(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 48 - Sette poesie inedite di Erika Signorato

 

di Sergio Daniele Donati

"Accogliere" è un verbo denso di richiami e crea nell'animo di chi l'ascolta una sorta di anelito, una sottile linea di morbida speranza. 
A volte capita ancora di incontrare poesia che, pur non citandola mai, fa dell'accoglienza uno dei suoi principali moti. 
Certo, la Poesia, si perfeziona sempre nell'essere accolta dalle orecchie e dal cuore del lettore, ma nelle poesie inedite di Erika Signorato esiste anche un movimento contrario che fa sì che il lettore si senta assorbito ed accolto e, in un certo senso, accudito dalle lettere e dalle parole; da testi e tessiture, in altri termini.
Quella di Erika Signorato è dunque poesia di cura, anche di chi la riceve, come dovrebbe essere, in effetti, quasi sempre in poesia. Dovrebbe...già!

A tratti con linee di una scrittura poetica di testimonianza di un quotidiano o di eventi personali, questi inediti, tuttavia, non rinunciano mai al simbolo che diviene con abilità estrema e massima capacità di alternanza di figure retoriche interessanti, una sorta di acceleratore i quella sensazione di accoglienza cui si faceva sopra cenno. 
Basti come esempio il verso finale della prima composizione: fino all'ultima costellazione.
L'evidente antitesi tra detto e non detto, tra l'infinito celato nel firmamento e quell'aggettivo (ultima) che pare calato nel contesto con una nonchalance suprema, quasi ad indicarci che il paradosso è alle volte l'unica via di comprensione dell'umano, come del metafisico, giocano a nostro avviso quell'effetto attrattivo e positivamente seduttivo che i versi della poeta esercitano su chi ha la fortuna di leggerli.

Persino la morte, con il portato doloroso che comporta, ampiamente espresso, appare nei versi della poeta un imprescindibile passaggio, qualcosa al cui incontro non si può evitare di andare.

ti ho vista morte
trasudare il pallore
sul retro del viso

lontana dal sorriso

eri in mio padre,
il giogo ai suoi occhi
sbranati, sbarrati

l’amigdala il tuo indice

assassino, silente.

I versi di Erika Signorato, qui così diretti e dolorosi, così inevitabili e volutamente descrittivi di una relazione tra psiche e corpo del tutto evidente e pulsante, non hanno anche per voi l'effetto di depotenziare quella malefica presenza proprio perchè "non si può non parlarne"?
Non vi sentite anche voi accolti in una testimonianza che, proprio perchè è come è, diviene constatazione dell'umano e accettabile (e nella quale ci si sente accolti ed accettati)?
D'altronde questo lo esprime pienamente la poeta stessa quando scrive:

silenzio, mani alla luce
- cosa attendere se il morire
nessuno ascolta, restano
gli occhi fissi, le urla dei battiti

chiamare per nome la vita.  

Già cosa ci resta, se non il chiamare per nome la vita, esercitando la nostra facoltà più umanamente spirituale?
Cosa ci resta se non la facoltà di chiamare a noi, di nominare, in una poesia che si fa preghiera, ciò che alle volte ci pare sfuggire?
E come dirlo con maggiore maestria di quella dalla poeta dimostrata, come se fosse un gesto naturale, spontaneo e nemmeno tanto meditato?
Non ci sentiamo tutti, con i nostri infinti limiti, accolti da questi magnifici versi?

(Per la redazione de Le parole di Fedro - Sergio Daniele Donati)



I
scivolavamo tra gli incroci
senza fermate, accostati
a quel solo fanale sgomento
- tu risalivi la luna -

io a freni spenti ti chiamavo
- a discesa, così raccolti -

fino all’ultima costellazione.

(Aneliti)

II

è nel senso di un mattino
quel luccicare strano
- discinto il nodo - labbra
al primo vuoto, ansimi
di pietra e sale tra le braccia

tu che sussurravi il cielo
io che imparavo a crederti.

(Al molo) Trieste

III
a febbraio nascono i gatti
ripetevi e nei cerchi a sguardi
stremavi i fumi del sigaro

- impazienza di una candela,
colava una luce furtiva -

nascere un balzo, un tiro la vita.

IV
quei papaveri lungo le rotaie
a occidente e a oriente
degli sguardi, avvampi e noi

fragili rossi a inventare
tramonti, distanze le mani
sconfinate tra i petali -

io perdo i semitoni nel tuo
giro pentatonico, lievi
sakura e fremito il papavero

rinasce ciò che muore - dici -
raccoglieremo il riso
- ti dico - e il vento a cardare
i deragli, a lenire orizzonti

a tessere nostra l’alba domani.

(Fioriture ) Trieste - Tokyo

V
ti ho vista morte
trasudare il pallore
sul retro del viso

lontana dal sorriso

eri in mio padre,
il giogo ai suoi occhi
sbranati, sbarrati

l’amigdala il tuo indice

assassino, silente.

VI
è sempre poco
il tempo per l’amore

- tu apri gli argini,
risucchia il limbo franto

e accendi lo spazio
intorno al giro delle albe.

VII
silenzio, mani alla luce
- cosa attendere se il morire
nessuno ascolta, restano
gli occhi fissi, le urla dei battiti

chiamare per nome la vita. 
 
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NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
Erika Signorato (Verona, 1971) deve la propria formazione agli studi classici e musicali, ai luoghi amati nel profondo (Trieste, Vienna, le Dolomiti), alla famiglia che tanta parte riveste nel continuo dialogo esistenziale. Vive a Treviso e da anni si dedica all’insegnamento del pianoforte e di Musica nella scuola. Immersa nell’esigenza della scrittura poetica fin da giovanissima, solo di recente ha iniziato a condividerla. Sue poesie e raccolte hanno riportato segnalazioni e riconoscimenti in occasione di premi e concorsi letterari; singoli testi risultano presenti in riviste, blog, reading e antologie. Per Delta 3 Edizioni è stata pubblicata la silloge “In levare” (2023). “La memoria del sale” per puntoacapo Editrice è la sua seconda esperienza editoriale.

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