Il bimbo guarda fra le dieci dita
la bella mela che vi tiene stretta;
e indugia - tanto è lucida è perfetta -
a dar coi denti quella gran ferita.
Ma dato il primo morso ecco s'affretta:
e quel che morde par cosa scipita
per l'occhio intento al morso che l'aspetta...
E già la mela è per metà finita.
Il bimbo morde ancora - ad ogni morso
sempre è lo sguardo che precede il dente -
fin che s'arresta al torso che già tocca.
«Non sentii quasi il gusto e giungo al torso!»
Pensa il bambino... Le pupille intente
ogni piacere tolsero alla bocca.
(Guido
Gozzano, da La via del
rifugio, 1907)
Resta
sempre bello questo sonetto di Guido Gozzano, col quel suo sottile
camminare su un crinale che lega il tono giocoso e spensierato d’un
prodotto letterario raffinato con l’amarezza rassegnata d’una
metafora sul senso stretto della vita. Eppure, inutile negare che a
sorprendere il lettore non è solo la dialettica ossimorica del
contenuto ma anche il gradimento estetico connesso al classicismo
della forma, la pulizia con cui il poeta riprende uno schema metrico
d’antica tradizione (il sonetto) rinnovandolo nell’intenzione. Ed
eccolo, presto fatto, lo schema del nostro sonetto: ABBA.BABA/CDE.CDE
ossia la prima quartina con rima incrociata, la seconda con rima
alternata e due terzine con rima ripetuta.
Chiunque
abbia avuto a che fare coi primi rudimenti metrici sa benissimo
quanto sia in realtà agevole arrivare a questa analisi. Schema
metrico, sonetto, paradigma rimico, si tratta di concetti decisamente
semplici, in fondo, e facilmente accessibili. Tuttavia, muovendoci
nella prospettiva d’un prontuario e sollevando anche problemi
‘vagamente etici’ di sopravvivenza, ci è sembrato opportuno
bandire, in questa sede, l’idea stessa di prerequisito, nel
tentativo di sciogliere ogni dubbio a chi volesse avventurarsi lungo
queste strade.
La
lettura dei testi poetici della tradizione impone sempre al lettore
la necessaria decodifica di schemi metrici e rimici, se non altro
perché quando di parla di poesia non si può mai disgiungere il
contenuto dalla forma e, quando si parla di poesia della tradizione,
la forma dalla perizia progettuale. Tale decodifica comporta come
operazione preliminare l’individuazione della struttura metrica
prescelta dal poeta (sia essa sonetto, canzone, ballata o altro) e la
derivazione (con tanto di matita…) dello schema rimico da lui
utilizzato. L’operazione, in verità assai più semplice di quanto
si possa pensare, consiste, in pratica, nell’assegnare una lettera
dell’alfabeto a ciascuna rima, avendo però cura di usare lettere
maiuscole per i versi lunghi (dal novenario in su) e lettere
minuscole per i versi brevi (dal novenario in giù) nonché di
ripetere la medesima lettera a cospetto d’ogni rima identica.
Quindi, nel caso della nostra Parabola,
avremo: A (dita),
B (stretta),
B (perfetta),
A (ferita)
per la prima quartina (strofa di quattro versi); B (affretta),
A (scipita),
B (aspetta),
A (finita)
per la seconda quartina; C (morso),
D (dente)
E (tocca)
per la prima terzina (strofa di tre versi); C (torso),
D (intente)
E (bocca)
per la seconda terzina.
Ricordiamo,
qualora ce ne fosse bisogno, che la rima
per ‘definizione’ è un’identità di suono dalla sillaba tonica
in poi, motivo per cui cuore
farà sempre rima (banale ma perfetta) con amore.
Mentre nel caso in cui tale identità riguardasse solo le vocali si
potrà parlare di assonanza
(mare/pale)
o, se le consonanti, di consonanza
(mare/mori).
