(Redazione) - Fisiologia dei significati in poesia - 17 - Il poeta e la sua parola (parte terza - la tesi)
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di Giansalvo Pio Fortunato |
Entrare nel far essere della poesia significa rintracciare un percorso capace di sciogliere tutte le ambiguità e di correlarsi ad una maggiore analiticità dell’atto poetico. Il far essere è ben diverso da quel complesso di ricostruzioni di carattere rigorosamente ermeneutico, che vorrebbero un mistero finissimo, gravitante attorno alla poesia, ed una visuale poco retrospettiva: incentrata, dunque, sulla semplice espressione poetica e su nient’altro. Certamente risulterà alquanto ovvio che un’analisi sui motivi “ontologici” della poesia si regoli strettamente sull’espressione poetica e su nient’altro. Eppure, è qui che si giunge al nocciolo della questione analitica e riflessiva.
Il
problema di buona parte della critica e, soprattutto, il problema di
buona parte dell’analitica sulla poesia tende ad essere
vigorosamente connotativa rispetto ad una sorta di assoluto
dell’espressione poetica nei confronti del suo stesso autore. Ci si
relaziona alla poesia, per intenderci, quasi come se essa rappresenti
una sorta di mistero tribolante, un corpo del tutto irrefrenabile che
si impossessa dell’autore e lo porta a soluzioni che sono valide in
una dimensione alternativa. È, per certi versi, la fascinazione
stessa della poesia: l’incomunicabile, l’incontrollabile, il non
vincolabile, che plasmano quella semplice materia libera che è la
parola. Non c’è nemmeno da sorprendersi se, innanzi a questo
potenziale, si riconoscano gli avanzamenti dell’ermeneutica, capace
di riscoprire nella scheletricità abissale delle cose e dei soggetti
il segreto recondito dell’Essere. La Kehre
[1]
,
alla quale molti – vuoi o non vuoi – pensano, ha per suo
obiettivo certamente il riconoscimento di uno statuto differente:
l’enorme capacità potenziale della poesia, così come la
performatività significativa immensa della poesia, decentrano
l’individuo e la sua capacità postulante, per iniziare un percorso
alternativo in cui, indipendentemente ed attraverso l’individuo, la
complessità del mondo di senso, del mondo che viene portato ad
Essere,
chiarisce il suo sopravanzare, il suo già essere, per una
relazionalità interna, rispetto all’essere proprio dell’individuo
ed alla sua capacità di comprensione e di resa.
Così,
il fascino ontologico diventa quasi mistico e liturgico. Si carica,
dunque, di quella dose delfica,
che lascia molto spazio al sentire incontaminato del poeta ed apre ad
una struttura pontile, capace – cioè – di far essere la visuale
singolare, come la visuale cosmica. La poesia riesce, dunque, a
rendere il motivo cosmico, che la semplice induzione, pur con tutto
lo sforzo analitico possibile, cerca solo di avvicinare e di
postulare, con una draconiana dose di verità. La stessa poesia,
intesa come postura, diventa l’esempio o la connotazione precisa
del sentire incontaminato che connette l’individuo vigorosamente
formato ed il mondo nella sua interezza. Si può dire, quasi, che la
poesia diventi il sinonimo della nuova a-letheia,
dello svelamento riflessivo che non ingloba elementi costitutivi: non
ammette alcuna contaminazione. Lascia, si potrebbe dire,
semplicemente passare il totale richiamo delle cose alle cose, delle
anime alle anime. In questo modo, la poesia diventa l’emblema di
una percettività esistenziale, capace di far riscoprire l’intima
relazione tra i motivi di apertura di un singolo individuo, che cerca
perennemente di ri-caratterizzare il proprio mondo (nella
rinnovabilità dell’esperienze), ed un mondo che non chiede
all’individuo il permesso d’essere e di esistere. Nell’
e-sistenza,
di cui l’atto poetico diventa, in questo contesto, il manifesto più
grande, si rinuncia ad ogni teleologia, ad ogni imperituro controllo
dell’individuo pensante sul mondo universale.
