulio Einaudi Editore, 1967), fu meritoriamente pubblicata sul sito www.larecherche.it.

Altrove il nulla. Almeno sino a questo momento.

Raffaele Floris (per gentile concessione International Web Post)

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L’anima del vino

È l'anima del vino che ritorna
nelle sere d'ottobre
quando nel fuoco danzano i folletti
batte alla porta il vento
come un brigante un vecchio bracconiere.
E tu l'accogli come i sogni
di frodo al fondo dei bicchieri:
è il grande amico è l'avventura
sulla spiaggia battuta di libeccio,
non rinchiuderlo l'uscio
appare la fanciulla in giustacuore
la favola vissuta e non ridetta mai.
Anche torna il dolore
(le bottiglie stanno laggiù
come soldati pazienti allineati
nelle trincee degli anni)
adagio si alimenta dentro l'anima
e si decanta illimpidisce
di scorie, non rimane che l'essenza
del puro sentimento il fiore.
Non contarli i bicchieri
senti il grido sottile degli aironi
(se ne vanno sul filo del fiume
e tu con essi ne hai la grazia
inconsapevole l'istinto
sei nuvola alto fiuto sospeso),
lascia la nebbia che si impigli
nei tralci deserti del cuore.
E' questa l'anima del vino
è il sole sprigionato di un ottobre
il tempo che fu di tua madre
che ai dolci clivi sbocciava
ragazza in fiore; stasera
nel tempio dell'anima
sui muri che ondulano le ombre
ritornano quelle tue sere
padane persuase nel sonno.
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I banchi di Terranova

I ponti bluastri di neon
(respira dentro l'alba il neon
alito rado immoto)
già vanno le stazioni invisibili
le voci strascicate di sonno
(antichi dialettali accenti l'infanzia
dei treni... Terrasa... Terrranova..)
si salpa verso i banchi di nebbia
di pesca delle secche cimitero di navi;
la nebbia, e ne saremo statue
a queste soglie consumate di giorni.

Negli odori di fumo la primula
fiorisce la ragazza
che ha in bocca la magnolia,
dentro le rogge la nuvola sospesa
la secca trama di pioppi sul filo
si allontana del tempo... Terranova...Terranova.

Candia nel tuo giro disseccato di canali
il bilancino vola dei giorni
(nelle pozze diguazzano pesci e ragazzi),
qui mi prende il mio tempo,
d'acqua mi faccio di fiume e dei palustri
uccelli sono il grido
che ripiana i greti.
Al vento sulle pensiline di pioggia
un po' di cielo trascorre, la bandierina
rossa dolcemente si accheta,
la campanella ti accompagna di là.
Il ferroviere è chino sulla primula
l'ora ritorna
pigra distratta nel fondo alla pupilla
hai lontananze d'infinito
ragazza di magnolia.
Trema dentro le fibre
la vecchia littorina che vide
i baraccani oscillanti i miraggi
la bionda galoppata di gazzelle.
“A Terrasa i viaggiatori
sono ammessi senza supplemento
a munirsi di biglietto in treno”,
dice il cartello,
qui non si allacciano cinture
qui la rete dei fossati si ripassa
nel bianco grido del tempo.
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Tu non conosci i viali

Tu non conosci i viali
di una stagione spenta,
(l'aria che sa di mandarini,
le soglie inglesi delle pensioni).
Vano fu il vischio,
il Natale coi cappelli di carta
e Dio salvi il Re.
Ignori queste cose,
antiche, ingenue,
nelle quali credemmo.
Fummo insipienti,
noi ragazzi degli anni venti,
con l'Europa franammo,
ed ora accanto a te
come riprendere il passo?

Se vuoi, le getteremo queste cose
e l'ingombro del cuore,
il tempo trastullato
sulle sedie di ferro
ad ascoltare la banda colorita
i mattini domenicali,
le speranze pazze falciate,
noi ragazzi insipienti
degli anni venti
e uomini, tragicamente,
agli anni quaranta.
Ma come e quando mai
potremo accanto a te
riprendere il passo?
Reclute vecchie saremo,
d'un colpo sbiancate,
facile preda gioco ai sergenti.
Tu che porti negli occhi
rosari di neon ed il sorriso è
freddo orlo di jazz,
altro chiedi, lo so.
La filigrana di ieri è spenta.
Noi sappiamo donare
gli ultimi fiori alle ragazze,
noi con le nostre radici
che stanno giù coi morti.
Ma il tempo è poco
ed i giardini immensi.
Arriveremo tardi ancora
(le nostre deplorevoli abitudini)
addio, addio, altra è la vita
le nuove radici del tempo.
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