Come probabilmente saprete, le combinazioni di rime previste dalla
tradizione sono davvero innumerevoli e così pure le loro
nomenclature; motivo per cui cedere, per chiarezza, alla seduzione
esplicita d’una tabella riassuntiva ci è sembrato un capriccio
difficile a cui rinunciare. E quindi eccola la nostra bella con tanto
di nomi, esempi altisonanti e schemi:
Rima
baciata
|
O
cavallina, cavallina storna,
che
portavi colui che non ritorna;
tu
capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli
ha lasciato un figlio giovinetto;
(G.
Pascoli, La cavalla
storna)
|
A A
B
B
|
Rima
alternata
|
I
cipressi che a Bòlgheri alti e schietti
Van
da San Guido in duplice filar,
Quasi
in corsa giganti giovinetti
Mi
balzarono incontro e mi guardar.
(G.
Carducci, Davanti
a San Guido)
|
A
B
A
B
|
Rima
incrociata
|
Quando
la terra è d'ombre ricoverta,
E
soffia 'l vento, e in su le arene estreme
L'onda
va e vien che mormorando geme,
E
appar la luna tra le nubi incerta.
(U.
Foscolo, Notturno)
|
A
B
B
A
|
Rima
incatenata
|
Nel
mezzo del cammin di nostra vita
mi
ritrovai per una selva oscura,
ché
la diritta via era smarrita.
Ahi
quanto a dir qual era è cosa dura
esta
selva selvaggia e aspra e forte
che
nel pensier rinnova la paura!
(D.
Alighieri, Inferno,
I)
|
A
B
A
B
C
B
|
Rima
invertita
|
E
se ’begli occhi, ond’io me ti mostrai
et
là dov’era il mio dolce ridutto
quando
ti ruppi al cor tanta durezza,
mi
rendon l’arco ch’ogni cosa spezza,
forse
non avrai sempre il viso asciutto:
ch’i’
mi pasco di lagrime, et tu ’l sai.
(F.
Petrarca,
Più volte Amor…, RVF, XCIII)
|
A
B
C
C
B
A
|
Rima
ripetuta
|
et
viene a Roma, seguendo ’l desio,
per
mirar la sembianza di colui
ch’ancor
lassú nel ciel vedere spera:
cosí,
lasso, talor vo cercand’io,
donna,
quanto è possibile, in altrui
la
disïata vostra forma vera.
(F.
Petrarca, Movesi il
vecchierel, RVF, XVI)
|
A
B
C
A
B
C
|
E
tuttavia, nonostante questo pregevole dispendio di energia, esistono
ancora casi che esulano da questa disamina. Bisogna, infatti,
prendere in considerazione anche la possibilità che i versi rimino
in modo anomalo, ciò capita quando la rima, invece di trovarsi a
fine verso, come nei casi appena annoverati, si trova in altri punti.
Precisamente si parla di rimalmezzo
quando la parola finale di un verso rima con quella posta nel mezzo
di un altro (il successivo, di solito) e coincidente con la cesura
(termine su cui contiamo di tornare):
Odi greggi belar, // muggire armenti;
gli altri augelli contenti, // a gara insieme
per lo libero ciel // fan mille giri
(G. Leopardi, Il passero solitario)
Si
parla di rima
interna
nel caso in cui rimino tra loro una parola posta a fine verso con
un’altra interna allo stesso verso:
E
cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare
delle lavandare
con
tonfi spessi e lunghe cantilene.
(G.Pascoli,
Lavandare)
Si
parla, infine, di rima
ipermetra
quando una parola piana o baritona (cioè accentata sulla penultima)
rima con una sdrucciola (accentata sulla terzultima) che ha una
sillaba in più rispetto alla misura del verso. In tal caso, la
sillaba in più viene considerata parte del verso successivo:
Ah
l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a sé stesso
amico,
e
l’ombra sua non cura che la can
e
l’ombra sua non cura che la canicola
stampa
sopra uno scalcinato muro!
stampa
sopra uno scalcinato muro!
(E.