L’ombratile
dello scenario poetico, dunque, fa delle stratificazioni il suo
senso, presentando un corpo poetico che fa parlare col Tu
alla
poesia. Fenomeno, questo, abbastanza interessante.
Quando,
infatti, ci si riferisce alla poesia
si
hanno, nel nostro mondo critico ed analitico, due categorie
alternative: la poesia
espressiva
e la poesia
ipostatizzata.
Questa visione densamente connotativa, questa dialogica
interlocutoria con la poesia, va freneticamente ad ipostatizzare la
poesia. Il linguaggio, unico elemento costitutivo della poesia, non
si distacca, in tal senso, da un certo atteggiamento logicamente
referenziale rispetto alla realtà, che ci si aspetterebbe nella
riflessione sul linguaggio proposizionale. Pur smarcandosi dalle
esattezze di una non transitorietà delle modalità d’essere del
mondo circostante (esterno), guarda attentamente al mondo creato dal
linguaggio con lo stupore di un bambino dinanzi al cielo stellato;
con lo stupore di un estraneo che si rivolge al mondo costituitogli
attorno senza alcuna presa ferma. Solo divampante: solo pronto a
mostrare, magari anche onestamente, quella vitalità diretta nel
linguaggio, che è riferibile solo al linguaggio e non al suo
postulatore.
E
così, il sacro Dio scende nelle pieghe della creatività: le
irrobustisce, le fa essere voce di un movimento astrattivo e volto
alla sublimazione, le fa essere motivo di annichilimento. E così, la
sacra Musa guarda vitalmente negli occhi la limitatezza di resa umana
in parola per fornire echi, lezioni più grandi, mondi di mistero
sconfinati e, per se stessi, intangibili. Con più perspicacia,
invece, la poesia mostra un’introspezione di grande riguardo,
capace cioè di tradurre ciò che quotidianamente l’uomo non vuole
dirsi: le sue secessioni, le sue scissioni, i passaggi immaginifici
che rendono reali (seppur nella sfera della significatività) ciò
che non si ha il coraggio di dirsi con chiarezza ed onestà personale
integerrima. Con ancora più perspicacia (meno psicologistica),
dunque, la poesia diventa il terreno in cui la sua stessa ambiguità
poggia sull’inconsistenza di un soggetto esatto. In cui, per
intenderci, con una schiettezza fenomenica (badiamo bene: non
fenomenologica),
si guarda alla poesia come ad uno stato d’essere del linguaggio e
dell’esperienza e si fornisce grande risalto all’azione interna,
che la poesia è in grado di generare, e non all’esperienza che
l’individuo fa della poesia. Tutte le espressioni, infatti, del
tipo l’autore
attraverso la poesia riesce o attraverso la poesia fa
rappresentano solo delle vili ipostatizzazioni che eliminano dal
campo il soggetto poetico e, pur riuscendo nella loro poetica e
fascinosa connotazione, lasciano i percorsi analitici cruciali
totalmente inesplorati. È come se, in definitiva, si raccogliesse
l’espressione come un campo alieno dall’ideazione umana e,
soffermandosi sulla visuale indipendente della sola poesia
(attraverso la sua esteticità o tramite la ragione del suo
costituirsi per l’uomo) generano analisi originali – certamente –
ma finalizzate al solo espletamento di un fenomeno, quello poetico,
che è paradossalmente dimentico del suo autore in carne d’ossa.
È
questa la tesi ermeneutica della poesia: la metapoesia.
Capace, questa, di affascinare per la sua profondità di scandaglio
fenomenico, capace di aprire – forse – alla poesia che addita se
stessa. Risultante inutilizzabile, tuttavia, per una completa
comprensione dell’atto poetico, perché posta nel presupposto –
per ingenuità – dell’autore dell’atto poetico e della sua
peculiarità fenomenologica
____
NOTE
[1]
Kehre:
la svolta fenomenologico-ermeneutica che Heidegger si augura di
ritrovare nella sua espressione dell’Essere e che, si evince
chiaramente, il filosofo tedesco scova nella poesia e nel linguaggio,
così sublimato, attraverso le sue analisi tutt’altro che meramente
filologiche, a discapito di una certa analiticità propria, per
esempio, di Essere
e tempo.
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