(Redazione) - Dissolvenze - 47 - Aggiustate di sale e di pepe
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di Arianna Bonino |
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Giostra di zucchero, opera di un pasticcere di Bruxelles, fotografia di Sasha Stone (1933) |
Ditemi pure quello che volete: sarò un'inguaribile flâneuse, una vagabonda dei bordi, dei margini, delle svolte casuali, degli inciampi e dei ritrovamenti altrettanto fortuiti, ma davvero niente può attrarre il mio gusto più di una cosa insolita, inapparente, schiva, dimenticata o perduta. Ma, soprattutto, passata. Per capirci meglio, sto parlando di quel silenzio che ammette di esser rotto unicamente dal calpestio infantile d’un pavimento sconnesso, percorso furtivamente violando il divieto e oltrepassando la soglia di un mondo proibito quale solo può essere un solaio popolato da cianfrusaglie e chincaglierie. Di quel pulviscolo che aleggia sulle lenzuola stese ad assonnare i mobili di una casa che si lascia dormiente, senza sapere quando si farà ritorno, sul fantasma d’un pianoforte dimenticato fino a che il tempo stesso non lo scordi.
Se
questo “modus amandi”
vale in primis per le
cose lontane o per parti di loro, s’attaglia al meglio alle
ingiallite trame d’un consunto romanzo scompaginato, così come ai
vecchi cappelli color vento che imbrigliano tra filo e filo la
pioggia di mille e più cieli trascorsi e il fumo di treni e velieri
sbiaditi. E con lo stesso sguardo – e palato – un po’ retrò
mi piace curiosare anche nel variegato universo dei preparati
gastronomici e degli abbeveramenti d’un tempo.
Trovo
irresistibile ficcare il naso nei ricettari d’una volta, quelli
dove le dosi erano beatamente approssimative e vaghe: “quanto
basta.., una presa o due.., finché non risulti omogeneo…, tenace
ma non troppo…, a piacere…”, il che rende(va) meravigliosamente
aleatorio l’esito della cucinata, favorendo, d’altro lato, la
nascita di nuove variazioni e pietanze.
Sfido
chiunque, poi, a non rimanere incantato e trasognante davanti alla
descrizione degli antichi banchetti, su tutti il menù che il Maestro
di casa Bernardino Buontalenti ideò per le nozze di Maria de’
Medici con Enrico IV re di Francia, tenutesi a Firenze il 5 ottobre
dell’anno 1600:
“Insalate
lavate in bacini, Susine semiane, Fragole, Pavoni rivestiti, Fortezze
piene d'uccelleti vivi, Galli d'India affagianati in foggia d'idra e
guarniti, Capponi in pasticci in forma di grua, Pasticci di vitella a
foggia di liocorno, Pasticci di cinghiali in forma di cignali,
Pasticci a uso di drago con carne, Tartara secca addiacciata di
zucchero, Torta biancha senza sfoglia addiacciata di zucchero, Torta
di più colori, Lamprede piene di crema, Piatti di palle di citornate
adornate di figurette, Aguglie di pane di Spagna adornate del
medesimo, Turbanti sfogliati con animalii sopra, Prosciutto sfilato a
foggia di un gallo, Un lavoro di figure di burro, Tortiglioni ripieni
sfogliati, Lingue di bue adornate, Pollastri abborracciati e armati
di pere, Pollanche abborracciate piene di crema, Anitrotti coperti di
meciado, Capponi coperti del medesimo, Piccioni torraioli alla
Catelana, Ortolani con fette di pan dorato, Quaglie con sua crostata,
Piccioni grossi arrosto, Pollanche d'India arrosto, Fagiani a
lanterna, Pollanche affagianate adornate di bracciuole lardate,
Leprotti o conigli lardati alla franzese senz'osso coperti di
ravioli, Petti di vitella stufati alla moresca, Pasticci all'inglese
in forma di pescie, Bianco mangiare in fette, Pasticci di piccioni
torraioli a rocca, Crostate di cervelle e animelle, Torte verdi alla
milanese, Tartara di rilievo, Orecchioni di pasta, Rose di biscotto,
Tommacelloni con fegatelli, Tordi e allodole con salsiccia, Pasticcio
a triangolo di carne battuta, Tortole con crosta e sua adornamenti,
Crosta di persiche, Porchette ripiene, Pollastrelli a uso di
pavoncini arrosto, Pasticcio ovato d'oglia potrida, Stame o coturnice
alla franzese, Crostata di vitella, Torta d'Inghilterra, Paste fatte
con le arme del Re e della Regina, Crostata di cedro, Torta di bocca
di dama, Ciambellette, Torte diacciate, Pasticcetti di tartufi,
Gofani, Latte mele in bacini, Pasticci voti entrovi conigli con
sonagliera, Marzolino, Raviggiuoli, Ulive, Cialdoncini, Pesche in
vino, Pere, Uve, Azeruole, Carciofi, Sedani, Finocchio, Pere cotognie
in gelo, Mele appie in candido zucchero…”
Ora,
non è solo per la figurazione dello sconfinato e favolistico
allestimento che vien da sognare oche arrosto che ci strizzano
l’occhio quali si fosse novelle piccole fiammiferaie. Non è tanto
per la vastità dello sterminato e luculliano imbandimento che
misticamente ci appare, ma sono quelle “figurine di burro”,
quelle “mele appie in candido zucchero” a rendere il tutto un
grande e invincibile desiderio in cui cullarsi, il desiderio di un
tempo impossibile, di un luogo introvabile, del sapore di quelle
caramelle rosa col fiore dentro che non abbiamo mai più
ritrovato.