Montale, Non chiederci
la parola)
Tolti
di mezzo i problemi inerenti allo schema metrico e alle rime, sembra
opportuno dedicarci, infine, alla necessaria definizione di sonetto,
forma strofica peculiare della tradizione letteraria italiana. In
verità, il nome deriva dal provenzale sonet
ovvero un componimento poetico caratterizzato dall’accompagnamento
musicale. Secondo l’ipotesi più accreditata, l’inventore di
questa fortunata forma metrica sarebbe quel famoso Giacomo da Lentini
che fu ‘notaro’ stimatissimo della corte di Federico II e
personaggio di tutto rispetto nell’ambito della scuola poetica
siciliana. L’idea diffusa è che il nostro notaro raffinato l’abbia
ricavato dalla stanza della canzone, modello strofico (su cui
torneremo) già affermato e ampiamente divulgato dai trovatori
provenzali. Pare importante, a tal proposito, sottolineare che la
prima comunità poetica italiana (quella siciliana appunto) ebbe
rapporti strettissimi coi trovatori di Provenza, che proprio in
Sicilia trovarono prima accoglienza e poi scampo dalla, tristemente
fortunata, operazione di sterminio passata alla storia come crociata
contro i catari-albigesi.
Lo
schema metrico del sonetto si basò, fin dalle origini, e per il
resto della tradizione poetica italiana su di una sequenza di
quattordici
endecasillabi,
organizzati in due
quartine
(corrispondenti ai piedi della fronte della canzone) e due
terzine
(corrispondenti alle volte della sirma). Due ordini di strofe che
appaiono sempre strettamente legate da un complesso e virtuosistico
rapporto di rime.
Per
le quartine gli schemi rimici più ricorrenti sono: ABAB.
ABAB
(ossia con rime alternate, secondo la forma più antica) oppure
ABBA.ABBA
(con rime incrociate). Parimenti, per le terzine gli schemi più
utilizzati sono: CDC.DCD
(con rime incatenate); CDC.CDC
(con due rime alternate); CDE.CDE
(a tre rime replicate, secondo la forma più antica); CDE.EDC
(con rime invertite).
Ma
visto che il virtuosismo dei poeti italiani davvero non conosce
limiti, per le quartine si annoverano diverse varianti più rare:
ABAB.BABA
(come in Parabola
di Gozzano, appunto); ABBA.ABAB;
ABAB.
BAAB;
ABBB.BAAA.
Ancora più ampio appare lo spettro delle possibilità nelle terzine,
per le quali sono ammesse tutte le combinazioni a patto che nella
seconda terzina sia presente almeno una rima della prima. Potremo
quindi avere: CDD.DCC;
CDD.CDD;
CDE.DEC;
CDE.ECD;
CDE.CDE
(a tre rime).
Esistono,
inoltre, delle varianti particolari del sonetto (e… mettetevi
comodi perché sono davvero tante) come:
- il
sonetto
continuo
in cui le rime delle quartine vengono riprese dalle terzine e viene
a mancare la consueta separazione concettuale tra fronte e sirma;
- il
sonetto
caudato
che ha una sorta di coda, aggiungendo uno, due o tre versi allo
schema normale: o un endecasillabo in rima con l’ultimo verso o
due endecasillabi a rima baciata e diversa dalle precedenti (talora
replicati o triplicati se si tratta di un sonetto
ritornellato)
o un settenario in rima con l’ultimo verso del sonetto e seguito
da due versi in rima baciata e diversa dalle rime precedenti
(sonettessa);
- il
sonetto
doppio,
che aggiunge un settenario dopo ogni verso dispari delle quartine
(primo e terzo) e dopo il secondo delle terzine (AbBBbA. CDdC.
