(Redazione) - Dissolvenze - 43 - Avorio
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di Arianna Bonino |
Io sono l'uomo elefante:
la mano mi copre gli occhi
e non mi acceca mai.
…
Io sono
dico sempre
senza finire mai
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Foto ricavata dal web |
Il
dottor Treves, chirurgo reale britannico formatosi presso il Royal
London Hospital (che all'epoca si chiamava ancora White Chapel),
visse tra il 1853 e il 1923. Forse di lui si sarebbero perse le
tracce se non fosse stato che tra i suoi pazienti ebbe in cura anche
Joseph Carey Merrick, più noto come "L’Uomo Elefante",
cosiddetto a causa delle deformità che lo affliggevano.
L’origine
del processo degenerativo che condannò fin dall’infanzia Joseph
Merrick ad un aspetto prima asimmetrico, poi disarmonico, quindi
mostruoso, è identificata nella Sindrome di Proteo, anche se in
realtà lo stato dei resti del suo corpo non è tale da permettere
esami che diano la certezza clinica definitiva sull’effettiva
diagnosi. Qualsiasi nome abbia, il male che lo colpì sfigurò la sua
intera persona.
La Sindrome di Proteo è una patologia genetica
rarissima, se consideriamo che ad oggi risulta aver colpito non più
di 200 persone al mondo. Rara e atroce: crudele e incurabile, si
manifesta in svariati modi, molto diversificati e comunque sempre
accomunati dalla crescita abnorme e asimmetrica di organi e tessuti,
con conseguenze gravissime sia dal punto di vista organico-funzionale
che per la terribile deformità di una o più parti del corpo. La
Sindrome di Proteo compromette fatalmente gli organi vitali, causando
quasi sempre una morte precoce.
Nell’intervallo di tempo che
chiamiamo esistenza, chi ne è affetto non è solo destinato a
sofferenze fisiche difficilmente immaginabili, ma anche, appunto, a
dover sopportare la tortura di un aspetto disarmonico fino al
raccapricciante e tutto ciò in piena consapevolezza, visto che, a
differenza di quanto si poteva un tempo ritenere, è ormai chiarito
che questa patologia non incide di per sé sulle capacità cognitive
e intellettive di chi ne è affetto.
Joseph Merrick
condivise i ventotto anni della sua esistenza terrena con dolore e
sofferenza, ma anche con tutte le privazioni fisiche, sociali e
affettive che uno stato e un aspetto come il suo comportano.
Se
non si sapesse nulla di lui, osservando le fotografie che lo
ritraggono, parrebbe di trovarsi di fronte al primo abbozzo di uno
scultore che abbia iniziato a lavorare la pietra per trarne il
sembiante di un giovane uomo, ancora intrappolato nella materia. Un
fanciullo i cui occhi mostrano il desiderio di emergere da quello
stato, ma anche il terrore di essere condannato a non potersene
liberare, avviluppato in un eccesso di sostanza, con l’angoscia di
venirne via via sepolto, inghiottito, soffocato.
Joseph
Merrick nacque a Leicester il 5 Agosto 1862. I primi segni della
malattia compaiono già nell’infanzia e compromettono la normale
possibilità di esprimersi verbalmente, oltre a privarlo di ogni
socialità.
Il destino degli esseri senza pari è spesso
l’emarginazione. Il primo rifiuto avvenne già in famiglia: rimasto
vedovo, il padre si risposò con una donna che, con lui, respinse da
subito Joseph proprio per il suo aspetto. Undicenne, Joseph andò a
vivere con lo zio Charles.
Tra il 1880 e il 1884, quindi tra i
diciassette e i vent’anni, fu ospite della Leicester Work House, un
ricovero per indigenti; nel censimento del 1881 risulta che la sua
professione fosse quella di venditore ambulante, attività che
peraltro fu costretto presto a cessare sia per l’inabilità fisica
che per il raccapriccio altrui e quindi l’isolamento a cui lo
sottoponeva il suo accapponante volto senza volto.
La sua
indole, la sua umanità, così come la sua potenzialità intellettiva
furono soffocate dall’abnorme proliferazione del suo corpo, al
quale, a quel punto, Merrick dovette arrendersi. Spinto dalla povertà
e dalla mancanza di alternative, Joseph divenne quello in cui fino a
quel momento aveva cercato di non trasformarsi e cioè la sua sola
eccedenza, la sua sola anomalia, il suo solo corpo. L’animale di
cui aveva assunto sempre più le sembianze e che incrociava il suo
sguardo negli sguardi attoniti dei passanti, e così nello specchio
ogni mattina e ogni sera, si insinuò nella sua stessa identità, nel
suo stesso nome: Merrick divenne l’Uomo Elefante.
