(Redazione) - Voci dall'Umanesimo-Rinascimento - 07 - Isabella Morra nelle “Pagine Lucane” di Dante Maffia

Di Gianni Antonio Palumbo

Con questo articolo inauguriamo uno dei filoni che caratterizzeranno la nostra rubrica; non esclusivamente la riproposizione di voci rivenienti dall’Umanesimo-Rinascimento ma anche l’esplorazione della loro ricezione, nella consapevolezza che esse abbiano rappresentato e rappresentino tuttora potenti catalizzatori di poesia.
Proprio la figura di Isabella Morra è un esempio particolarmente interessante in tal direzione, aspetto cui abbiamo dedicato alcuni contributi, tra cui segnaliamo il più recente per la rivista “Rinascite della Modernità”, fruibile in open access al seguente link.
La tragica vicenda di Favale, oggi Valsinni, con l’uccisione della giovane poetessa, del suo precettore e del presunto amante, don Diego Sandoval de Castro, ha ispirato poesia, testi teatrali, opere narrative, canzoni, in virtù di quel “rozzo inchiostro” di Morra – in realtà “ben purgate carte” – che, nella querela contro la Fortuna e il “denigrato sito”, si rivela portatore di una voce limpida e intensa.
Tra le espressioni più recenti di questa fortuna ci piace segnalare in questa sede il bel volume di Dante Maffia Pagine lucane (Torino, Genesi, 2024). 
L’autore, poeta, romanziere e saggista, più volte segnalato per la candidatura al Premio Nobel per la Letteratura, non è nuovo a scandagliare il “volto umano” che si cela dietro storie di quel periodo. La sua opera più celebre è infatti Il romanzo di Tommaso Campanella (Reggio Calabria, Città del Sole, 2020), che – come scrisse Norberto Bobbio nella prefazione – consente di cogliere, ricostruendo la vita del celebre frate, “la potenza di una mente che non esita a penetrare nei meandri e nei misteri dell’universo, la forza morale di chi resiste alla malvagità altrui, e alla fine ne esce vittorioso”.
Le Pagine lucane sono un omaggio della scrittore a un regione che ama, la Basilicata, attraverso una raccolta, nella prima parte, di “Recensioni, prefazioni, elzeviri” dedicati a figure della cultura di quella terra (Enzo Bonafine, Giovanni Caserta, Luca Celano, Andrea Di Consoli, Giovanni Di Lena, Maria Antonella D’Agostino, Luigi Guerricchio, Giuseppe Lupo, Luciano Nota, Giuseppe Pedota, Filippo Radogna, Piero Raffaelli, Antonio Valicenti, Franco Villani, Pio Rasulo), cui seguono scritti in cui l’autore svela le scaturigini della sua venerazione per Matera (per comprenderlo è utile anche la lettura dello scritto Ricordo di Pio Rasulo, in cui rivivono memorie della fanciullezza care al cuore). 
Nella parte seconda, si assiste al momento su cui ci soffermeremo, Ti raccoglie una favola: poesie per Isabella Morra.
Il movimento che s’innesta in questa sezione è molto interessante. Maffia dà voce al suo incontro con la poesia della scrittrice valsinnese, una rivelazione per lui. Il dialogo che ne scaturisce ha la preziosità di quell’ambiguità che – Empson tra gli altri insegna – è tipica della Poesia. Le passioni che si fondono e confondono, e che sono dichiarate con nitore dal verso, sono molteplici. V’è quella per Matera, cui è consacrato anche l’explicit del libro, in cui quell’amore si dispiega a chiare lettere: Ti amo, Matera, / arpa che sembri abbandonata ai venti, / che hai mani dolci di bambina, / il cuore grande dei racconti antichi”. 
C’è il sentimento di ammirazione e profonda empatia per la vicenda di Isabella; la sua immagine pare aleggiare nelle contrade lucane e la sua voce riecheggia nella poesia di Maffia, che ne richiama alcuni motivi, ne rammemora i luoghi e fa suo, con accenti differenti, il tema ossessivamente morriano del dialogo con la Dea bendata. L’ulteriore fattore di complicazione è che l’icona dell’amata Matera, con cui Dante celebra nozze ideali, e quella di Isabella coesistono con un’altra figura femminile, al capoluogo lucano legata; forse, peraltro, quest’ultima creatura, un po’ “fantasma del desiderio” un po’ “fantasma della memoria”, finisce col riannodare in sé più donne amate dallo scrittore nel suo percorso. La parola poetica si fa così fortemente evocativa; diventa voce di un mistero d’amore, che tanto più colpisce, quanto più ciascuno può rimodularlo sulla cetra del proprio spirito.
Tutto avviene in liriche connotate da una musicalità limpida, evidente sin dall’attacco, efficace, del primo testo, che sembra richiamare i catulliani rumoresque senum severiorumIo spero che nessuno interferisca / nel nostro amore e voglia dire la sua; / trinciare giudizi col loro morto cuore, / con le divinità ammuffite dei loro orologi / ormai spenti di vita”. 
La tensione dell’avvio si spegne nel quinto verso, più breve, in linea con l’idea veicolata dagli orologi. Notare il significativo passaggio dall’indefinito “nessuno” al “loro morto cuore”, scarto dal comune uso della langue, che pare d’improvviso materializzare i malparlieri. Nell’ambiguità testuale, il riferimento alle interferenze del mondo, pur non essendo presumibilmente riferito a Morra, si lega bene alla vicenda di Isabella, assassinata perché si sospettava una sua relazione con un poeta petrarchista già sposato, Sandoval de Castro. Per lo stesso motivo, quando in uno dei testi successivi, Mi dici chi sono?, si parla di “quei fratelli, quegli zii / che tornano / confidenzialmente ad abbracciarti”, sebbene sia molto probabile che il Tu con cui il poeta dialoga non sia affatto Isabella, il pensiero finisce con l’attagliarsi benissimo anche alla sua vicenda. Maffia, infatti, riesce, in un’atmosfera onirica, a far balenare alla mente del lettore la stretta mortifera in cui Morra fu avvinghiata dai fratelli e dagli zii Cornelio e Baldassino.
