(Redazione) - Dissolvenze - 28 - Dopo la mia morte

 
A cura di Arianna Bonino



Michel Leiris, nell’omonimo saggio che gli ha dedicato, di lui scrive: “Roussel non ha mai viaggiato nel senso proprio della parola. Con ogni probabilità infatti non vestì mai i panni del turista, l'esterno non intaccò mai l'universo che portava in sé e di tutti i paesi che visitò vide soltanto quello che aveva sognato di vederci, elementi in perfetta corrispondenza con quell'universo che gli era proprio. Il suo viaggio a Tahiti non fu nient'altro che un pellegrinaggio alla tomba dell'eroina di Pierre Loti; la Persia gli ricordava le operette che amava e i costumi dei suoi abitanti lo facevano pensare ai travestimenti della Gaîté. Collocando l'immaginario al di sopra di tutto, più che dalla Realtà sembra sia stato attratto da tutto ciò che era teatro, inganno e falsa apparenza.[...] Come tutti i grandi poeti, anche Roussel, che più di chiunque altro dovette sentirsi solo al mondo, si portava dietro ovunque il suo corteo di angeli e di demoni: ossessione per gli astri, amore del lusso e delle comodità, attrazione infantile per i dolciumi, mania per le glorie consacrate, le meraviglie classificate e i nomi del Gotha, incubo dell'invecchiamento e della morte, nostalgia della sua prima infanzia e quell'irriducibile angoscia che lo coglieva soltanto sotto le gallerie. Ovunque fosse, si ritrovava sempre identico a se stesso, con le sue abitudini, le sue manie ed il rimpianto per i primi anni di vita, un bagaglio che era obbligato a portare con sé, proprio come la madre si era portata dietro la bara durante il viaggio nelle Indie.
Come fece con la roulotte, Roussel viaggio "senza abbandonare un solo giorno la propria casa", quella - terribile e sontuosa - che il suo immutabile tormento interiore costruiva per lui in qualsiasi luogo si trovasse.”(1)
È vero: nato a Parigi nel 1877, autore di quel rompicapo incantevole che è “Locus Solus(2), romanzo in cui raggiunge l’apice dell’esuberanza acrobatica che distingue la sintassi di ogni sua opera, Raymond Roussel non ha mai veramente intrapreso un viaggio da turista, una crociera oceanica o glaciale, o magari un grand tour dedicato a risalire archeologiche sorgenti, così come ha evitato accuratamente di addentrarsi in luoghi esotici, magari inerpicandosi su pareti scoscese alla ricerca dell’orizzonte perfetto e, altrettanto, si è tenuto ben lontano da percorsi equatoriali lussureggianti di cupo fogliame e osceni intrichi radicali.
Cresciuto nell’agiatezza e nel lusso della dimora parigina degli ChampsElysées, ebbe un’infanzia che molti definiscono proustiana (si noti che di Proust Roussel è quasi coetaneo, così come ebbero conoscenze comuni, ma non esiste al mondo una coppia di autori più distanti, considerando che Roussel non aveva praticamente vita sociale, “non frequentava” alcun ambiente, alcun salotto, se non quello della sua villa di Neuilly, dove si era rinchiuso in un incantato isolamento).
Roussel, intrapresi gli studi di musica al Conservatorio, esordisce nel mondo letterario a vent’anni, con la pubblicazione dell’insolito romanzo in versi “La doublure(3) (“il doppio”; letteralmente: “doppiatura”): un poema composto da 5.586 versi alessandrini dalla trama esile e “inutile”, mero espediente giocato sulla finzione, sulle fodere del reale, sul doppio e sui doppifondi e la loro fuggevole significanza; una prosa in versi o, volendo, un poema prosastico, privato di ogni pathos: è il gioco del linguaggio a generare gli eventi stessi di cui raccontare, bastandosi in sé, originando da sé il motivo del narrare o, meglio ancora, del descrivere (tre quarti del poema sono dedicati alla descrizione del carnevale di Nizza, non allo sviluppo di una “trama”, di una storia vera e propria).
La scelta del verso tragico per eccellenza, l’alessandrino, è quindi una provocatoria dichiarazione d’intenti. Come dire: è il linguaggio a generare l’ispirazione, non il contrario: eccola la poesia, senza bisogno di battiti, di cuore, di sentimenti.
Il fiasco è totale quanto inatteso (Roussel tutto s’aspettava tranne un insuccesso del genere, se solo si pensa a quanto scrive in merito al suo stato d’animo nel corso della stesura di “Doublure”: “Si sente, da qualche cosa di particolare, che si è fatto un capolavoro, che si è un prodigio; vi sono dei bambini prodigio che si sono rivelati a otto anni, io mi sono rivelato a diciannove anni […] sentivo la gloria…”).
Roussel cade in un profondissimo stato depressivo che somatizza anche in una forma di dermatite, oltre che in comportamenti sempre più eccentrici e ossessivi. Questo stato di cose contribuisce alla sua determinazione nel rafforzare le barricate sociali e fisiche poste a presidio della propria inaccessibilità, tanto desiderata quanto fragile e vulnerabile, pronta a cedere per effetto anche di un solo dissenso, di una minima e larvata critica di chicchessìa.
Lo stato patologico viene presto acuito dall’abuso di farmaci e droghe che, da questo momento, accompagneranno Roussel per tutta la vita (e avranno ruolo centrale, insieme a una donna, nella sua misteriosa morte).
Roussel, quindi, che pure ha viaggiato moltissimo, lo ha sempre fatto rimanendo protetto ovunque dalla sua capsula spaziale su ruote, una roulotte attrezzata di tutto, che gli permetteva di essere in tutti luoghi e in realtà in nessuno, o meglio, sempre e solo nel suo luogo, o, davvero, sempre fuori luogo, nella sua monade protettiva, trasparente come una paradossale bolla di vetro antiproiettile.
Tutti i suoi testi successivi all’esordio paiono orientati a voler restituire gloria all’incompreso “La doublure”, senza riuscirci mai pienamente, considerando quanto ancora oggi sia poco frequentata la letteratura di questo difficile prestigiatore, anzi ipnotista, della sintassi.
Il suo più noto romanzo, "Locus Solus" ha come protagonista Martial Canterel, stravagante scienziato e inventore (e cos’è Roussel se non uno scienziato e inventore del linguaggio?) che apre – come si dischiude il romanzo stesso – i cancelli del giardino della sua villa di Montmorency ad alcuni visitatori; questi, attraverso una passeggiata labirintica e surreale, s’imbatteranno in oggetti e creazioni scientifiche senza funzione, fini a se stessi, e in ciò bastanti, marchingegni e automazioni fantastiche che Canterel/Roussel descriverà con un linguaggio a sua volta mesmerizzante e spiraliforme, sempre mobile, eppure mai in transito verso una meta definita, piuttosto andante in circolo, pur se con digressioni ondivaghe nel suo percorso avviluppante.
Locus Solus” è una lanterna magica, gnommero di garbugli e gomitoli, che si creano come da sé nel corso della narrazione, rivoli di linguaggio, un bivio dopo l'altro, in un ambiente misterioso e magnetico come un corridoio curvo su cui si spalancano porte e porticine, costellato di botole nascoste, anfratti della memoria, boules de neige che racchiudono e disvelano mondi in miniatura, dove, guardando con la giusta lente d’ingrandimento, inventata da Canterel, si vedono apparire altre boule di neige, che ne contengono altre, in più minuta miniatura. E forse è proprio questo l’unico modo di godere Roussel: lasciarsi dominare dai riverberi, da questa gibigianna di riflessi, vedendoci quello che s’immagina e, magari, non scorgendovi quello che invece c’è veramente, ma senza con ciò farsene un cruccio.


