(Redazione) - Il maschile - 05 - Homo selvaticus, chi era costui?

 

A cura di David La Mantia

Quando l’imperatore Diocleziano decise di perseguitare i Druidi, mettendoli fuori legge, la loro scelta fu quella di rifugiarsi nei boschi, in linea con quanto la loro religione proponeva. Non era cosa banale, visto che su di loro pendeva la pena capitale. Così trovarono casa nelle foreste, portando con loro una secolare tradizione sapienziale. Insegnavano a chi abitava nei villaggi a produrre formaggio, a fare innesti mai fatti prima, a ottenere il massimo dalla riproduzione degli animali da allevamento. Certo, chi aveva bisogno di loro doveva cercarli nei boschi, perché il loro posto non era più nelle tribù celtiche ormai controllate dai romani. L’immagine di Babbo Natale, al di là delle battute sui copy maker della coca cola, nasce lì. La barba bianca è tipicamente druidica ed è elemento essenziale degli abitatori della foresta, in contatto con gli spiriti della natura.
Questi abitanti dei boschi rappresentavano figure benefiche che aiutavano la popolazione, questo è certo. E non casualmente elargivano dei doni, a modo loro portavano dei regali a chi li avvicinava. Di sicuro contribuivano ad aiutare la gente a sopravvivere in un mondo segnato dalla violenza e dalla sopraffazione, in una natura sempre ostile alla vita.
Da qui ad arrivare al mito medievale dell’homo selvatico o uomo dei boschi è un attimo. Basti pensare a tutte la raffigurazioni presenti nell’Italia del nord. È molto comune scorgere negli affreschi del periodo un uomo peloso con la clava in mano, che esercita la giustizia della Natura. E quindi in grado di difendere se stesso e i "buoni", ma anche di punire, quasi fosse un giudice, un equilibratore della vita. Il Cristianesimo, poi, ha pensato bene di sfruttare in epoca medioevale questa figura, associandola a quella di San Giovanni Battista, barbuto, vestito di una sola pelle, con la croce lunga che si sostituisce al bastone.
Ma la sua presenza è un po' ovunque.
Anche in ambito semitico. Essenziale il Libro ermetico di Abramo l’ebreo, ricordato da Nicolas Flamel. Un Libro di rame e oro, di tenera scorza di alberi, verde e vegetale e creato nella leggenda da Imun Re dei boschi. A un altro livello, si può pensare a Nemrod, all’Enkidu del Gilgamesh, al Nabucodonosor folle del Libro di Daniele, a San Giovanni Battista, fino a San Francesco d’Assisi e all’Orlando folle dell’Ariosto, nudo, dionisiaco, fangoso. Oppure si può pensare al cavaliere verde e foglioso di Gawain, nell’omonimo poema inglese trecentesco.
Colpisce sempre il viso dell’uomo peloso, come quello ritrovato a Sacco (vicino a Morbegno), che rivela con evidenza, nella fronte pronunciata, negli occhi spalancati e nelle gote scavate, i tratti del Cristo bizantino, del Volto del Sinai, della Veronica, dell’Uomo della Sindone. L’Uomo dei boschi come rappresentazione del Nazareno, di stampo Merovingio, con tratti simili a Sansone, o comunque con richiami ad un custode dell’Eden terrestre (si pensi alla barba incolta di San Pietro), ancora sigillato per i più. L’Uomo dei boschi diventa l'archetipo di un Cristo sepolto nel cuore della natura, quasi un Deus sine Natura spinoziano.
L’Uomo selvatico realizza una Weltanshauung simbolica molto antica, come abbiamo visto.
Forse una delle più ricche di sfumature, costanti e intense della etnologia e della antropologia. Il “modello di riferimento” è simile in tutti gli archetipi riscontrabili in Europa: un uomo dai capelli lunghi, forti e dalla barba incolta, con le membra nude ricoperte di fronde, foglie, o più spesso pelli animali cucite in modo rozzo, con una clava o un bastone nodoso o una verga da pellegrino. L'atteggiamento è determinato, sereno, di nobile gentilezza, il viso quieto, assorto. Nelle rappresentazioni non può non rimandare ad Ercole, a Crono, re dell'età dell'oro, epoca di pace e prosperità, o a Priapo, divinità della fertilità.
Ma cerchiamo testimonianze nella poesia.
Nel 1367, Fazio degli Uberti mette in rilievo la sua capacità superiore di legarsi alla natura, di capirne i ritmi, di proporsi con equilibrio: “Come s’allegra e canta l’uomo salvatico / Quand’il mal tempo tempestoso vede / Sperando nello buono, ond’egli è pratico”.
Colpisce trovarlo in Matteo Maria Boiardo, nel suo incompleto Orlando innamorato (Libro I, canto XXIII, ottava 6), in cui scrive dell’Uomo selvatico in analogo tenore.

Abita in bosco sempre, alla verdura,
Vive de frutti e beve al fiume pieno;
E dicesi ch’egli ha cotal natura,
Che sempre piange, quando è il cel sereno,
Perché egli ha del mal tempo alor paura,
E che ’l caldo del sol li venga meno;
Ma quando pioggia e vento il cel saetta,
Alor sta lieto, ché ’l bon tempo aspetta.

