(Redazione) - Muto Canto - 23 - Di un dialogo con immagini fermate in parole per e con Angelo Curcio.

 

di Anna Rita Merico 

A proposito dell'opera di ANGELO CURCIO 
"Terramare" (Editrice Zona-level48, Genova 2022), 
con prefazione di Costanzo Ioni.

Un testo che si nutre di un poetico-viaggio in remote cartografie generate a sud. Cartografie intramate di luci e di soglie, di madri e di armonie, di sentieri e ricerche di bussole. Angelo Curcio rinnova gli antichi saperi legati alle sapienze degli apprendimenti della navigazione notturna facendone tratto lirico-esistenziale di adamantina bellezza.
La navigazione notturna di questo Autore è l’attraversamento delle perigliose acque in cui immergersi senza bussole al cospetto delle Scille e delle Cariddi che emergono dai e nei gorghi della Vita. Potenze da aggirare per nuove rinascite e la poesia resta l’unico autentico linguaggio per dire di tale materia.
Se le Scille e le Cariddi dei gorghi presenziano al movimento della scissione del pensiero, della frammentazione della parola, la poesia ha il potere di ri-armonizzare senso e significato trascendendo ogni sospensione di azione, ogni annullamento del gesto.

qualcosa tornerà come stilla alle radiche
e nuovo raggio avrà la ruota
in un desiderio di frescura
la scheggia di piombo narrerà alla pagina
il memento per i già nati

c’è ruggine
sullo stelo del falasco
m’esclude da una nuova livrea gemmata
claudicando in brezza
mi indica la dimora dell’acquitrino
che nasconde rotolare di risacca
e quell’achenio che ero un tempo
quell’acquatinta di fulmine nella fibra
saprà parlarmi di un ventre d’acqua
dove il sale era mio gemello di cellula
negato da una scintilla di tempo

nessun cerchio di tronco da contare
entro la sagitta delle scapole
quando il minerale d’aria
muta in altorilievo la propria sagoma
appare allora distante eoni di materia
quella lusinga che rianima infiorescenze
rimane il disastro delle intemperie
e poi nuova vita dal nodo dell’alba
appena un fuscello che diventa
pilastro di nido
sosta d’affanno
lungo una marcita di perpetua migrazione (pg 20)

Foto di Maurizio Tolotti per gentile concessione dell’Autore

TERRAMARE una silloge-sosta enigmatica, vulcanica, ricca di desiderio di esplorare la parola e la terra e il mare come dimensioni dell’essere e della possibilità. Un andare leggero eppure, dolcemente greve all’interno di esplorazioni interiori che affiorano e si trasformano. Esplorazioni che prendono forma e si annottano per tramutarsi in bellezza sottile di aurea polvere e immensità. La dimensione della corposità, in questi versi, si unisce a quella della sottigliezza e dell’evaporazione. È bene sia tu, Angelo, a fornirci accesso a questo universo di soglie che appaiono e scompaiono tra la terra e il mare, tra la roccia e il bagnato, tra il mobile e l’immobile…
Il varco d’ingresso è forse nella dualità che il titolo reca ben chiaro, quasi fosse stimmate. Terramare come sinonimo d’acquitrino premarittimo dove elemento acqueo e terrestre si fondono, rendendosi singolarmente irriconoscibili e artefici di un nuovo paesaggio materico. Terramare come fusione, appunto, di terra e mare, panorami in apparente contrasto, l’uno argine e muraglia dell’altro, spesso in contrasto d’onde e di crolli, molto più spesso quasi teneramente abbracciati. Terramare, infine, come fusione tra il soggetto e il verbo fuori dalle declinazioni, laddove terra stavolta intende l’intera dimensione naturale, indicando un luogo da vivere e preservare tanto nella dimensione materica quanto in quella spirituale.
IMMAGINI disseminate e prolifiche lungo e dentro ad ogni verso. Ogni immagine accompagna sparizioni, memoria, fondamento di essere lungo la linea di demarcazione che compare tra un addio ed una luce. Nulla si tiene mai definitivamente, tutto si allinea nel bordo della crepa eppure tutto viene colto nell’attimo preciso in cui vi è trasmutazione tra ciò che è e ciò che evapora. Un canto a ciò che resta. Un canto all’essenziale che deposita, pronto a generare, il ciò che è nuovo. Il paesaggio si è svuotato da ogni umana presenza ma è nello spazio creatosi che s’accende il lucore verde di una natura-mondo. E’ vulva pronta ad accogliere la perla ammantata di un nuovo che ondeggia in sospensione di tempo. Un complesso io poetico immerso nel dentro-fuori di un innominabile luogo dell’essere.
Uno smarrimento che chiede asse e radice…