L’evocazione della scrittrice avviene invece in maniera evidente in Desuete parole. Qui, Maffia gareggia con Morra nel topos modestiae. Lei scriveva: E spesso grido col mio rozo inchiostro” e altrove definiva il proprio stile “ruvido e frale”. Dante si presenta anche lui in atteggiamenti dimessi: “Io diventato un ragno pulcino / accompagno al ballo dei morti / Isabella ancora sanguinante”. 
Subito dopo, efficace risulta l’uso del termine letterario “canea” (“Muta di cani che inseguono le selvaggina abbaiando”, al link) a designare l’incapacità della gente comune di comprendere lo “splendore” dei versi di Isabella, “le parole diventate profezia”. 
Nel finale del componimento, il cruore cede il passo alla luminosità e il risultato è un explicit suggestivo e arioso: Ecco Isabella venire sorridente, / più luce d’ogni luce / profumo pazzo / di basilico e menta / che da Valsinni arriva fino a Kyoto”. In questi versi, che riprendono un binomio caro al Sinisgalli [in Lucania scriveva “magra dove il grano cresce a stento / (carosella, granoturco, granofino) / e il vino non è squillante (menta / dell’Agri, basilico del Basento!)], il riferimento a Kyoto allude al legame di Maffia col Giappone, in cui gli è stato dedicato un premio riservato agli haiku; lo scrittore suggerisce quindi l’idea che, anche attraverso i suoi versi, la figura di Morra tocchi le sponde nipponiche.
Nell’opera sono evocate tutte le presenze proprie delle rime morriane. Costante è il riferimento al Siri/Sinni, tra le cui anse, “nei rosolacci ubriachi di sole”, lo scrittore gioca a nascondino con l’amata. Affiora anche il Monte Coppola; in Rime 3, esso diveniva osservatorio privilegiato di Isabella, intenta a spiare l’orizzonte nella speranza di vedere l’imbarcazione che le avrebbe portato notizie del babbo (“D’un alto monte onde si scorge il mare / miro sovente io, tua figlia Isabella”). Un filo rosso pare poi costantemente connettere Roseto Capo Spulico, terra di Maffia, a Matera e a Valsinni, come appare evidente nella poesia Lo so.
Il dialogo con Isabella non si dispiega solo all’insegna della riproposizione di luoghi o all’offerta in punta di penna del suo simulacro, sorridente o cruento che sia. Maffia ne riprende alcuni motivi, non necessariamente con la stessa visione esistenziale. Per esempio nei suoi testi è ribaltato il motivo della lamentazione contro la Fortuna. In Ridiventare uomo, l’incipit evoca proprio, in termini positivi, la Dea bendata: “La fortuna ha voluto / che t’incontrassi / per evitare che la dissoluzione / entrasse in me a consumare / la mia dolcezza diventata infeconda”. Studiatamente, il poeta apre anche un altro testo con la parola “Fortuna”, ma anche qui l’accezione con cui è adoperata non può dirsi negativa; quel gioioso incontro di cui si parlava prima (con Matera?, con Isabella?, con l’amata?, con tutte loro?) ha fortunatamente interrotto il commercio con la melanconia e ora il “vento” dei pensieri dolorosi può pure continuare a strepitare. Il poeta è già oltre.
Senz’altro, a nostro avviso, il testo più bello di questa sezione è proprio quello eponimo, Ti raccoglie una favola. Quest’ultimo denota una possente dimensione oratoria, che ci ha fatto avvertire l’aria, ovviamente in contesto e con soluzioni del tutto differenti, del famoso monologo del Giulio Cesare shakespeariano. È un passo che ha una sua vis maestosa, resistente all’azione mefitica dei “lupi” più volte evocati, e cari alla poesia di Maffia sin dalla sua prima raccolta. In questa poesia l’uccisione di Isabella emerge nella sua verità di sacrilegio: “Avanti e in silenzio / nel truogolo della sconfitta, / avanti a ripetere / ripetere / ripetere / che ferire l’armonia / è sacrilegio”. Quella triplicazione del verbo ripetere fa eco alla voce di Isabella, che chiamava a raccolta uno per uno gli elementi della “valle inferna”, testimoni della sua “doglia eterna”. È un vigoroso atto di accusa contro la barbarie imperante, quella che si inebria della “gioia dello scannamento” e vede “l’esaltazione del male come trionfo”. Il poeta apostrofa quelli che definisce “porci”, e poi ancora “iene più stupidi d’una cipolla”, e li inchioda alla visione che il corpo da loro martoriato in realtà ha vinto: solo Isabella è ancora viva e non loro, “più stupidi di una zucca”. Il lettore ha però il sospetto che Dante non si riferisca solo a Decio e Fabio, e agli zii di Isabella. Quel monito agonale, un po’ ipponatteo, pare rivolto a tutti coloro che non comprendono che “nessun coltello potrà mai uccidere l’Amore / quando è libertà / e volo, / arpa, / consenso di Dio”. Così, a dispetto della morte e del suo velo nero, la Poesia celebra il trionfo e l’imperitura forza della Poesia stessa.

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