Come non innamorarsi poi del Pellegrino Artusi,
che di ogni storia fa una ricetta e di ogni ricetta un dipinto in
chiaroscuri e vapori, tanto che par d’esser lì in un angolino,
accanto a una bella e grande cuoca col grembiulone bianco e i tegami
di rame scintillanti appesi sui fuochi, lei profumata di buono da
mangiare, noi pronti a rubare un biscotto brillante di zucchero o ad
assaggiare di nascosto il sugo più memorabile intingendo il dito in
qualche pentolone infiammato.
Su quei taglieri già incisi da
mille colpi d’accetta ci sono ciuffi di verdure, l’oro delle
cipolle, l’arco scuro e lucido dell’ultimo battito d’un luccio,
una mezzaluna pronta a triturare amorevolmente il dragoncello,
l’aglio in teste ancora bendate come piccole mummie:
“Prendete
un pentolo adatto e fategli in fondo uno strato di anguilla cui
soprapporrete uno strato delle verdure dette di sopra e quasi cotte
(gettando via il limone), poi un altro strato d’anguilla, un altro
di verdura, ecc., fin che ce ne cape.”
E ancora: “La farina
asciugatela al fuoco, o al sole, se d’estate”, oppure, il
favoloso incipit della ricetta della “Tinche in zimino”:
“La
tinca disse al luccio: “Val più la mia testa che il tuo buccio.”
Buccio per busto, licenza poetica, per far la rima. Poi c’è il
proverbio: “Tinca di maggio e luccio di settembre.”
Fate un
battutino con tutti gli odori, e cioè: cipolla, aglio, prezzemolo,
sedano e carota.; mettetelo al fuoco con olio e quando avrà preso
colore, versate le teste delle tinche a pezzettini e conditele con
sale e pepe. Fatele cuocere bene, bagnandole con sugo di pomodoro o
conserva sciolta nell’acqua, poi passate il sugo e mettetelo da
parte…”.
E, a proposito di lucci, è sempre l’Artusi ad
allertarci come segue: “quelli delle acque stagnanti si conoscono
dall’oscurità della pelle…”.
Ecco, se fossi poeta e
mi trovassi a corto d’ispirazione, personalmente saprei dove
sbattere la testa. E, mal che vada, potrei sempre sfornare un buon
pasticcio, se proprio non mi riuscisse l’agognato letterario
pastiche.
In ogni caso, si sappia, la mia è un’indagine
casuale e quasi del tutto teorica, ma pur sempre appassionata. Si
tratta, appunto, di girovagare tra le pagine ingiallite dal tempo e
dai culaccini di tazze e bicchieri usati per le dosi di qualche
intingolo che sa vagamente di rosolio o di ratafià.
Nessuno
esclude, comunque che, prima o poi, possa davvero cimentarmi nella
preparazione di una di queste paradisiache ricette infernali o,
perché no, in un alcolico elisir misterioso.
C'è
solo un rischio, ma, in fondo, è proprio quello che si vuole
correre: trovare – a suon di misture, rabbocchi, spezie, pizzichi e
cucchiai, mestoli, siroppi
e droghe – trovare, dicevo, quella pozione segreta che tutti
cerchiamo, quella che vorremmo saper fare, ma che non ha dosi certe,
lei che non lievita o impazzisce e non si capisce bene come
rinsavirla. Quella che ha un nome solo, ma la chiamano in tanti modi,
un sapore inconfondibile, ma mille ricette per farla, tutte giuste,
tutte sbagliate. Dolce e salata, vien bene solo quando piove con il
sole, come la gioia che arriva d’un colpo e non sai perché. Ma in
un attimo di distrazione, ecco che brucia e va perduta per sempre.
È
che si nasce improvvisi e inesperti si muore, incerti per tutta la
vita sul quanto di sale, su come aggiustare le cose, sperando soave
il vago sapore finale, o che almeno non sia troppo male.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
- A tavola con il principe, Materiali per una mostra su alimentazione e cultura nella Ferrara degli Estensi a cura di Adranka Bentini, Alessandra Chiappini, Giovanni Battista Panatta e Anna Maria Visser Travagli
- La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Pellegrino Artusi, Garzanti, 1970
- La piccola fiammiferaia in “Tutte le fiabe di Hans Christian Andersen”, Bietti, 1972
un brulicare di vita moribonda con scarti di misteriose variazioni e perdizioni persino dentro un olla potrida. una spolverata adorabile un sale di morire quanto basta a puntini puntini. che i moribondi vivono
RispondiEliminaGrazie Arianna ❤️
RispondiEliminaGrazie Arianna ❤️❤️❤️
RispondiEliminaMmh, l'acquolina! L'acquolina mi fate venire!
RispondiElimina❤️ (quantum sufficit)