L' homo selvaticus si caratterizza anche per la follia dionisiaca, profetica e oracolare, alogica, di pura veggenza, inversa rispetto alla sophia mondana, come in San Francesco, di cui si segnalano la visionarietà, l'amore per la Natura anche ostile, la capacità di parlare con gli animali, spesso i più disturbanti.
Fantastico per la pazzia il passo dell’Orlando Furioso, in cui il Paladino vaga tra i boschi seminudo, vero esempio di homo selvaticus. Nel canto 23 l’eroe urla, taglia in mille pezzi il sasso e gli alberi recanti le incisioni di Angelica e Medoro innamorati, finchè cade spossato e giace per tre giorni. Il quarto si rialza ormai folle e butta via armatura e armi, strappa di dosso i vestiti, sdradica alberi, ormai barbuto, con i capelli incolti..
Nel Morgante del Pulci (V, 37-65) non manca una figura simile, inquietante e oscura, di devastante rozzezza, tardo epigono del Ciclope. Con un vincastro di sorbo, si fa largo in una foresta scura andando verso il Sinai, ed ha un occhio fiammeggiante nel petto. Rinaldo si difende dal suo attacco e agisce come “l’argento vivo”, tanto che il conflitto appare una prova iniziatica.
Si tratta di immagini di formidabile portata, che arrivano, attraverso i secoli, fino ad un risultato filosofico di rilievo. Infatti, come non riconoscere l’immagine archetipica dell’homo selvaticus nel “buon selvaggio” di Rousseiana memoria? Nella cultura e nel culto del filosofo francese e del Primitivismo del Settecento, il "buon selvaggio" era considerato innocente e positivo proprio perché privo dei modi cortesi, espressione dell’ipocrisia della Società. Proprio perché libero ed a contatto con la Natura.
Il concetto di "buon selvaggio" si rifà a un'idea essenziale di uomo senza impedimenti imposti da una Morale. Poiché tale concetto incarna la convinzione che, senza le perversioni della civilizzazione, gli uomini siano essenzialmente buoni, le sue fondamenta giacciono nella dottrina della positività degli esseri umani, espressa nel primo decennio del Settecento da Shaftesbury, che invitava a trovare “quella semplicità dei modi, e insieme quel comportamento innocente, che era spesso noto ai selvaggi, prima che essi fossero corrotti dai nostri commerci” (Advice to an Author, Part III).
Selvaggi, dunque. Ma buoni, come quelli del romanziere statunitense James Fenimore Cooper (L'ultimo dei Mohicani, del 1826) o dell'autore tedesco Karl May (1842-1912) nelle sue storie sul Selvaggio West.
Vorrei chiudere questa breve excursus con due clamorosi esempi di Homo selvaticus moderno.

«Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo i fatti essenziali della vita, per vedere se non fossi riuscito a imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto. Il fatto è che non volevo vivere quella che non era una vita a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, succhiare tutto il midollo di essa, volevo vivere da gagliardo spartano, per sbaragliare ciò che vita non era, falciare ampio e raso terra e riporre la vita lì, in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.»

Walden ovvero Vita nei boschi, edito nel 1854, è il diario romanzato dell'autore, Henry David Thoreau, che passò ben due anni, due mesi e due giorni (1845-1847) nel recuperare un rapporto privilegiato ed essenziale con la natura per ritrovare se stesso in una società che non era più valoriale, ma solo utile e profitto. Il fine ultimo era la conciliazione dell’uomo nel mondo naturale grazie all'ottimismo del vedere l'uomo come faber sui e come essere portatore di sensazioni ed emozioni uniche. Per Thoreau l'uomo non solo vive anche in condizioni di povertà materiale, in una capanna, costruita in gran parte da solo, ma da queste può ottenere la felicità, imparando ad apprezzare maggiormente il piccolo, il minuscolo, l’insignificante.
Tralasciando lo Zarathustra nietzschiano, del 1885, che comunque abbandona la vita sociale per andare a vivere nei boschi e soddisfare la sua ferinità pienamente, vi propongo un altro lampo, l’ultimo.
Tarzan, apparso per la prima volta nel romanzo Tarzan delle Scimmie (Tarzan of the Apes, pubblicato originariamente nell'ottobre del 1912 sulla rivista The All-Story e in volume nel 1914) è un personaggio immaginario inventato da Edgar Rice Burroughs, e rappresenta l'archetipo del bambino selvaggio allevato nella giungla dalle scimmie, dello spirito innocente e benefico protettore della Natura, proprio come l’homo selvaticus, che ritorna poi alla civilizzazione solo per rifiutarla e tornare nella giungla selvaggia nelle vesti di eroe. 
Tutto torna, dunque. Un archetipo che dal passato lontanissimo ha lasciato echi anche nel mondo moderno. Ed oggi?
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BIBLIOGRAFIA

2 - Gaspani Adriano, Cernuti Silvia. L' astronomia dei celti. Stelle e misura del tempo tra i druidi. Keltia (1997)
5 - Tarzan.org - Sito ufficiale, su tarzan.org.
6 - Henry David Thoreau, Walden ovvero Vita nei boschi, Rizzoli, 1988
7 - https://sites.google.com/a/gb69prof.com/lezioni/approfondimenti/filosofia/buon-selvaggio
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