(Redazione) - a proposito de "La padrona delle oche" (Arsenio editore, 2023) di Maria Antonietta Viero - estratto e nota di lettura di Sergio Daniele Donati


 

Il gioco che la parola fa, una volta emessa e mentre entra in contatto con la mente di chi la riceve, in fondo è sempre lo stesso. 
È sempre lo stesso ping-pong multicolorato che ci viene incontro quando ci poniamo all'ascolto (e lettura è ascolto): un rimando costante del nuovo all'antico e dell'antico al nuovo. 
Ogni neologismo, ogni nuovo dire, tale può essere definito perché si stacca da un flusso pre-esistente, ed emerge come una gemma solitaria dalle stratificazioni fangose della lingua. 
Allo stesso tempo, proprio questa emersione ha il duplice effetto di far risaltare appunto il  nuovo e, allo stesso tempo, di farci percepire la necessità di uno sfondo vitale

La parola poetica, dunque, è spesso colore che dona valore anche alla sottostante tela bianca e non si deve misconoscere che molto spesso proprio le parole nuove rappresentano il più grande richiamo all'antico. 
Sì perché l'uomo dimentica e certe parole cadono in disuso, e non esiste nulla di più nuovo che l'emersione di una parola dimenticata, o almeno della sua radice. 

Nessuna parola è mai del tutto nuova, staccata dal suo pre-esistente apparato radicale. Semmai potrà essere foglia nuova su tronco antico ma, se staccata dal ramo, perisce immediatamente. 
Niente è più vivace quindi in poesia della legge scientifica che vuole che nulla si crei e nulla si distrugga, ma tutto si trasformi.
Quindi nuovo in poesia non significa inusitato ma sfumatura, nuance di un colore che già esiste.
Questo sa benissimo la poeta Maria Antonietta Viero la quale nella sua raccolta "La padrona delle oche" (Arsenio editore, 2023) ci dimostra con una finezza unica e irripetibile quanto sia vitale proprio questo gioco di rimando reciproco tra nuovo e antico in cui la parola si fa tramite sia di flusso che di fissazione.
Nel leggere i singoli componimenti la prima tendenza per il lettore è l'abbandono a suono e dinamica del dire. È questa la parte della sacra attività del leggere che io definisco dinamica. 
Poi, però, in ogni suo componimento l'attenzione si fissa, e per un istante si ferma, su una o due parole, che si stagliano su quello sfondo vivace come presente regali, inusitate e sicuramente inattese. 
Ed è questa la fase della sacra attività dell lettura che chiamo statica e, sicuramente in questo caso, estatica. 
E poi il flusso riprende arricchito e fortificato da quella stazione di posta, fino alla fermata successiva. 
Le parole chiave sono spesso, nella scrittura di Maria Antonietta Viero, come si cercava di dire sopra, dei quasi neologismi che appunto fermano l'attenzione non solo sul loro significato ma anche, e soprattutto, sul portato della loro radice. 
Sono parole che si vestono di uno sgargiante abito nuovo per farci percepire la bellezza del loro corpo antico e  maturo. Le nuove parole in poesia nascono già adulte, in altri termini, figlie di una storia millenaria.
Ed è questa la funzione  - o, almeno, una delle principali funzioni - del  nuovo in letteratura.

Un nuovo incapace di valorizzare la sua storia, la sua origine è destinato all'oblio. Il nuovo che illumina tutto il percorso che lo ha portato ad esistere è destinato a vivere ad aeternum. 

Maria Antonietta Viero sa benissimo, e ce lo dimostra con la sua raffinata scrittura, che nessuna parola guarda solo davanti a sé e che ogni parola è montagna.
Esiste sempre una parete nord nuova e inesplorate a cui ascendere, ma spesso, dall'altro lato, la parete sud ci mostra cammini già conosciuti e soprattutto  le pendici del monte.
Nessuna vetta galleggia nel vuoto del cielo e anche se quel panorama mozzafiato non è mai stato raggiunto ancora, l'ascesa alla vetta della parola (nuova è l'ascesa non la parola) si fa partendo dalle radici della montagna che sono stabilizzate chilometri e chilometri nel sottosuolo. 
Maria Antonietta Viero ci racconta di questo gioco eterno e stupefacente, dell''illusione della creazione della ricchezza che ha il poeta quando è cosciente di essere un trasformatore dell'esistente. 
Siamo quindi di fronte a una raccolta immancabile  che porta con sé sia riflessione che riflesso; una raccolta evidentemente meditata a lungo, prima di esser stata scritta, ma non priva di qualche spunto ironico.
E l'ironia è figlia dello stesso rapporto tra nuovo e antico di cui si è sinora parlato. 
Un visione laterale, più che nuova, l'apertura di vie inusitate di ascesa, di spazi pre-esistenti ma ignorati: ecco cos'è l'ironia, e Maria Antonietta Viero ce lo dona con una delicatezza molto personale e una voce inconfondibile nel panorama della poesia italiana contemporanea.
Gli estratti che sotto troverete non sono le composizioni complete, ma dei passaggi che, a parere di chi scrive, possono dimostrare quanto sinora sostenuta su una raccolta che, lo si ripete, si considera immancabile.
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ESTRATTO
(...)
Tornano e lampano le cose non svolte
ispessite ai margini di strada, 
come casa in sacco al vagabondo,
inservita chiave che porta si apra
neppure finestra che spifferi al vento
letture in cartagiornale
(...)


(...)
Un foglietto a quadretti
in mano stropiccia e accartoccia
fino a celarsi in dita
a pugno chiuse ...
(...)

(...)
E ritorna nel vibro di pizzico di corda
l'assordo chiamo del tempo, ora in pasto a Crono,
che si fa culla del migrante in riparo,
per dirlo figlio,
Cronico il suo nome

(...)
Senso, sapere, verità sono effetti
per chi, nel tempo immisurabile
osa, senza peso di sacco, l'andare
sorridendo al tanto di novità
che l'istante sorprende.

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