Fu
lui stesso a scrivere a Sam Torr il quale, dopo una brillante
carriera come cantante di music hall a Nottingham e dintorni, si era
trasferito con la famiglia a Leicester rilevando prima il Green Man
pub e trasformando infine un vecchio locale di Wharf Street nel suo
nuovo music hall, il Gaiety Palace of Varieties, senza peraltro
riscuotere lo sperato successo.
Merrick si propose a Torr
nell’unico modo in cui sapeva di potersi proporre e cioè come
fenomeno da baraccone. Una volta incontrato Joseph Merrick, Torr non
esitò ad organizzare freak show itineranti ove poter esibire quello
che fu lui stesso a smettere di chiamare Merrick e a rinominare “Uomo
Elefante”. Ma non aveva senso limitarsi a Leicester e Nottingham.
Per sfruttare al massimo le potenzialità di quello scherzo della
natura, mezzo uomo e mezzo elefante, bisognava sbarcare a Londra. E
Torr così fece, affidando quell’esemplare unico al mondo al suo
collega Tod Norman, che apriva al pubblico le porte della sua
wunderkammer di umane e viventi mostruosità al numero 123 di
Whitechapel Road, non lontano, quindi, dal White Chapel Hospital dove
il dottor Frederick Treves svolgeva brillantemente la sua professione
di anatomista.
L’Uomo Elefante era una delle attrazioni più
speciali del freak show di Londra, anzi, la più spaventosa, tanto
che lo stesso Norman tentennò non poco prima di decidere di
esibirlo, ritenendone la vista troppo traumatizzante. Per aumentare
l’attrattiva, l’impresario fece anche predisporre un piccolo
opuscolo con una finta nota biografica zeppa di assurdità che
descrivevano le fantasiose origini di quell’anomalia e
dettagliavano particolari anatomici e non, così da pungolare le più
morbose curiosità del pubblico. Un penny per cella, in ogni cella
uno spettacolo unico al mondo. Così i londinesi ebbero modo di
soddisfare la loro curiosità sull’Uomo Elefante, e sulla donna
scheletro e, perché no, su Mademoiselle Electra.
Ma non durò
a lungo, vuoi perché la moda del freak show era ormai in declino,
vuoi perché si iniziava ad avere una diversa considerazione di quei
“fenomeni”.
Fu poco prima che l’impresa di Norman
chiudesse che il dottor Treves ebbe modo di incontrare l’Uomo
Elefante. Merrick fu subito invitato da Treves a sottoporsi a una
visita medica. Il suo caso, unico al mondo, nel 1884 fu esposto da
Treves alla Società Patologica di Londra. Ma l’Uomo Elefante non
si trattenne all’ospedale, aggregandosi prima ad una compagnia
circense e poi girando l’Europa, dove finì per essere non solo
sfruttato, ma persino derubato dal suo impresario.
Rientrato
a Londra da Bruxelles, dove era stato brutalmente abbandonato, fu
accolto dal dottor Treves nuovamente e definitivamente presso
l’ospedale, dove Merrick riprese il suo nome e visse i suoi ultimi
anni nella piccola serenità che gli fu concessa dal suo male.
Il
dottor Treves non ebbe a che fare con l’Uomo Elefante, ma con
Joseph Merrick. Quel che sappiamo di Merrick, lo sappiamo proprio
grazie alle memorie che ne scrisse Treves.
Da un uomo di
scienza sarebbe lecito aspettarsi uno scritto altrettanto freddo e
razionale, scevro da sfumature poetiche. E invece il dottor Treves
-–che, per inciso, ebbe un poeta come precettore – in questo
speciale caso non ci ha lasciato una semplice cartella clinica.
Tra
i passi più significativi della memoria di Treves c’è questo:
"Mi
ero fatto l'idea che Merrick fosse imbecille, e lo fosse dalla
nascita. Era una supposizione fondata su quel volto privo
d'espressione, su quelle parole biascicate, su quell'atteggiamento
che lasciava intravedere una mente incapace di emozioni o di
pensieri. In realtà, che quella mente fosse vuota quanto immaginavo
era, prima che una convinzione, una speranza. L'idea che quell'essere
capisse la sua situazione era inaccettabile. Stiamo parlando di un
uomo nel fiore della giovinezza, ma così orribilmente deforme da
provocare, in chiunque lo incontrasse, uno sguardo di avversione e di
disgusto. Veniva portato in giro per il paese come un fenomeno da
baraccone, allo scopo di suscitare ribrezzo. Veniva evitato come un
lebbroso, fatto dormire come un animale selvatico, e poteva guardare
il mondo soltanto da uno spioncino nel carro del suo impresario. E
non è tutto. Camminava a stento, poteva usare un braccio solo, e si
esprimeva con estrema fatica. Ma le spaventose dimensioni della sua
tragedia mi sono state chiare solo quando ho capito che Merrick era
intelligentissimo, straordinariamente sensibile e, – purtroppo –
molto incline alle fantasie, specie di carattere sentimentale...
