(Redazione) - Metricamente (Prontuario di sopravvivenza metrica) - 03 - “Parabola” di un sonetto

 
A cura di Ester Guglielmino

Il bimbo guarda fra le dieci dita
la bella mela che vi tiene stretta;
e indugia - tanto è lucida è perfetta -
a dar coi denti quella gran ferita.
Ma dato il primo morso ecco s'affretta:
e quel che morde par cosa scipita
per l'occhio intento al morso che l'aspetta...
E già la mela è per metà finita.
Il bimbo morde ancora - ad ogni morso
sempre è lo sguardo che precede il dente -
fin che s'arresta al torso che già tocca.
«Non sentii quasi il gusto e giungo al torso!»
Pensa il bambino... Le pupille intente
ogni piacere tolsero alla bocca.

(Guido Gozzano, da La via del rifugio, 1907)

Resta sempre bello questo sonetto di Guido Gozzano, col quel suo sottile camminare su un crinale che lega il tono giocoso e spensierato d’un prodotto letterario raffinato con l’amarezza rassegnata d’una metafora sul senso stretto della vita. Eppure, inutile negare che a sorprendere il lettore non è solo la dialettica ossimorica del contenuto ma anche il gradimento estetico connesso al classicismo della forma, la pulizia con cui il poeta riprende uno schema metrico d’antica tradizione (il sonetto) rinnovandolo nell’intenzione. Ed eccolo, presto fatto, lo schema del nostro sonetto: ABBA.BABA/CDE.CDE ossia la prima quartina con rima incrociata, la seconda con rima alternata e due terzine con rima ripetuta.
Chiunque abbia avuto a che fare coi primi rudimenti metrici sa benissimo quanto sia in realtà agevole arrivare a questa analisi. Schema metrico, sonetto, paradigma rimico, si tratta di concetti decisamente semplici, in fondo, e facilmente accessibili. Tuttavia, muovendoci nella prospettiva d’un prontuario e sollevando anche problemi ‘vagamente etici’ di sopravvivenza, ci è sembrato opportuno bandire, in questa sede, l’idea stessa di prerequisito, nel tentativo di sciogliere ogni dubbio a chi volesse avventurarsi lungo queste strade.
La lettura dei testi poetici della tradizione impone sempre al lettore la necessaria decodifica di schemi metrici e rimici, se non altro perché quando di parla di poesia non si può mai disgiungere il contenuto dalla forma e, quando si parla di poesia della tradizione, la forma dalla perizia progettuale. Tale decodifica comporta come operazione preliminare l’individuazione della struttura metrica prescelta dal poeta (sia essa sonetto, canzone, ballata o altro) e la derivazione (con tanto di matita…) dello schema rimico da lui utilizzato. L’operazione, in verità assai più semplice di quanto si possa pensare, consiste, in pratica, nell’assegnare una lettera dell’alfabeto a ciascuna rima, avendo però cura di usare lettere maiuscole per i versi lunghi (dal novenario in su) e lettere minuscole per i versi brevi (dal novenario in giù) nonché di ripetere la medesima lettera a cospetto d’ogni rima identica. Quindi, nel caso della nostra Parabola, avremo: A (dita), B (stretta), B (perfetta), A (ferita) per la prima quartina (strofa di quattro versi); B (affretta), A (scipita), B (aspetta), A (finita) per la seconda quartina; C (morso), D (dente) E (tocca) per la prima terzina (strofa di tre versi); C (torso), D (intente) E (bocca) per la seconda terzina.
Ricordiamo, qualora ce ne fosse bisogno, che la rima per ‘definizione’ è un’identità di suono dalla sillaba tonica in poi, motivo per cui cuore farà sempre rima (banale ma perfetta) con amore. Mentre nel caso in cui tale identità riguardasse solo le vocali si potrà parlare di assonanza (mare/pale) o, se le consonanti, di consonanza (mare/mori). Come probabilmente saprete, le combinazioni di rime previste dalla tradizione sono davvero innumerevoli e così pure le loro nomenclature; motivo per cui cedere, per chiarezza, alla seduzione esplicita d’una tabella riassuntiva ci è sembrato un capriccio difficile a cui rinunciare. E quindi eccola la nostra bella con tanto di nomi, esempi altisonanti e schemi:

Rima baciata

O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non rit
orna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovin
etto;

(G. Pascoli, La cavalla storna)

A

A

B

B

Rima alternata

I cipressi che a Bòlgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar.

(G. Carducci, Davanti a San Guido)

A

B

A

B

Rima incrociata

Quando la terra è d'ombre ricoverta,
E soffia 'l vento, e in su le arene estr
eme
L'onda va e vien che mormorando g
eme,
E appar la luna tra le nubi inc
erta.

(U. Foscolo, Notturno)

A

B

B

A

Rima incatenata

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura!