CDdC);
- il
sonetto
rinterzato
che introduce un settenario anche dopo il primo verso delle terzine
(AaBAaB. AaBAaB/CcDdC.DdCcD);
- il
sonetto
con fronte di dieci versi
(anziché otto (ABABABAB/CDC.DCD);
- il
sonetto
minore
che ha versi più brevi dell’endecasillabo;
- il
sonetto
minimo
scritto in quinari;
- il
sonetto
comune
in cui gli endecasillabi si alternano coi settenari;
- il
sonetto
bilingue
in cui si alternano due lingue (di solito italiano con provenzale o
francese o latino);
- il
sonetto
trilingue
in cui si alternano tre lingue (italiano con provenzale o francese o
latino) che è di venti versi articolati in quattro strofe;
- il
sonetto
metrico
in cui sette versi italiani dell’autore alternano con sette versi
latini (ovviamente non endecasillabi) di autori classici;
- il
sonetto
retrogrado
che può leggersi anche dall’ultima parola alla prima (pur
mantenendo inalterati senso, struttura metrica e rime… non so se
mi spiego!);
- il
sonetto
marotique,
variante introdotta e divulgata in Francia da C. Marot, nella prima
metà del ‘500, che sostituisce alle terzine una terza quartina e
un distico a rima baciata;
- il
sonetto
inglese
- se così si può dire - frutto della reinterpretazione che
dell’italiano fecero T. Wyatt e il conte Surrey, con tre quartine
e distico finale, e Shakespeare al quale risale il medesimo schema
(tre quartine e un distico) ma con maggiore varietà di rima (ABAB.
CDCD. EFEF. GG).
Insomma,
speriamo di non avervi confuso troppo le idee. E, per farci
perdonare, vorremmo rassicurarvi ricordando che non sempre (e forse
per fortuna) le poesie utilizzano forme metriche o schemi rimici
della tradizione. In particolare, si parla di versi
sciolti
quando un poeta, pur usando i versi della metrica classica,
‘scioglie’ i suoi versi da ogni obbligo di rima. Così, ad
esempio, Luzi:
Nella casa di N.,
compagna d’infanzia
Il vento è un aspro vento di quaresima,
geme dentro le crepe, sotto gli usci,
sibila nelle stanze invase, e fugge;
fuori lacera a brano a brano i nastri
delle stelle filanti, se qualcuna
impigliata nei fili fiotta e vibra,
l'incalza, la rapisce nella briga.
Io sono qui, persona in una stanza,
uomo nel fondo di una casa, ascolto
lo stridere che fa la fiamma, il cuore
che accelera i suoi moti, siedo, attendo.
Tu dove sei? sparita anche la traccia...
Se guardo qui la furia e se più oltre
l'erba, la povertà grigia dei monti.
(da Primizie del deserto, Schwarz, 1952)
Se
poi questo non dovesse ancora bastare a rassicurarvi, possiamo
ribadire che i versi sciolti non vanno confusi coi versi
liberi,
caratteristici della poesia moderna e contemporanea, dove il poeta,
oltre a rifiutare schemi rimici prestabiliti, si muove con libertà
assoluta nella misura del verso, con un numero di sillabe variato e
variabile, in infinite combinazioni espressive che hanno solo il suo
estro come confine.
Riferimenti Bibliografici essenziali:
M.
Ramous, La Metrica,
Garzanti, Milano, 1991.
G.
Gozzano, La via del
rifugio, The perfect
library, 2015
Guidorizzi-Rancoroni-Galli,
Sirene.
Poesia,
Torino, Einaudi, 2024
Panebianco-Bubba-Frigato-Cardia-Varani,
Leggere
per vivere. Poesia,
Bologna, Zanichelli, 2024
Nota:
La
pausa primaria coincide con la fine stessa del verso, ma all’interno
del verso possono esserci pause più lievi che vengono chiamate
cesure (dal latino caedere
che vuol dire tagliare).
La cesura si trova di norma nei versi lunghi, dall’ottonario in
su, e coincide sempre con una fine di parola. Tale pausa può essere
forte ed evidenziata ad esempio da virgola, punto o altro segno di
interpunzione oppure essere debole, ad esempio in coincidenza con
una sinalefe che lega i due emistichi del verso.
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