Merrick aveva una testa talmente grossa e pesante che non
poteva dormire disteso... Era quindi costretto a dormire in una
posizione molto strana. Doveva sedersi sul letto con la schiena
appoggiata ai cuscini, la braccia intorno alle gambe raccolte, e la
testa appoggiata sulle ginocchia. Mi aveva spesso detto che gli
sarebbe piaciuto coricarsi ‘come gli altri’..." (1)
E
fu proprio coricandosi per dormire almeno una volta come gli altri
che Merrick, l’11 Aprile 1890, non ancora ventottenne, realizzò
questo suo desiderio.
Da quel sonno dormito finalmente come
tutti gli altri Joseph Merrick non si svegliò mai più.
Il
libro di Treves è una testimonianza eccezionale di una vita ancor
più unica.
Il suo The
Elephant Man and Other Reminiscences, così come The Elephant Man: A
Study in Human Dignity di Ashley Montagu sono
i testi su cui è costruita la sceneggiatura del notissimo film The
Elephant Man di David Lynch che solo tre anni prima di questo
indelebile capolavoro, aveva esordito con un opera visionaria e
spiazzante: Eraserhead (1977). Fu il giovane produttore esecutivo
Stuart Cornfeld (a cui, tra l’altro si deve il binomio Cronenberg
-The Fly) a suggerire Lynch a Mel Brooks. Lynch accettò la proposta
di Cornfeld senza sapere altro che il titolo del film che avrebbe
dovuto dirigere.
“The Elephant Man”, come Cornfeld
pronuncia quelle parole, Lynch sa che è per lui:
“Solo
il titolo. Non sapevo niente, ma sapevo già tutto.” (2)
Ed è proprio dal toccante memoriale del dottor Treves che
prende il via la scrittura a tre mani (Lynch, Eric Bergen e
Christopher De Vore),
di una delle
più belle sceneggiature della storia del cinema.
Il
film, candidato a 8 premi Oscar, non se ne aggiudicherà nemmeno uno.
A fare il pieno quell’anno sarà Ordinary People di Robert Redford.
Il giorno dopo l’assegnazione degli Oscar Mel Brooks dirà: “Tra
dieci anni “Ordinary People” sarà la risposta di un gioco da
tavolo, mentre la gente continuerà a guardare “The Elephant Man””. (2)
Credo che, con tutto il rispetto per Redford, si possa
affermare senza dubbi o riserve che Brooks aveva ragione.
Lynch
riesce a creare Merrick, a farlo rivivere com’era: un corpo che è
una lenta e continua esplosione, un’eruzione che porta materiale
dal profondo verso l’esterno, una forza irrefrenabile che da dentro
tracima oltre i limiti, ridefinendoli continuamente, procedendo oltre
ogni concepibile confine. Ma anche un ragazzo innocente e desiderante
e, su tutto, quello che più ci lascia, è la nostalgia delle
innumerevoli, irraggiungibili cose – a lui, a noi –
impossibili.
“No!
Io... non sono un elefante! Io non sono un animale, sono un essere
umano! Un uomo... un uomo!”
La
colonna sonora, sempre curata da Lynch, amplifica all’infinito con
l’adagio per archi di Samuel Barber lo struggimento delle ultime
parole di Merrick (qui li link)
Dell’Uomo
Elefante rimane oggi uno scheletro dilavato, come fosse di marmo. Per
ora è ancora conservato in una stanza privata presso la facoltà di
medicina della Queen Mary University di Londra, anche se qualcuno ha
richiesto di dargli finalmente cristiana sepoltura a Leicester, dove
Merrick nacque. Il cranio pare scolpito di ciocche, fitto di riccioli
barocchi. La curiosità spinge a osservarlo, a insistere su
quell’unicità, sull’eccezione che è stato e rimane.
Meno
frequente, invece, che ci si soffermi sulla sola lettera di lui che
si sia conservata.
Forse perché quella non l’ha scritta
l’Uomo Elefante, ma Joseph Merrick.
È rivolta ad una donna
che un giorno, incrociando il suo sguardo, non impallidì, non
inorridì, non rise. Fu la prima donna che a Joseph rivolse un
sorriso. Gli fece anche un dono.
Per questo motivo Joseph le
scrisse proprio quelle
parole.
_____
NOTE
1 - Frederick Treves, L’Uomo Elefante, Adelphi, 2020, traduzione di Matteo Codignola
2 - Lynch
on Lynch, edited by Chris Rodley, Faber and Faber, 2005
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