Uno dei miei più antichi incubi è la cecità, sia essa dei sensi che dell’intelletto. Soprattutto non potrei immaginare la mia esistenza priva del dono della vista. Avessi posseduto altre doti artistiche probabilmente mi sarei cimentato con la pittura ad olio, l’acquerello, la tecnica del bassorilievo, la fotografia. Amo dell’immagine ciò che resta nella memoria e riesce ad offrire in visione, con il Tempo a fare da corollario per un percorso di sopravvivenza in continuo divenire.

un progettato addio da rammentare / che luce fa / quando fondamento di quiete / sembra essere unica regola / quella vera (pag. 14)

PREGHIERA unica forma di parola possibile. Poesia versata in rivoli di silenzio ondeggiante all’interno di origini sorgive. Si dipana un andare terragno, materico eppure elevato. Compare il nome pronto a posarsi nei limes delle alture, delle querce, dei recinti, dei pioppi lì dove le fragranze s’aprono a ciò che, pur claudicando, cerca il proprio passo. La silloge è la riscrittura di un calvario laico fatto di un ingresso lacerato nel nudo della carne…

Vengo da una terra dove a una altura, a una sponda di fiume, a un semplice incrociarsi di mulattiere in una remota località campestre, spesso le antiche generazioni hanno voluto attribuire il nome di un santo, quasi a voler concedere onore di santità ai luoghi del vivere. Il divino, nolenti o volenti, finiamo per portarcelo sulle spalle, come custodia per le necessità del viaggio o come fardello che ci fa arrancare lungo il cammino. E la memoria dei luoghi, il rammentarli col proprio nome, finisce per essere, inconsapevolmente, essa stessa una laica preghiera, sporca di terra e umida di pioggia. Una giaculatoria per ogni porzione di cammino.

ATTRAVERSAMENTI tra i regni della materia e quelli dello spirito. Rocamboleschi passi tra abisso e risalita. La materia riattraversa eoni di formazione e sedimentazione. Ogni infiorescenza stilla tensione d’altura. Lasciare, certo, lasciare la quotidianità con le sue infinite ripetizioni, con le sue mille opacità, con i suoi arabeschi di nullità e immergersi in un atavico in cui i passi seguono il corso dell’acqua. Di pietre, di cavee, di tracce, di aurore montanti, di gole solcate dai venti della creazione, di fossili, di semi che generano humus e forma, ancora…

Come mi risulta incomprensibile, a volte persino fastidiosa la linearità. Il nostro tempo è calendarizzato in cicli di ardue risalite e altrettanto estenuanti discese. Anche il più piatto degli orizzonti immobile non è se sono sufficienti un albero, una cortina di rovi, uno spontaneo cumulo di macigni a spezzarne la continuità. Quell’ansa in cui il fiume rallenta il suo corso non è affine alla tranquillità di giorni passati che ancora rimpiango? E quel crepaccio che ferisce il fianco del monte non mi rammenta un distacco definito e imprevisto? Sono lo spazio in cui vivo, polvere compresa.

PASSATO in cui s’invera ogni possibile parto d’essere. L’io lirico canta le soglie e i gradini, i telai e i nodi, le ore e il gelo, la genesi e l’apertura dell’occhio nello scampato naufragio, nel flusso dell’arteria. Qui, tra queste pagine, ogni tempo è minuto, assottigliato. Eppure, ogni segno di polvere s’ammanta d’immenso. L’io lavora nel battito della creazione dopo ricamo di perdita che ingoia vortice. Un neolitico circoscritto da pochi movimenti. Tutto è troppo “piede d’uomo e arto volatile” … “oltraggio alla messa a dimora” … immensa sospensione del creato prima del creato. A nessun uomo è dato accesso a questo fondo di tramestio planctonico sversato sulla terra.

“… una meridiana di foglia / mi indica la via” (pag. 26).

Mi attraggono profondamente l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, la dimensione delle galassie e delle nebulose quanto la sfida ai limiti del teorico delle particelle subatomiche. Dei mattoni minimi siamo noi stessi composti, nei gangli delle nostre terminazioni nervose hanno stanza le più ardite teorie d’infinito. Viviamo nel grande arazzo della creazione con la enorme potenzialità (e responsabilità) di essere noi stessi creatori: comprendere insieme i nostri limiti e i limiti del nostro agire.

