Tre poesie "genovesi" di Francesco Macciò - con nota di lettura di Sergio Daniele Donati
Francesco Macciò, poeta ligure di grande spessore ed esperienza, ci ha fatto dono di tre poesie scritte nella lingua musicale e nostalgica della sua citta: Genova; ne siamo davvero lieti ed onorati.
Il poeta qui costruisce attorno a una lingua poetica che si muove appunto tra il genovese e l’italiano, una tensione che non è mai meramente traduttiva, ma sempre dialettica, identitaria e fonica.
Le tre poesie qui presentate — Dal bar, A lengua, Bêuga tam-bêuga — offrono un percorso che va dalla scena urbana, all’intimità linguistica, fino alla quasi-allucinazione simbolica, mantenendo però una coerenza stilistica fondata su ellissi, iterazioni e immagini taglienti, quasi a tratti scorticanti.
Analizziamole separatamente.
Dal bar
La poesia si apre con un frammento di dialogo diretto, in genovese, che già contiene il nucleo tematico: la pioggia come condizione esistenziale, la mancanza di riparo, l’invocazione al cielo. Il bar diventa luogo di stasi e d'attesa, dove il tempo meteorologico si sovrappone al tempo interiore. Il protagonista, brandendo una bottiglia, si rivolge al cielo con un tono che mescola bestemmia e preghiera, mentre i vecchi al tavolo — “esperti di calcoli e di scopone” — incarnano una razionalità inerte, impermeabile alla disperazione.
Il linguaggio è forse piano, ma la costruzione è stratificata e non priva di ricercata elevazione: il “piombo verde di uno specchio”, ad esempio, evoca una stagnazione visiva e morale, mentre l’assenza di “buona stagione” è tanto climatica quanto esistenziale. Il passaggio all’italiano non è quindi qui una traduzione, ma una trasposizione, un dialogo che conserva sempre la tensione originaria, quasi che il poeta abbia voluto trasmetterci il dialogo interiore e bilingue che chiunque viva ove la lingua locale ha ancora un senso profondo e radicato di esistere non può non riconoscere.
A lengua
Qui la lingua diventa soggetto e oggetto poetico ma, soprattutto è suono.
Il genovese è “a mæ lengua che no parlo / ma che a sento parlâ”: una lingua non praticata ma ascoltata, che vive al margine della coscienza, come un animale affilato che “fa la barba alle pietre”.
E qui il poeta, senza ovviamente saperlo, parla doppiamente a chi vi scrive, abituato da sempre all'ascolto di suoni (modenesi ed ebraici, spesso mescolati tra loro), tanto famigliari quanto mantenuti, in parte volutamente, sconosciuti.
Perchè il taglio del suono, sulla lama della lingua, un poco si perde, inutile nasconderselo, quando lo si esplora solo come senso e significato.
La metafora è quindi potente: la lingua come lama, come gesto che incide il paesaggio. Ma è anche una lingua che si disfà — “in te ‘na chinn-a drûa e strangosciâ” — e che chiede un nido, una dimora, quando non viene più parlata.
Il tema dell’estraneità linguistica è trattato con una densità emotiva che non cede mai al sentimentalismo. La traduzione italiana mantiene la struttura sintattica spezzata, il ritmo sincopato, e restituisce la tensione tra appartenenza e perdita.
Siamo, dunque, di fronte ad una metapoesia in lingua locale - dialetto nel caso del genovese mi pare sostantivo del tutto sminuente -, dall'alto valore indagativo e di pensiero, che mantiene sempre costante una mirabile tensione lirica.
Bêuga tam-bêuga
La ripetizione ossessiva del titolo — onomatopeica, fonica, rituale — introduce una scena che è insieme domestica e perturbante. L’ingresso in cucina di una figura nera, che sbava “come un gatto nero”, si trasforma in una visione corvina, malaugurante, dagli evidenti richiami ad Allan Poe, ma, certo, non solo. Il grembiule di pelle è “bestetto”, contaminato, e la bestemmia sembra essere qui l’unico linguaggio rimasto. La terza strofa, con il “piscio d’äze” e gli “asini grigi invexendé”, porta la scena in un registro quasi apocalittico, dove il mercato è “imbasté ä reversa”: rovesciato, disordinato, fuori asse. Il ritmo è martellante, la sintassi è franta, e il dialetto diventa veicolo di una visione che non potrebbe essere espressa in italiano senza perdere la sua carica fonica e simbolica. La traduzione, pur efficace e senza dubbio figlia di una maestria ed esperienza unica, non può a nostro avviso qui che restare un’ombra dell’originale in lingua locale.
In conclusione pare di poter dire, e i testi dati in dono dal Poeta a Le parole di Fedro ci confortano in questo, che Francesco Macciò lavora sul dialetto non come residuo folklorico banalizzato, ma come strumento di estrema precisione poetica. Il genovese è in lui lingua del corpo, della pietra, del tempo; l’italiano del pensiero, della riflessione, della distanza.
Il passaggio del poeta tra i due idiomi non è mai neutro: è sempre un gesto po-etico, una scelta di campo. La sua scrittura si colloca in una linea con riverberi ed assonanze che vanno da Raffaello Baldini a Giovanni Nadiani e altri, con altra lingua, ma con una tensione più urbana, più visiva, più corrosiva.
Il dialetto qui non è qui nostalgia di un mondo che non esiste più, ma resistenza o, meglio, rivitalizzazione di quello stesso mondo, un riaffiorare di radici che non può non commuovere nel profondo.
