(Redazione) - Fisiologia dei significati in poesia - 18 - Il poeta e la sua parola (Parte quarta - Antitesi)
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| di Giansalvo Pio Fortunato |
Ad un’analitica ipostatizzata della poesia risponde una ferrigna analitica espressiva, la cui ragione si istituisce nel modo proposizionale e nella rigorosa artigianalità. In tal senso, la riflessione meramente riconducibile ad un approccio da enunciato o la più costruttiva critica letteraria si muovono entro questo regno. Regno, nel dettaglio, tutt’altro che semplice, tutt’altro che coerentemente mediato.
Senza
dubbio – è bene precisarlo – la poesia, alla luce di un
approccio proposizionale, trova poco spazio nella filosofia del
linguaggio, malgrado evidenzi dei limiti anche abbastanza netti
rispetto al diffuso modo di intendere scientificità e referenzialità
del linguaggio. La pratica poetica, infatti, mostra abbastanza
nettamente come uno stadio ontologico, logicamente costruito e
dimostrato, possa essere smantellato dalla capacità connotativa e
costitutrice di essenzialità ideali, com’è proprio della poesia.
La rappresentazionalità sistematica del linguaggio comune ed
ordinario, in tal senso, deve contare sempre sul modo esatto con cui
ad un oggetto corrisponda esattamente quella parola indubitabile e
come a quella parola indubitabile risponda una realtà non
transitoria: una realtà fisicamente netta ed immanente.
Questa
conclusione, che si avvale di una certa analiticità enunciativa,
assume, come contropartita complementare, l’applicazione
pragmatica, garante di quel supporto laterale che connota lo spazio
rappresentazionale di una buona dose significativa. Anche questa
indagine implicazionale e contestuale non affronta, tuttavia, la
capacità generativa del linguaggio, perché radicata in un sostrato
ontologico fermo ed irreversibile: in un sostrato metafisico
presupposto. Potrebbe ricorrere in nostro aiuto certamente l’indagine
ermeneutica. Il suo mancato salto realmente analitico fenomenologico,
tuttavia, lascia abbondanti dubbi, vigorosi residui.
Ciò
che, allora, definisce in antitesi il potenziale poetico è,
anzitutto, la mondanità del linguaggio, la sua forza non traducente,
ma costitutiva. Troppo spesso, infatti, l’ipostatizzazione poetica
affibbia all’irragionevole miracolosità dello scrivere in versi un
potere traducente e trascendente, che travalica l’uomo e la sua
stessa coscienza d’essere tale. Nell’azione del linguaggio
poetico (che, per inciso, è azione ideale per eccellenza), si
manifesta una semi-coscienza o, per alcuni, un’incoscienza
prodigiosa, che esprime l’inesprimibile, il taciuto, l’abissale.
All’azione poetica, dunque, ci si avvicina più che come dei
sacerdoti ermeneutici, come dei sacerdoti assoluti, dei sibilanti
artigiani affetti dall’oppio della sensibilità distinta, unica ed
inenarrabile.
Un
approccio analitico espressivo ha, allora, dei suoi vantaggi. Dei
vantaggi che, in un non casuale schematismo dialettico, mostrano
certamente l’altro verso, l’altro volto, l’altra modalità
indagante. Pur non richiedendo alcuna disgiunzione assoluta e ferma:
pur non avendo bisogno di un aut
aut.
Quando,
infatti, si ritiene sommariamente che ciò che si è scritto in
poesia il
poeta lo abbia sentito,
si commette un errore di tipo rigorosamente epistemologico. Il
sentire,
al quale siamo classicamente abituati, è un sentire tanto empirico
quanto idealistico. Un sentire avente una certa fiducia
nell’esperienza pura e nella sensibilità pura. Ossia: una fiducia
ed una credenza totale nel disarticolato flusso somato-fisiologico
(in una chiave rigorosamente empirista) e nella possibilità di
un’irrazionale totalmente disarticolato (in una chiave
psico-analitica) che, tramite la parola, trova una sua
formalizzazione vero-simile. Mai totalmente adempiente.
L’errore
di fondo, costitutivo di queste due conclusioni, sta anzitutto nella
disarticolazione tra coscienza e corpo. Alla quale si aggiunge, ancor
più pertinentemente, l’idea di una formalizzazione del linguaggio
capace di rendere comunicativo ciò che è sentito solipsisticamente.
Una visione, questa, che fa epistemicamente rabbrividire per le sue
connotazioni residuali, per le sue indeterminazioni.
Come
operazione dialettica vorrebbe, infatti, se la poesia riesce ad
offrire una capacità costitutiva al linguaggio che il linguaggio
stesso non si riconosce, se la poesia riesce attentamente a
ri-calibrare un’ontologia fisicamente riferita nei meandri
dell’idealità ontologizzante, se la poesia riconosce al linguaggio
un potere molto più che rappresentazionale, molto più che
referenziale, il linguaggio, a sua volta, spezza l’assedio delfico,
empirico, idealistico, grossolano della poesia. Il linguaggio, per
intenderci, riesce, attraverso l’analiticità della sua esperienza
(che analizzeremo nella Sintesi
dei
prossimi articoli), ad eliminare quelle errate convinzioni di fondo
che alimentano una fiducia assolutistica in un sentire psicologico e
in una costituzione di senso imponderabili, inalienabili ed
infrangibili. Così com’è la stessa esperienza del linguaggio ad
eliminare l’interessata fiducia nella grazia concettuale e nella
sua totalità assolutamente indipendente.
Vorrei,
in ultimo, proprio rimarcare questo aspetto. La solipsistica
convinzione di un sentire personale assoluto, di una riconnessione
disarticolata (ma traslucida) col mondo, di un sentimentalismo
surrogante contenuti significativi non attribuibili in alcun modo al
campo di vissuto del linguaggio, si regge semplicemente
sull’ignoranza o su una creduloneria a-critica.
Può
una parola, per ridurre al minimo, essere portatrice di un senso
autonomo ed intrinseco? Correttamente l’analitica
rappresentazionale (filosofia del linguaggio sugli enunciati) fa
esattamente notare che è l’esperienza o il vissuto individuale a
precedere la costituzione del linguaggio. Si tratta, tuttavia, di
un’esperienza precedente o di un’esperienza altra? È questa una
domanda congrua e corretta. Ha, in tal senso, la parola la facoltà
di esprimere l’inesprimibile? Correttamente la fenomenologia del
linguaggio annota come ogni esperienza è, di per sé, valorialità,
attribuzione di senso, esercizio cosciente. L’inesprimbile è
inesprimibile, dunque, secondo una radicata suddivisione di razione
ed irrazionale. Certamente non in una chiave differente: in una
chiave rigorosamente ed analiticamente poetica.

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