AGRICOLTORE che apprende l’aratura, la messa a dimora, il volo della spora, l’angolo del sasso, il margine della foglia, il succhiare della radice, la risalita della linfa, il sonno portato dal gelo dell’inverno, il turbine del polline, la sistola che muove univoca la Vita tra corpo d’osso e muscolo e solco di terra e gemma, “il sonno testardamente m’appare / come morte effimera sconosciuta alla lingua” (pag. 14) In gemmazione di visioni esplode una Sicilia nera di lava e gialla d’agrumi, accoglie pregna il lento di un TU movenza di luce al crepuscolo di una riscrittura della Genesi. Suono, maestrale, tuono, principio, riverbero, fragilità, nerbo, mulattiera di moto, risalite possenti di vite vegetali. Eliminar-si dal centro, farsi margine, sottrarsi al tutto, arriparsi nel transito, accucciarsi nella lacrima che feconda la meraviglia dello sguardo primigenio…

La Sicilia, ma non solo. Anche l’Irpinia, lasciata con furori d’incomprensione trent’anni fa e costantemente nella mente col desiderio di tornare anche sporadicamente, in punta di piedi. E anche ogni altra terra in cui ho vissuto, anche se solo per breve tempo. Oso ancora di più: ogni regione o territorio che mi è stato descritto, in parola scritta o pronunciata a viva voce, che forse mai accoglierà il mio piede. Ogni voce d’uomo da ogni remota località è parte del coro, un coro pronto ad affievolirsi quando la melodia portante del nostro habitat prende il sopravvento.

“… non mi guardi / e l’assenza non germina infiorescenze/ muta la parola / ma più di pietra smeriglia / lascia sentieri senza rimpianto / …” (pag. 93)

PESCATORE… antenato di un confine / da violare per ansietà di germinazione / quello che anche vastità d’azzurro / s’illude di contenere / entro severi perimetri di arativo.” (pag. 45) Emerge lenta, persa in mantici di respiri di salmastro e riaffioranti abissi di fondali e gorghi di maree, emerge lenta e polposa l’acqua. E l’agricoltore prende pinne e branchie e si trasforma in pescatore. E con impronta di mano solca acqua e traccia genesi. E tutto sa di secco. E cerca scoglio per appuntare sguardo nell’immenso dell’infinito ondivago nell’albeggiare che, salato, s’incista tra palato e pensiero

il mare che sommerge e scopre
questo il nome della tua nostalgia
quella spiaggia senza requie di spuma
che il nome di una Santa portava
come un anello di promessa al dito
potevi fantasticare di un altare tra gli scogli
tradurre in preghiera gotica
il respiro d’onde tra quell’abbozzo di faraglione
le alghe sulla rena come una plebea infiorata
sotto un’abside di luce (pg 56)
Foto di Anne-Marie Saglimbene per gentile concessione dell’Autrice

Quella marina è una dimensione che, per i limiti della nostra anatomia, non ci apparterrà mai del tutto. Resta, ed è fondamentale che sia così, una fonte di sostentamento, una strada acquea per viaggi e traffici. Resta soprattutto il luogo dell’insondabile, del mai completamente conoscibile. Percorriamo le onde, gli sconvolgimenti di salmastro, ansiosi sempre di scorgere all’orizzonte una familiare sagoma di terra, familiare anche se chi la abita parla un idioma a noi incomprensibile. Almeno per chi scrive l’acqua, nella sua forma di fiume o di bacino naturale o di golfo o di mare aperto, sarà sempre una liquida strada, mai un confine.

SEGRETO di ciò che, nella parola, compare. La parola come alga primordiale seminatrice di fertilizzanti impastati di luce. Incroci di maree e geometrie d’acqua. Prendono forma gli oltremare del mito e l’universo del remoto che sferza i corpi celesti come anime agl’inferi in perpetuo moto. “… ti spetta il cimento grande / decrittare il mare nel suo pendolo di furore e bonaccia / … / ti conduco eredità d’acqua…” (pag. 64) Sono all’interno dell’imperfezione. Sono nel sotto dell’involucro della pelle lì dove l’intero universo può sostare pur senza bussola e nel “piastrellato … dei miei frammenti”, nel fondo d’ogni mia urlante rinascita senza vagito…

Attendere ogni risveglio mattutino, accoglierlo come quotidiana rinascita col bagaglio del vissuto ben radicato dentro. Il linguaggio attinge ai miti, li deforma e trasfigura, ne fa pilastri per ulteriori cimenti. La parola è forse la nostra definitiva eredità, pur con tutti i suoi sofferti limiti.


