(Redazione) - Dissolvenze - 49 - Vareuse
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| di Arianna Bonino |
Amleto: Guardate quella nuvola lassù. Non vi pare che richiami la forma di un cammello?
Polonio: Sacripante. È un cammello
davvero.
Amleto: O piuttosto una donnola...
Polonio: Infatti, ha la forma di una donnola.
Amleto: Ma non pare una balena?
Polonio: Tale e quale. Una balena.
(William Shakespeare, Amleto, Atto III, scena seconda)
Stamattina presto bussano alla porta.
Spioncino: solo un cesto di limoni nell’oblò della lente. Chi è stato, lo so.
Apro, l’aria è freschissima, piove da stanotte, dal giorno che era, da prima ancora.
Gialli, ancora vivi, spruzzati di gocce che si aggrappano sulla scorza brillante.
Lavandino: boe gialle che hanno perso la rotta.
Graffio, fiuto.
A occhi chiusi vedo cose misteriose e lontane, fosfeni di sogno. Correvo tra i muretti a secco, le trecce sfatte, lunghissime. Un sioux col fango sulle guance. In fuga, ridendo di paura, il cuore in gola, e scampavo sempre ai cattivi, visibili e invisibili.
Nel fitto trifoglio delle terrazze più alte c’erano rane grandi come l’unghia di un pollice bambino, svelate dal turbine degli occhi lavati. Accucciata nel verde, immobile, diventavo una di loro, spillo tra gli spilli puntati nel mondo fermo e verde, infilzato da mille pupille.
Vareuse di pelle trasparente, cuor di trifoglio disperato, rimbombo di sangue nel silenzio delle foglie.
Non battere le palpebre. Questione di vita o di morte.
Benedetta, di rado, dal nastro di una biscia curvata sul sasso dove il passo cadeva, tornavo nella mia carne.
Dai rami più alti del ciliegio si avvistava un'oncia di mare abbagliante trascorsa da minuscoli scafi nell’ora segreta dello strascico.
Un giorno in quello spigolo di mondo, per un istante, lì io vidi affiorare una balena.
Lo giuro, lo giuro. Fischiò blu il tempo di un abbaglio e si rituffò subito nel mistero.
Per sempre.
Mi precipitai giù dai rami, il piede sul sasso, sull’erba, nel fango, poi ancora sassi, rocce, trifogli schiacciati, ginocchia rosse, ferite di conchiglie, rami nei capelli e capelli nei rami. Correvo verso i cattivi, visibili e invisibili, per dirgli la balena, lo giuro, lo giuro.
E ridevano, ridevano, la balena, la balena.
Rabbiosa, feroce, la faccia invischiata di bianchi e d’azzurri correva accecata.
Finché tutte le voci furono uccise, lassù, nei limoni alti, frustando l’erba con un ramo strappato, le unghie affondate nei palmi a riscrivere la linea della vita, quella dell’amore, quella del destino mio, loro, del mondo.
Strappai un limone, mi punse, lo morsi di rabbia, di vendetta, di tutto.
A terra come morta, guardavo il cielo tra i rami, i denti affondati nel giallo.
Uccidere no, ma almeno morire.
E poi, molto dopo, due lucertole e una fresia.
Avvolta in bava di sogno, narici di latte e di sale, mi scelsi una preghiera da cantare, un amuleto di vetro tra lingua e denti, insanguinato blu.
Felicità blu.
No, blu.

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