Che il meccanismo letterario sia complesso e complicato come un orologio meraviglioso d'altronde lo si capisce anche dai suggerimenti di lettura di Roussel che, in merito ad un altro suo scritto “Impressioni d’Africa” (4), invita a iniziare non dalla prima pagina, bensì dalla duecentododicesima…


Ma ora, più di tutti gli enigmi disseminati (o sono solo abbagli?) tra le pagine di Roussel, vorrei poter chiudere gli occhi e materializzarmi in un preciso luogo e momento della vita "reale" di Roussel, per sapere cosa veramente accadde quella notte a Palermo.
Il luogo in questione è un hotel dal nome deliziosamente rassicurante e insieme vintage quanto basta per dare una patina seppiata a tutta la vicenda: "Grand Hotel Le Palme". È in questo luogo, non a casa sua, che Raymond Roussel muore il 14 luglio 1933.
Però c’è qualcosa che non torna in questa morte.

E nessuno meglio di Sciascia indagò con tale solerzia e determinazione sulla vicenda, nel tentativo di dipanare il buco nero che rappresenta quella notte (o forse era già il crepuscolo mattutino?). Trascorsi quarant’anni da quella notte, Sciascia riaprì l’inchiesta, documentata nel volumetto “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel” (edito per la prima volta da Sellerio nel 1971) (5).