Per la Redazione de Le parole di Fedro
Il caporedattore - Sergio Daniele Donati
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LE TRE POESIE
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Dal bar «Anch’êu l’è ‘n meise che ciêuve
e mi sõn sensa pægua» urlava
brandendo una bottiglia di liquore,
con il Cielo se la prendeva
perché da un mese non luceva il sole.
Nessun lampo da un tavolo buio,
nel piombo verde di uno specchio
nessuna buona stagione. «Dime ûn pö
voiätri quande l’è che no ciêuve».
Non facevano una piega i vecchi
esperti di calcoli e di scopone.
e mi sõn sensa pægua» urlava
brandendo una bottiglia di liquore,
con il Cielo se la prendeva
perché da un mese non luceva il sole.
Nessun lampo da un tavolo buio,
nel piombo verde di uno specchio
nessuna buona stagione. «Dime ûn pö
voiätri quande l’è che no ciêuve».
Non facevano una piega i vecchi
esperti di calcoli e di scopone.
Dal bar
« Oggi è un mese che piove / e io sono senza ombrello» […]
«Ditemi un po’ voi quand’è che non piove».
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A lengua
A l’è a mæ lengua
a mæ lengua che no parlo
ma che a sento parlâ, a mæ lengua
vëgia, affiâ, ch’a l’è de lungo in gïo
a fâ a barba a-e prïe e pâ ch’a se derfe
in te ‘na chinn-a drûa e strangosciâ
çerte séje, çerte séje che m’arso
ch’a me ciamma vixin pe fäse fâ ûn nïo
quande a no me sente ciû parlâ.
A l’è a mæ lengua
a mæ lengua che no parlo
ma che a sento parlâ, a mæ lengua
vëgia, affiâ, ch’a l’è de lungo in gïo
a fâ a barba a-e prïe e pâ ch’a se derfe
in te ‘na chinn-a drûa e strangosciâ
çerte séje, çerte séje che m’arso
ch’a me ciamma vixin pe fäse fâ ûn nïo
quande a no me sente ciû parlâ.
La lingua
È la mia lingua / la mia lingua che non parlo / ma che sento parlare, la mia lingua / vecchia, affilata, che va sempre in giro / a fare la barba alle pietre e sembra disfarsi / in una culla grezza e angosciante / certe sere, certe sere che mi alzo / che mi chiama vicino per farsi fare un nido / quando non mi sente più parlare.
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Bêuga tam-bêuga Bêuga tam-bêuga...
O l’è intrò in cuxinn-a
che ghea ancõn averto, neigro
a sbaûssâ cõmme ‘n gatto neigro
Bêuga tam-bêuga...
Cõmme ‘n cröu o se assetò
cö o sò scösâ de pelle bestetto
a miâ da-i veddri, a giastemmâ
O l’è intrò in cuxinn-a
che ghea ancõn averto, neigro
a sbaûssâ cõmme ‘n gatto neigro
Bêuga tam-bêuga...
Cõmme ‘n cröu o se assetò
cö o sò scösâ de pelle bestetto
a miâ da-i veddri, a giastemmâ
Bêuga tam-bêuga...
Piscio d’äze in sciä tæra grassa
äxi grixi invexendé, porté tûtti
a-o mercòu imbasté ä reversa
Bêuga tam-bêuga...
Piscio d’äze in sciä tæra grassa
äxi grixi invexendé, porté tûtti
a-o mercòu imbasté ä reversa
Bêuga tam-bêuga...
Bêuga tam-bêuga. Bêuga tam-bêuga...
// È entrato in cucina / che c’era ancóra aperto, nero / a leccare sbavando come un gatto nero // Bêuga tam-bêuga... // Come un corvo si è seduto / con il suo grembiule di pelle malaugurante / a guardare dai vetri, a bestemmiare // Bêuga tam-bêuga... // Piscio d’asino sulla terra grassa / asini grigi in confusione, portati tutti / al mercato imbastati alla rovescia // Bêuga tam-bêuga...
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BREVI NOTE BIOBIBILOGRAFICHE
Francesco Macciò.
Opere recenti:
Saggistica: L’universo in periferia. S-Oggetti sparsi intorno alla Poesia, prefazione di M. Ercolani, Moretti&Vitali 2023;
Narrativa: L’alba e la cenere, Robin Edizioni 2025;
Poesia: Ritratto di donna al mare con bambino, Note critiche di G. Conte, F. Pusterla, D. Conrieri, Puntoacapo 2025.
Libri di poesia: Sotto notti altissime di stelle, prefazione di L. Surdich (2003 /2013), L’ombra che intorno riunisce le cose (2008), Abitare l’attesa, prefazione di G. Fantato (2011), Giglio di mare, con tempera di A. Borioli, 2013; L’oscuro di ogni sostanza, prefazione di L. Surdich (2017), Viața ca pământul / La vita come la terra (2023).
Le sue poesie sono state tradotte in francese, rumeno, inglese, tedesco, spagnolo, cinese. Ha pubblicato sotto lo pseudonimo di Giacomo di Witzell il romanzo Come dentro la notte (2006); ha curato il volume di studi su Giorgio Caproni intitolato “Queste nostre zone montane”, prefazione di G. Giudici.
Sta lavorando a una nuova traduzione delle Odi di Orazio.
Ha ideato e conduce la rassegna Incontri con gli scrittori presso il liceo Sandro Pertini di Genova.
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