La danza di Ama-no-Uzume e del figlio della luna



Io l'ho vista. Io c'ero. 

Mi chiamano Tsuki no musuko, il figlio della luna, e i miei occhi non vedono. 

Mi siedo sulle rocce e suono il mio Shakuhachi, il flauto di bambù, per chiamare le assenze. 

E la vista, quella del flauto, mi guida e porta immagini da lontano, oltre l'oceano. 

Ascolto incantato tra una nota e l'altra la risposta degli dei. 

Mi chiamano Tsuki no musuko, il figlio della luna, ma io non conosco il mio vero nome. 

Nè so da quale grembo io sia uscito. 

So solo che il mio Shakuhachi canta e incanta. 

E il mio fiato, così dicono, porta zefiri dorati nei boschi. 

Le foglie, sì le foglie rosse, sotto i miei piedi mi raccontano storie. 

Melanconie, rimpianti dei rami, desideri impossibili di tornare ad attaccarsi alla vita. 

E suono per loro il mio flauto come a dire: “tornerete, sotto altra forma, alla vita. Tornerà in voi, attraverso voi, la vita. Ora è il momento del riposo”. 

E la volpe rossa, tutte le sere al tramonto, si ferma immobile ad ascoltarmi prima che cada l'ultimo raggio di sole, e inizi l'ora della caccia. 

E io suono melodie che narrano di sguardi furtivi e storie d'amore animale in cui la volpe vive destini più degni dei fanghi in cui si rotola per catturare un topo di bosco. 

Mi chiamano Tsuki no musuko, il figlio della luna, ma la luna per me ha creato un altro nome. 

Me lo sussurra di notte, quando mi sdraio sotto un acero e la guardo, con gli occhi del flauto. 

E lei sorride e posa sulla guancia un raggio argento, che non vedo: lo sento leggero sfiorarmi la pelle. 

“Tu sei Subarashī Kakebuton, il grande consolatore”. 

Allora io suono per lei, la mia dea, e le distanze che la dividono dalle stelle si fanno più lievi. E la sua solitudine nel cielo si trasforma in poesia e, per un istante, la luna respira. 

Mi chiamano Tsuki no musuko, il figlio della luna, ma io non conosco il mio vero nome. 

So che il grande albero a Nord, quando suono per lui, intona un coro di frementi foglie che sussurrano per me un altro nome: “Ai no uta, canto dell'amore”, dicono. 

E io che non ho ancora conosciuto corpo di donna, o di dea, e ho occhi che non vedono, suono ancora più dolcemente, per chiamare le mie assenze. 

Io però l'ho vista, ne ho sentito i suoi passi nervosi andare verso la caverna. 

La dea Amaterasu, la dea del sole innervosita per il solito atteggiamento di suo fratello Susanoo. L'ho sentita rifugiarsi nella grande grotta. 

E ho percepito calare sul mondo degli uomini e degli dei l'oscurità. 

Per me, certo, non era che un battito di ciglia. L'oscurità è la mia compagna da quando porto ricordi. 

Ma immaginavo le foglie, il grande albero a Nord, la volpe senza il ristoro di un raggio di sole. 

E anche la luna, senza la consolazione di un cambio di guardia. 

Ne ero rattristato. 

Poi ho sentito altri passi. Ama-no-Uzume, la dea, si avvicinava alla grotta. E il suo sguardo si posava su di me. 

“Aiutami, Chōwa no toreta oto, suono dell'armonia. Aiutami a convincere Amaterasu ad uscire dalla grotta. Te ne sarò eternamente grata”. 

E io non avevo ancora conosciuto corpo di donna, né di dea, e la voce di Ama-no-Uzume mi colpiva il cuore. 

“Sai Ama-no-Uzume”, le dissi, “se io ora suonassi il flauto per te, e tu danzassi, sicuramente pian piano Amterasu uscirebbe dalla grotta. Che la tristezza e l'oscurità non possono durare all'infinito se il bambù incanta e la tua danza evoca, ma...” 

“Ma?”, chiese la dea 

“...io non posso suonare il bambù per te senza amarti per sempre. Che già la tua voce mi ha trafitto e l'odore della tua pelle mi inebria, e sento avanzare le più antiche narrazioni nel cuore. Se a questo tumulto unissi l'unica arte che ho, il flauto, non potrei evitare di amarti per sempre. 

E tu che te ne faresti di un figlio della luna alla perenne tua ricerca?”. 

Sentivo il dolce sguardo della dea su di me. E una mano carezzarmi i capelli e una voce fatata all'orecchio dirmi: 

“sei uno sciocco Chōwa no toreta oto, se pensi che io tutto questo non lo immagini già. Chi credi che si nascondesse tra le foglie a terra, sotto i tuoi passi? E chi pensi che a ogni tramonto si celi nel pelo della volpe, solo per sentire il tuo flauto? E tra le foglie del grande albero a Nord chi pensi che piangesse di gioia per la tua presenza? Tu non sai il tuo nome, né conosci il grembo da cui sei uscito e chiami le assenze. E non guardi, sì, non vedi, le presenze. Chiami così tanto l'amore dall'Altrove col tuo flauto, che non ascolti la sua risposta, qui, sempre davanti a te, al tuo fianco. 

E mi dedichi ora un amore fatto di aneliti insoddisfatti, mentre io sto già carezzando i tuoi capelli e tenendo la mano, e desidero posare le mie labbra sulle tue. Sei proprio uno sciocco, Chōwa no toreta oto”. 

E le sue labbra si posarono sulle mie e io conobbi il corpo della donna e della dea. 

Fu nostro allora il grande canto e capii che il mio flauto chiamava ciò che era al mio fianco da sempre. 

Narra la leggenda, pudica, che la dea Amaterasu fu convinta dalla sola danza di Ama-no-Uzume a uscire dalla grotta. 

A voi, figli della luna, posso dire che la dea uscì dalla grotta richiamata dalla danza del nostro amore. 

Il primo, nuovo, raggio di sole fu per la schiena nuda di Ama-no-Uzume e per i miei occhi, finalmente vedenti.
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