(D. Alighieri, Inferno, I)

A

B

A

B

C

B

Rima invertita

E se ’begli occhi, ond’io me ti mostrai
et là dov’era il mio dolce rid
utto
quando ti ruppi al cor tanta dur
ezza,

mi rendon l’arco ch’ogni cosa sp
ezza,
forse non avrai sempre il viso asci
utto:
ch’i’ mi pasco di lagrime, et tu ’l s
ai.

(F. Petrarca, Più volte Amor…, RVF, XCIII)

A

B

C

C

B

A

Rima ripetuta

et viene a Roma, seguendo ’l desio,
per mirar la sembianza di col
ui
ch’ancor lassú nel ciel vedere sp
era:


cosí, lasso, talor vo cercand’io,
donna, quanto è possibile, in altr
ui
la disïata vostra forma v
era.

(F. Petrarca, Movesi il vecchierel, RVF, XVI)

A

B

C

A

B

C

E tuttavia, nonostante questo pregevole dispendio di energia, esistono ancora casi che esulano da questa disamina. Bisogna, infatti, prendere in considerazione anche la possibilità che i versi rimino in modo anomalo, ciò capita quando la rima, invece di trovarsi a fine verso, come nei casi appena annoverati, si trova in altri punti. Precisamente si parla di rimalmezzo quando la parola finale di un verso rima con quella posta nel mezzo di un altro (il successivo, di solito) e coincidente con la cesura1 (termine su cui contiamo di tornare):

Odi greggi belar, // muggire armenti;
gli altri augelli contenti, // a gara insieme
per lo libero ciel // fan mille giri

(G. Leopardi, Il passero solitario)

Si parla di rima interna nel caso in cui rimino tra loro una parola posta a fine verso con un’altra interna allo stesso verso:

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.

(G.Pascoli, Lavandare)

Si parla, infine, di rima ipermetra quando una parola piana o baritona (cioè accentata sulla penultima) rima con una sdrucciola (accentata sulla terzultima) che ha una sillaba in più rispetto alla misura del verso. In tal caso, la sillaba in più viene considerata parte del verso successivo:

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a sé stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la can
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
stampa sopra uno scalcinato muro!

(E. Montale, Non chiederci la parola)

Tolti di mezzo i problemi inerenti allo schema metrico e alle rime, sembra opportuno dedicarci, infine, alla necessaria definizione di sonetto, forma strofica peculiare della tradizione letteraria italiana. In verità, il nome deriva dal provenzale sonet ovvero un componimento poetico caratterizzato dall’accompagnamento musicale. Secondo l’ipotesi più accreditata, l’inventore di questa fortunata forma metrica sarebbe quel famoso Giacomo da Lentini che fu ‘notaro’ stimatissimo della corte di Federico II e personaggio di tutto rispetto nell’ambito della scuola poetica siciliana. L’idea diffusa è che il nostro notaro raffinato l’abbia ricavato dalla stanza della canzone, modello strofico (su cui torneremo) già affermato e ampiamente divulgato dai trovatori provenzali. Pare importante, a tal proposito, sottolineare che la prima comunità poetica italiana (quella siciliana appunto) ebbe rapporti strettissimi coi trovatori di Provenza, che proprio in Sicilia trovarono prima accoglienza e poi scampo dalla, tristemente fortunata, operazione di sterminio passata alla storia come crociata contro i catari-albigesi.
Lo schema metrico del sonetto si basò, fin dalle origini, e per il resto della tradizione poetica italiana su di una sequenza di quattordici endecasillabi, organizzati in due quartine (corrispondenti ai piedi della fronte della canzone) e due terzine (corrispondenti alle volte della sirma). Due ordini di strofe che appaiono sempre strettamente legate da un complesso e virtuosistico rapporto di rime.
Per le quartine gli schemi rimici più ricorrenti sono: ABAB. ABAB (ossia con rime alternate, secondo la forma più antica) oppure ABBA.ABBA (con rime incrociate). Parimenti, per le terzine gli schemi più utilizzati sono: CDC.DCD (con rime incatenate); CDC.CDC (con due rime alternate); CDE.CDE (a tre rime replicate, secondo la forma più antica); CDE.EDC (con rime invertite).
Ma visto che il virtuosismo dei poeti italiani davvero non conosce limiti, per le quartine si annoverano diverse varianti più rare: ABAB.BABA (come in Parabola di Gozzano, appunto); ABBA.ABAB; ABAB. BAAB; ABBB.BAAA. Ancora più ampio appare lo spettro delle possibilità nelle terzine, per le quali sono ammesse tutte le combinazioni a patto che nella seconda terzina sia presente almeno una rima della prima. Potremo quindi avere: CDD.DCC; CDD.CDD; CDE.DEC; CDE.ECD; CDE.CDE (a tre rime).
Esistono, inoltre, delle varianti particolari del sonetto (e… mettetevi comodi perché sono davvero tante) come:

  • il sonetto continuo in cui le rime delle quartine vengono riprese dalle terzine e viene a mancare la consueta separazione concettuale tra fronte e sirma;
  • il sonetto caudato che ha una sorta di coda, aggiungendo uno, due o tre versi allo schema normale: o un endecasillabo in rima con l’ultimo verso o due endecasillabi a rima baciata e diversa dalle precedenti (talora replicati o triplicati se si tratta di un sonetto ritornellato) o un settenario in rima con l’ultimo verso del sonetto e seguito da due versi in rima baciata e diversa dalle rime precedenti (sonettessa);
  • il sonetto doppio, che aggiunge un settenario dopo ogni verso dispari delle quartine (primo e terzo) e dopo il secondo delle terzine (AbBBbA. CDdC. CDdC);
  • il sonetto rinterzato che introduce un settenario anche dopo il primo verso delle terzine (AaBAaB. AaBAaB/CcDdC.DdCcD);
  • il sonetto con fronte di dieci versi (anziché otto (ABABABAB/CDC.DCD);
  • il sonetto minore che ha versi più brevi dell’endecasillabo;
  • il sonetto minimo scritto in quinari;
  • il sonetto comune in cui gli endecasillabi si alternano coi settenari;
  • il sonetto bilingue in cui si alternano due lingue (di solito italiano con provenzale o francese o latino);
  • il sonetto trilingue in cui si alternano tre lingue (italiano con provenzale o francese o latino) che è di venti versi articolati in quattro strofe;
  • il sonetto metrico in cui sette versi italiani dell’autore alternano con sette versi latini (ovviamente non endecasillabi) di autori classici;
  • il sonetto retrogrado che può leggersi anche dall’ultima parola alla prima (pur mantenendo inalterati senso, struttura metrica e rime… non so se mi spiego!);
  • il sonetto marotique, variante introdotta e divulgata in Francia da C. Marot, nella prima metà del ‘500, che sostituisce alle terzine una terza quartina e un distico a rima baciata;
  • il sonetto inglese - se così si può dire - frutto della reinterpretazione che dell’italiano fecero T. Wyatt e il conte Surrey, con tre quartine e distico finale, e Shakespeare al quale risale il medesimo schema (tre quartine e un distico) ma con maggiore varietà di rima (ABAB. CDCD. EFEF. GG).
Insomma, speriamo di non avervi confuso troppo le idee. E, per farci perdonare, vorremmo rassicurarvi ricordando che non sempre (e forse per fortuna) le poesie utilizzano forme metriche o schemi rimici della tradizione. In particolare, si parla di versi sciolti quando un poeta, pur usando i versi della metrica classica, ‘scioglie’ i suoi versi da ogni obbligo di rima. Così, ad esempio, Luzi:

Nella casa di N., compagna d’infanzia

Il vento è un aspro vento di quaresima,
geme dentro le crepe, sotto gli usci,
sibila nelle stanze invase, e fugge;
fuori lacera a brano a brano i nastri
delle stelle filanti, se qualcuna
impigliata nei fili fiotta e vibra,
l'incalza, la rapisce nella briga.
Io sono qui, persona in una stanza,
uomo nel fondo di una casa, ascolto
lo stridere che fa la fiamma, il cuore
che accelera i suoi moti, siedo, attendo.
Tu dove sei? sparita anche la traccia...
Se guardo qui la furia e se più oltre
l'erba, la povertà grigia dei monti.

(da Primizie del deserto, Schwarz, 1952)

Se poi questo non dovesse ancora bastare a rassicurarvi, possiamo ribadire che i versi sciolti non vanno confusi coi versi liberi, caratteristici della poesia moderna e contemporanea, dove il poeta, oltre a rifiutare schemi rimici prestabiliti, si muove con libertà assoluta nella misura del verso, con un numero di sillabe variato e variabile, in infinite combinazioni espressive che hanno solo il suo estro come confine.

Riferimenti Bibliografici essenziali:
M. Ramous, La Metrica, Garzanti, Milano, 1991.
G. Gozzano, La via del rifugio, The perfect library, 2015
Guidorizzi-Rancoroni-Galli, Sirene. Poesia, Torino, Einaudi, 2024
Panebianco-Bubba-Frigato-Cardia-Varani, Leggere per vivere. Poesia, Bologna, Zanichelli, 2024
Nota:
1 La pausa primaria coincide con la fine stessa del verso, ma all’interno del verso possono esserci pause più lievi che vengono chiamate cesure (dal latino caedere che vuol dire tagliare). La cesura si trova di norma nei versi lunghi, dall’ottonario in su, e coincide sempre con una fine di parola. Tale pausa può essere forte ed evidenziata ad esempio da virgola, punto o altro segno di interpunzione oppure essere debole, ad esempio in coincidenza con una sinalefe che lega i due emistichi del verso.



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