Quindi: è il 14 luglio del 1933 e Roussel alloggia presso "Le Palme", via Ingham, precisamente al secondo piano, nella camera 224, che affaccia sulla via Mariano Stabile.
Sono le 10 del mattino e Roussel indossa come d'abitudine le "vestimenta", e cioè camicia bianca da notte, mutande bianche, calze nere e magliettina di filolana color champagne (sia chiaro, ogni giorno le “vestimenta” erano nuove, non indossandole Roussel che una sola volta il paio, come d’abitudine). È disteso sul suo materasso che, sempre come d'abitudine (per non dire “ossessione”), si trova a terra, dove lo ha spostato, come sempre, accanto alla porta interna - chiusa a chiave, come d’abitudine, da Roussel. La porta separa la camera di Roussel da quella di Madame Fredez, sua "amante" (o forse accompagnatrice) da tanti anni.
Roussel non dorme a letto, mai, temendo di cadere durante il sonno. Un sonno molto agitato e carico degli effetti di numerose droghe e sonniferi, che da tempo ormai sono massicciamente presenti nella sua esistenza, da quando “La doubleure” è rimasto incompreso.
Sono le 10 del mattino di quel 14 luglio e Roussel è sul suo materasso, nella sua camera. Le notti di Roussel, come pupille midriatiche, sono tutte animate e dilatate dall'effetto dei barbiturici e delle droghe, di cui Madame Fredez, come lui le ha richiesto, prende accuratamente nota quanto a principio farmacologico, dosi, effetti. Ma quella notte, quella del 14 luglio, è stata ancora più densa di suggestioni e rumori – non solo interiori –, perché Santa Rosalia si festeggia proprio il 13 luglio e trema la terra di scoppi apotropaici e fuochi che arrivano fin nelle ossa, rompono i vetri, spaccano i pensieri, fermano il respiro.
Quella mattina Roussel è sul suo materasso. Madame Fredez è nella camera accanto, vicina ma distante, come sempre, come lui vuole.
Roussel giace supino, come d'abitudine, ma ormai non vive più.
Il dottor Michele Margiotta, pretore della IV sezione, si trova davanti un enigma e soprattutto un grande imbarazzo: due "sudditi" francesi, amanti, vicini di camera, benché separate, le droghe, le porte chiuse a chiave, un vitalizio a beneficio di lei, boccette, ampolle, bottiglie sul tavolo, nel bagno, sul pavimento.
E un'indagine da svolgere e concludere senza clamori, senza eco, senza scandali.
Morte per intossicazione da barbiturici”. Forse un suicidio...niente di così sorprendente, in fondo, considerando che Roussel ci aveva già provato (privilegiando però, quella volta, la lama di un rasoio).
Cosa spinge allora uno come Sciascia a decidere di mettere da parte per un attimo "Il contesto", che stava scrivendo proprio nel 1971, per riaprire l'indagine sulla morte di Roussel?
Perché è Sciascia, chiaro, e perché il fascicolo di documenti e verbali sulla vicenda della morte palermitana di Roussel, in quell'estate del 1933, non chiarisce affatto la storia, anzi, fa proprio il contrario: quegli atti non fanno altro che infittire il mistero per quello che riportano, per le correzioni, per le contraddizioni, per gli errori e per le omissioni.
Sciascia scava, sbrama, getta luce nell'oscura trama di quella notte estiva di tanti anni prima e ogni luce che getta non fa che moltiplicare le ombre, così come accade nel giardino labirintico di Locus Solus, fatto di svolte ad angolo, di capitomboli, di cancelli e porticine socchiuse, avvolte da rampicanti selvatici che coprono le serrature e custodi di segreti imprevedibili.

Come è morto Roussel? Sciascia è riuscito ad arrivare alla verità?

"..forse questi punti oscuri che vengono fuori dalle carte, dai ricordi, apparivano nell'immediatezza dei fatti, del tutto probabili e spiegabili. I fatti della vita sempre diventano più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali "veramente" sono, quando li si scrive – cioè quando da "atti relativi" diventano, per così dire, "atti assoluti". Come diceva quel poliziotto di Graham Greene: “Possiamo impiccare più gente di quel che i giornali ne possano pubblicare".

Pochi giorni dopo la morte di Roussel, Jean Cocteau, che di Roussel aveva grande stima, in quel Luglio del 1933 scriveva:

Apprendo con dolore la morte di Raymond Roussel. Ero orgoglioso della sua ammirazione. Intendo la sua amicizia, l'unica forma di ammirazione che posso sopportare. La mia amicizia per il suo lavoro è sconfinata. Tra due capolavori come Impressioni d'Africa e Locus Solus, non oso scegliere. Un giorno, quando gli chiesi la genesi di Impressioni d'Africa, mi rispose: la spiegherò dopo la mia morte”.

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NOTE BIBLIOGRAFICHE
(1) Michel Leiris, “Raymond Roussel”, ed. Il cavaliere Azzurro, 1985, trad. di Sandra Nocciolini
(2) Raymond Roussel, “Locus Solus”, ed. Einaudi, trad. di Valerio Riva e Paola Dècina Lombardi
(3) Raymond Roussel, “Il doppio. Come ho scritto alcuni dei miei libri”, ed. Vallecchi, 2013, trad. di Marco Bruni
(4) Rymond Roussel, “Impressioni d’Africa”, ed. Rizzoli, 1964, trad. di Laura Lovisetti Fuà
(5) Leonardo Sciascia, “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel
, Sellerio, 1971


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