SONNO: vorrei dirti di queste palpebre abbassate su acufeni di colori e di suoni. Tempo che congela e geroglifico perduto, singulto abitante di placenta e calpestio lento del respiro. Sonno come dentro di alba solo mia e sbavo di latte e ustione di Vita e membrana di villo e gocciolio umido di vento di scirocco pregno d’ogni.

RISVEGLIO: l’io poetico s’abbarbica alla lingua. È lingua che nomina. Questo il tuo modo di partecipare all’atto di creazione. Ora è la vibrazione d’ugola ad essere trasmutazione di corpo che sguscia e si ri-forma. Sentiero squartato dall’ombra, esilio nel pulviscolo della luce, “… segni di punteggiatura / stasi dell’ossigeno in gola (pag. 84). Ottave, semitoni, diatoniche e intervalli, silenzio di fonemi e ninnenanne, silenzio di pelle e sospensioni d’olfatto nella stura dell’infanzia che torna dopo l’andare del passo che l’infanzia precede. Attraversarlo tutto questo passo ringraziando larve, licheni, squame, artigli, spore. Attraversarlo tutto questo passo, sostando nel ciò che appare senza vissuto. Nel ciò che viene prima dell’ontologico ingranaggio che lega l’innocente tutto.

... potremmo essere gloria del mattino lanciata negli spazi / dove il tamtam dello sciamano incontra fulmine e nebulosa d’argilla / siamo soltanto immobilità d’icona / soffio d’aria disegnato lungo il profilo / vuoto e colmo penombra e canicola in un roteare di ciglia / madre di un cristallo trasparente di miele accoglimi / prima che cambi riflesso la mia ombra (pag. 92)

Nella scrittura di TERRAMARE l’uomo è protagonista, ma non per lascito divino o di presunta superiorità sugli elementi e sugli altri esseri viventi, ma perché le sue azioni, il suo sentire, i suoi sentimenti trovano riscontro, diretto o simbolico, tanto nella percezione di insondabili abissi marini quanto nel minimo lavorio di una goccia d’acqua: un dono raro, privilegiato, non esente da responsabilità, un “debito di riconoscenza” verso qualcosa che “sopravvive a noi a tutti a tutto” (dalla nota di autopresentazione al testo).
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DICE DI SÉ L'AUTORE

Nasco ad Avellino nel giugno del 1966.
Le prime esperienze di scrittura coincidono con la militanza politica: volantini e giornalini ciclostilati rappresentano un singolare strumento per far circolare i miei versi.
Nel 1987 dò vita all’esperienza di Mehr Licht, una rivista di arte e poesia dalla traballante periodicità che nel corso della sua breve vita ospitò nelle proprie pagine contributi poetici di autori di varia provenienza geografica, molti dei quali hanno negli anni raccolto significativi riconoscimenti.
Mie liriche hanno ricevuto positivo riscontro in vari certamen (Soragna, Petruro Irpino, Montepulciano e soprattutto Conza della Campania, con un primo premio nel 2017 e piazzamenti d’onore nelle due edizioni successive).
Ho pubblicato, nella collana “Quaderni d’Autore” delle Edizioni Il Papavero di Manocalzati (AV) i volumetti di poesia “Con una pietra al collo e un groppo in gola” (2010, omaggio a Fabrizio De André), “Luna dei terremotati” (2010, nel trentesimo anniversario del sisma dell’Irpinia) e “La preparazione all’aria” (2012; quest’ultimo scritto a quattro mani con la poetessa tarantina Silvana Pasanisi). Per la succitata collana ho anche curato la pubblicazione di vari autori.
Tra il 2015 e il 2017 pubblico tre racconti di science fiction “poco ortodossa” su altrettanti numeri dell’antologia di genere “Scritture Aliene” (Editrice GDS); successivamente essi sono stati ristampati come singoli e-book, disponibili sulle principali piattaforme librarie.
Dal 2006 vivo a Lercara Friddi, paese dell’entroterra siciliano. Negli ultimi anni sto affiancando alla scrittura lo studio della musica e del folklore celtico e nordeuropeo.
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