(Redazione) - Sulla raccolta "Eppuru i stiddi fanu scrusciu" (Le Farfalle ed, 2022) di Pietro Russo - nota di lettura di Sergio Daniele Donati



Già! Anche le stelle fanno rumore, ed è un suono che ci trascina lontano, o forse vicino, troppo vicino a noi stessi: così vicino che sentiamo l'impellenza della fuga. 
Eppure chi sa restare all'ascolto di quel suono acquisisce consapevolezza di un eterno gioco tra il nostro desiderio d'evasione e la necessità di nutrirci di  - piccoli o immensi - altrove. 
"Eppuru i stiddi fanu scrusciu" (Le Farfalle ed, 2022) di Pietro Russo, lo scrivo senza false remore, è una raccolta meravigliosa che ho tenuto al mio fianco a lungo prima di poterne scrivere. 
Perché esiste uno iato che, benché sottile, si mostra evidente tra il godere del piacere di una lettura e poterne scrivere. 
Il piacere non è la descrizione del piacere. 

Eppure, Le parole di Fedro nasce come luogo di scambio e incrocio di parole e, almeno per chi ivi scrive, il tentativo di ridare agli altri il piacere della lettura è un quasi imperativo ineludibile. 

La raccolta, si diceva, è meravigliosa per molti motivi, ma uno emerge patente sugli altri. 
Le composizioni sono in catanese, lingua che chi vi scrive non parla, e la scelta porta immediatamente il lettore nel paradosso di sentirsi immersi allo stesso tempo nell'antichità mediterranea e nella contemporaneità e realtà della vita quotidiana che il poeta così delicatamente, ma allo stesso tempo con precisione quasi da laser, descrive. 

Le lingue locali e territoriali - non mi piace chiamarle dialetti - hanno in sé questa potenza, questa capacità di poter far da filo conduttore tra un passato che affonda le sue radici nel Mito e un presente che quello stesso Mito ha troppo spesso dimenticato.
Scritte in catanese e tradotte dallo stesso autore, poeta conosciuto e d'esperienza certa, le poesie di Pietro Russo, hanno rappresentato per me che, lo ripeto, non conosco quella lingua, l'emersione della memoria del percorso della parola. 

La parola emerge dal silenzio come suono - e nei suoni di quella lingua sconosciuta mi sonno immerso - e solo poi diventa significato. 
Ma in quel poi c'è tutta la fatica della parola affinché il suono non venga soffocato dalla coperta pesante del significato. 
E a livello sonoro le composizioni di Pietro Russo sono decisamente potenti con un circolo quasi a spirale che porta il suono sia fuori che all'interno del proprio corpo, inteso anche come cassa di risonanza. 
Provate anche voi a bisbigliare sottovoce il testo della poesia che sotto si riporta. 

quattru jita ri cielu 
i paroli lassili scapicuddari 
strati strati lassili o funnu 

vulissi fari uci 
arririri cu l'occhi ri me figghiu 
ca mi talìa e arriri 

unni siti tutti, unni vi ni istiru? 
u munnu nasciu stamatina 

(quattro dita di cielo / le parole lasciale scapicollare / per le strade / lasciale al fondo vorrei gridare / ridere con gli occhi di mio figlio / che mi guarda e ride dove siete tutti, dove siete andati? / il mondo è nato stamattina)
Non sentite in quei suoni anche voi un richiamo al poetare che, prima che sul significato della parola, punta ad un antico dir formule, consapevole che la parola è anzitutto la sua stessa pronuncia?
Solo dopo, nelle poesie di Pietro Russo il significato prende pienezza, proprio perché tutto è stato già detto e pronunciato.
E quel  dopo  rende pieno  l'approccio del lettore al testo. 

Quel passaggio dal suono al significato non si perde quando la maestria di Pietro Russo si manifesta nel comporre poesie che - solo in superficie - sembrano parlare di vita vissuta ma in realtà veicolano nel lettore i segreti e profondi segni dell'onirico.
È il caso della poesia che qui sotto si riporta, nella quale si trova il verso che dà titolo alla silloge.

nta sta scena 
c'è unu c'avi a me facci, i me paroli 
vuautri vi n'ata jutu tutti pari 
 era n autru jonnu, n'autra vita 
c'erunu stiddi, mi pari, ddà cu 
ddà p'astutarisi 

e ju parrava ca uci ro ventu 
ricìa 
Eppuru i stiddi fanu scrusciu m
acari a menzionnu 
a notti, amici, è na cosa longa 

(in questa scena / c'è uno che ha la mia faccia, le mie parole / voi ve ne siete andati tutti quanti / era un altro giorno, un'altra vita / c'erano stelle, mi sembra, / prossime a spegnersi e io parlavo con la voce del vento / dicevo / Eppure le stelle fanno baccano / anche a mezzogiorno / la notte, amici, è una faccenda lunga).

Il Sogno è sempre permeato di abbandono, è un luogo temporaneo, limine tra due mondi abitato da immagini che parlano lingue diverse e solo in parti tra loro traducibili.
La poesia questo non lo dice, ma sembra essere il basso continuo di questa scrittura. La scena di cui parla l'autore non pare essere legata alla rappresentazione teatrale o di vita reale, ma al mondo altro che ogni notte visitiamo con passo cauto. 
E in quel mondo le presenze quotidiane se ne vanno o indossano maschere, per non farsi riconoscere, perché sono figlie di un'altra vita, che si spegne - o quasi -  per permettere al Sogno la sua Parola. 

E la parola del sogno - qui l'autore si dimostra quasi sciamano -  è voce di vento.
Quindi il poeta torna ad essere ciò che l'antichità ci insegnava dovesse essere e che la contemporaneità nega, tutta presa da un egotismo del dire senza fine.
Il poeta parla la voce del vento, il poeta è attraversato da voci altrui, al limite le traduce. Il poeta è arato dall'altrui dire.
Dice ciò che una voce altra gli dice. 
Possiamo chiamare quella voce Musa, Dio, Trascendenza, Vento, Spirito, Flusso Orizzontale, Voci dei morti, Sogno: ma poco conta.

Il poeta, sembra ricordarci Russo, è la voce dell'alterità. È egli stesso attraversato da voci altre, perché possa dire. 
E ce lo ricorda con una lingua antica che se parla di Vento non può non riportare al Mito, anzi alla culla del mito mediterraneo. E, quando parla di stelle e notte non può non ricordare al lettore, che la notte è il luogo e il tempo dei mondi limitrofi, delle percezioni sottili, sottili quanto il baccano silenzioso delle stelle.

Per la Redazione de Le Parole di Fedro
il caporedattore  -  Sergio Daniele Donati



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