(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 27 - Qualche riflessione sulla parola

 
A cura di Sergio Daniele Donati

L'anno nuovo è appena cominciato - come un neonato lancia i suoi primi vagiti - e mi ritrovo in mano riflessioni che datano qualche decennio. 
La parola che riflette sulla parola stessa in fondo è il più antico e folle dei paradossi, ciò che ci dice, senza mezzi termini, che dal logos non siamo strutturati per uscire, se si escludono alcune esperienze contemplative estreme, e il pensiero si struttura attorno al linguaggio. 
Pensando parliamo e parlando arricchiamo il nostro vocabolario cognitivo e cogitante. 
La parola struttura il pensiero - e non il contrario (1- e il campo su cui ci muoviamo e, molto più spesso, inciampiamo come poeti e amanti della parola, va esplorato con la cautela del cercatore di tracce, nei boschi.
Un bosco pieno di insidie che cozzano inesorabilmente con frasi da noi apprese e ripetute, come slogan. 
Le ascolto spesso proclamate a macchinetta anche dalle menti che io considero più fini, quasi a voler trovare consolazione più che riflessione su ciò - la parola - che invece dovrebbe continuare a questionarci.
La parola poetica, si dice, è suono prima che significato. E io, certo, per carità, concordo. 
Se togliamo dal dire poetico la sua dimensione sonora, timbrica, ritmica e quasi magica, essa rimane impoverita e incapace di arrivare al corpo del lettore. 
Come ben spiega Raimon Panikkar in tutta la sua opera ma, in particolare, ne Lo spirito della parola (Bollati Boringhieri, 1998) bisogna saper ben distinguere logos da pneuma, significato/significante da suono, soffio, vento - Ruach se vogliamo dirlo in termini ebraici. 
Però è anche vero che l'effetto percussivo e vibratorio di ogni suono sul - e nel - corpo di chi lo riceve viene tradotto da quest'ultimo in termini metaforici, come simbolo di qualcosa di già sentito o vissuto. 
Avanziamo nella lettura, specie se di poesia, sempre per metafore ed è per questo che l'elemento aria del suono-parola può essere tradotto in significato e senso. 
Quando poi cerchiamo di trasmettere un'esperienza il passaggio si fa definitivo. 
Altro è, infatti, leggere una poesia, e verificarne gli effetti sul proprio corpo - esercizio questo che consiglio sempre a tutti -, altro è raccontare questa esperienza ad un'alterità che ancora non l'ha vissuta. 
E l'essere umano, specie se al servizio della parola, non può trattenere le proprie esperienze solo nel proprio corpo; deve dirne, per rendere omaggio alla sua domina-parola, perché di quella domina conosce la natura essenziale: essere sempre e solamente eterodiretta.

La tradizione ebraica ci racconta che Dio "disse luce, e luce fu". 
Fu una parola a dare l'abbrivio all'atto creativo primario. Una parola (or) su cui si sono spesi migliaia di tomi. 
Ma, fin da piccolo, io la domanda, forse un po' superficiale, me la sono posta. 
A chi ha rivolto quella parola il creatore? A chi ha augurato Luce, se nulla ancora esisteva, se l'alterità doveva essere ancora inventata?
La mistica di ogni tempo e cultura si è molto spesa per dare risposta a questa infantile domanda. E sono risposte molto pregne e profonde. 
Io però persisto a pormi la domanda che trovo figlia di quello stesso dire primario. 
C'è un che di ludicamente trascendente nel chiedersi a chi parlasse il creatore quando disse luce. 
E io questa questione-bambina la voglio tenere viva, anche se so che menti ben più elevate dalla mia hanno dato risposte molto profonde e filosoficamente fondate. 
E ho tenuto quella questione tanto viva in me che ora posso declinarla ogni volta che scrivo/leggo una poesia. 
A chi sto parlando? Chi (singolo o collettività che sia) immagino, mentre scrivo, che sarà il primo lettore dei miei inciampi e saltelli goffi nella poesia?
Credo che chiunque scrive dovrebbe porsi quesiti simili, perché ogni scrittura è sempre, coscientemente o inconsciamente, dedicata. 

E in questa dedica silenziosa sta il profondo passaggio da una parola seducente (quando non addirittura seduttiva) a una parola sedotta dal suo destinatario.
È un poco un mio credo minore che il silenzio sia lo stato naturale dell'essere umano e che, se parola deve essere, è quest'ultima che viene sedotta dal suo destinatario, reale o immaginario che sia, e non il contrario.
Dicono (e l'ho scritto sopra anche io, come uno slogan): la parola è sempre eterodiretta.
Vero, ma perché? Cosa ci manifesta l'altro da noi per stimolarci alla parola? 

L'altro è un silenzio, davanti al mio silenzio, che decidiamo assieme di riempire di suoni, che sono tanto più elevati quanto più le nostre parole sono portatrici di una sorta di preghiera all'altro di continuare il suo atto di presenza davanti a noi.
La parola non ha da essere seducente, ma è sempre etero-sedotta, perché, in fondo, contiene una supplica di ascolto da parte di un'alterità che è la nostra vera e unica sorgente di identità. 
C'è un'importante preghiera ebraica (Avinu Malchenu - Re dei nostri padri) che esordisce con un passaggio che esplica pienamente questa funzione della parola, se teniamo conto che la divinità rappresenta l'Altro da noi per eccellenza.

Avinu Malchenu Shemà Kolenu - Re dei nostri padri, ascolta la nostra voce. 

Che si sia credenti o meno, e io non so se lo sono, questa semplice frase descrive l'essenza del viaggio della parola; di ogni parola. 

Parola é sempre anche tacita preghiera di ricevere ascolto, perché io sono l'altro da me, certo, purché l'altro non mi volti le spalle e si rifiuti di dare ascolto a quel seme puro d'identità, quel lemma che io vorrei piantare nel suo terreno, perché dia frutti.

L'anno iniziato da poche ore vorrei che fosse dedicato a questa consapevolezza delicata sulla parola, che ogni detto o scritto sorgesse dal saper cogliere la sacralità di chi ci ascolta o legge, dal riconoscimento/riconoscenza del/per il fatto che egli é colui che rinnova la vitalità delle nostre parole, che a lui sono dirette. 

Alcuni dicono che non tutta la poesia si sviluppa attorno all'idea di Sacro, e io concordo appieno.
Ma c'è un "ma", ed è un "ma" profondo.
Solo essere letti, o ascoltati, rende sacre le nostre parole, perché è ai lobi e alle menti dell'altro da noi che esse aspirano e sono attratte. 
Nulla di ciò che scriviamo o diciamo, una volta emesso, ci appartenga (il congiuntivo è qui necessario, credetemi) più. 
"E così sia" (Amén), questo è il mio augurio per tutti noi per l'anno che oggi comincia.

Sergio Daniele Donati
























NOTE
1 - quand'anche fosse vero il contrario, un pensiero che struttura la parola non può che essere figlio di lemmi già conosciuti. 
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